Heinrich von Kleist, Opere

Eugenio Spedicato

La pubblicazione di un nuovo Meridiano è un fatto di portata storica nel panorama editoriale italiano. Quando un nuovo Meridiano vede la luce, il critico si fa particolarmente vigile, per vagliare con cura, con prudenza, ma anche senza inutili valzer di parole, se la fiducia riposta è stata ricompensata, se l’appuntamento con la Storia è stato rispettato o mancato.

Il Meridiano dedicato a Kleist colma una lacuna vistosa. Uno degli autori più grandi, ma anche più controversi della storia della letteratura tedesca ed universale trova finalmente il posto che gli spetta nella galleria dei classici in traduzione italiana. Il volume riunisce tutte le opere di Kleist, includendo anche testi mai tradotti, ma ad esclusione dell’epistolario, un’esclusione che pesa molto, inutile nasconderlo. Si poteva almeno includere una selezione delle lettere più belle e importanti. Il lettore che già conosce Kleist in traduzione, ma può leggerlo nell’originale, tirerà un respiro di sollievo nello scoