Michael ovvero “Chi è come Dio?”

Albrecht Dürer, San Michele

Michele Vangi

Il verdetto della comunità di lettura è stato pronunciato qualche giorno fa: Kleist ha vinto in un duello – feroce e imprevedibile – con Canetti. È stato appassionante osservare l’inquieto ufficiale prussiano e il sensibile letterato plurilingue contendersi il favore dei lettori. Probabilmente Canetti poco avrebbe gradito il vedere soccombere la sua diffusa e a tratti autocelebrativa narrazione biografica alla cronistoria di un fattaccio di cavalli, omicidi, razzie e profezie.

A me tocca il compito di introdurre la discussione sul libro vincitore, riprendendo in parte le mie riflessioni già pubblicate su questo blog. Lo farò illustrando brevemente alcune delle ragioni della mia passione per una storia raccontata con somma sagacia, ma soprattutto avrò il piacere di leggere del vostro “plaisir du texte”.

“Sulle rive del fiume Havel viveva, intorno alla metà del sedicesimo secolo, un mercante di cavalli, che si chiamava Michael Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola, uno degli uomini più giusti e allo stesso tempo più terribili della sua epoca.” Magia della compresenza di opposti in uno stesso carattere: un critico – Walter Müller-Seidel – ha scritto dell’ambivalenza dei personaggi kleistiani, racchiusa in quel “allo stesso tempo”, in quel “zugleich” che, rivela fin dall’incipit l’ambivalenza del personaggio che la sete di giustizia spinge alle crudeltà più efferate, tanto che il narratore può propinarci impassibile una frase fulminante: “Ma il senso di giustizia lo trasformò in brigante e in assassino”.

La dissonanza, tuttavia, non è solo negli uomini, essa risiede anche e soprattutto nelle concatenazioni di eventi a cui essi reagiscono. Una cattiva costellazione di coincidenze domina il cielo di molte storie di Kleist e questo racconto ce ne offre numerosi esempi. A volte sono coincidenze solo simboliche, sinistri presagi, come quando Kohlhaas per la prima volta entra nel salone dello Junker Wenzel von Tronka e, casualmente, viene accolto dalle fragorose risate di una compagnia banchettante, che sembrano essere rivolte a lui.

A volte invece accade – “Es traf sich” altro tipico “attacco” degli spartiti kleistiani – che a una coincidenza positiva se ne opponga un’altra di segno contrario e la soluzione del garbuglio si allontana sempre di più o si innescano catene di effetti collaterali. Kohlhaas sembra per esempio trovare un alleato in Heinrich von Geusau, un funzionario dello stato di Brandeburgo, che prende a cuore la sua causa e si offre di perorarla presso il suo principe. Poco dopo si scopre che la pratica è stata insabbiata perché il cancelliere del principe è un parente dello Junker accusato da Kohlhaas.

Questa brutta storia, insomma, viene a dirci che il mondo è in disordine e che è impossibile non far traboccare il contenzioso dai limiti del perimetro giudiziario. E questo non ci meraviglia, visto il prodigioso subbuglio storico in cui viveva il nostro autore: da avversario gli fu dato di osservare da vicino l’ascesa fulminante di Napoleone che coincise, ad un certo punto, con il declino repentino dello stato che Kleist servì da militare prima e da funzionario dopo, non senza spirito patriottico. Un chiaro riverbero nel racconto del rivolgimento sociale vissuto dall’autore in prima persona è il conflitto fra l’affermazione delle libertà individuali da parte della borghesia e la difesa di privilegi di casta da parte di una classe nobiliare, rea di usare i rapporti di parentado per influenzare il potere giuridico. Kleist aveva vissuto in prima persona questo conflitto epocale: da un lato fu sempre molto legato a tradizioni e ideologia della nobiltà militare prussiana da cui proveniva, dall’altro lato visse con coraggio e passione la sua volontà – tutta borghese – di uscire dal percorso prescrittogli dal suo lignaggio, votandosi alla ricerca di una realizzazione come scrittore.

Continuo però a trovare appassionante anche gli interrogativi più squisitamente politici sollevati dal racconto: può il sentimento di (in)giustizia trasformare un cittadino “perbene” in un bandito e un assassino? Può un’ingiustizia – e tale è sicuramente quella subita da Kohlhaas – trasformarlo in un angelo sterminatore? È in qualche modo giustificabile la risoluzione del contratto sociale?

Kleist fa di un oscuro episodio di cronaca nera del ‘500 un grandioso romanzo criminale che tocca i nodi della convivenza civile. Proprio la tematica del contratto sociale era vivacemente dibattuta nella filosofia del diritto del tempo, nel Leviatano di Hobbes, ma soprattutto nella versione di Rousseau, aggiornata allo spirito dell’assolutismo illuminato. Il germanista Paul Michael Lützeler riconosce un’eco di Rousseau nella frase di Kohlhaas, altra potente accensione kleistiana: “meglio allora essere un cane, se devo essere preso a calci, che un uomo!” Chi infatti decide di sciogliere il contratto sociale stipulato con l’ordine statale, sceglie consapevolmente di tornare all’originario stato naturale. Diversa però è la situazione di Kohlhaas che non ricorre semplicemente al suo diritto alla resistenza, ma si ribella all’ordine sociale nel suo complesso in modo distruttivo. Qui pare di cogliere una posizione di condanna del protagonista da parte dell’autore, che probabilmente dava ragione all’amico Adam Müller, filosofo del diritto che redigeva assieme a lui il giornale Phoebus: al cittadino, secondo Müller, non è dato di chiamarsi fuori dallo stato perché lo stato è il suo elemento naturale; formatosi e sviluppatosi nei secoli, l’ordine politico è quasi una sua seconda natura. Si percepisce anche la dialettica tra due scuole di pensiero, quella illuminista e quella del “romanticismo politico”, di fronte alle quali non è dato di comprendere con chiarezza la posizione di Kleist.

Questo racconto – che è anche la storia di un processo – pone inoltre sul tavolo questioni ancora attuali che, pur sembrando oggi raggiungimenti acquisiti, tornano di quando in quando ad essere oggetto di discussione: il diritto di ogni cittadino ad un giusto processo; la legittimità di una sollevazione violenta contro un potere riconosciuto ingiusto, invasore o tirannico; il valore dell’esemplarità della pena.

Kleist tiene a essere cronista meticoloso, ma è anche fine caratterista, alla maniera tipica dei suoi racconti: poca introspezione psicologica, i suoi personaggi sono tutti parole, azioni e gesti. Si pensi a Lisbeth, moglie del protagonista, che accompagna il suo appassionato rivolgersi al consorte con una mimica quasi teatrale: dal suo inquieto andare avanti e indietro nella stanza fino all’ultimo gesto in punto di morte, quando, ormai incapace di parlare, indica al marito un passo della Bibbia che gli prescrive di perdonare anche coloro che lo odiano.

Svetta su tutti i personaggi il protagonista Kohlhaas che tiene fede, fino allo straordinario finale, alla dicotomia dell’incipit: il giustiziere implacabile dal volto umano accetta, a modo tutto suo, il verdetto del giudice. Risiede, forse, in questa precisione e coerenza anche nella radicalità, il carattere prettamente tedesco del personaggio. Il progetto destabilizzatore di Kohlhaas segue un piano preciso che prevede la raccolta di armi e risorse finanziarie e il reclutamento di uomini. Non è trascurabile l’esigenza comunicativa che è codificata nella scrittura: gli “editti kohlhaasiani” rispondono all’inizio a una “logica” del terrore, intimando ad esempio agli abitanti di Wittenberg di non offrire asilo allo Junker nemico, minacciando altrimenti di incendiare la città. Gli editti diventano successivamente delle minacce deliranti, in cui il protagonista arriva a definirsi il luogotenente dell’Arcangelo Michele, che incombe con la sua spada sull’ingiustizia che domina il mondo.

Credo, che sia la costruzione “a valanga” del racconto a renderlo avvincente: un insignificante litigio per due cavalli si ingrossa in un crescendo inesorabile, fino a diventare un caso di stato, su cui si misurano i vertici della politica internazionale. Kleist chiama in causa perfino Martin Lutero: il riformatore prima redige un editto di condanna che viene affisso ai muri dei tutte le città della Sassonia – una forma di comunicazione evidentemente a lui congeniale – poi dà dimostrazione di grande pragmatismo, chiedendo ai politici l’amnistia di Kohlhaas in nome della tranquillità sociale. Così, destreggiandosi fra una selva di personaggi storici, figure minori e masse minacciose, Kleist costruisce il suo denso capolavoro. Il flusso degli eventi scorre rapido ed inarrestabile come un magma che si biforca in pericolosi rivoli secondari: Kleist riesce a imbrigliarlo nella sua prosa, anche attraverso un’articolazione del periodo ampia e ipotattica, a cui fa fronte una lingua asciutta e non pretenziosa, ammirata da Kafka.

Lo scrittore sembra “in preda a uno spasimo di concitazione”, come ben dice Anna Maria Carpi. Questo spasimo sembra trasmettersi a noi, regalandoci ancora oggi un’esperienza di lettura il cui piacere sta proprio forse nel suo ritmo vorticoso.

Michele Vangi

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3 Responses to Michael ovvero “Chi è come Dio?”

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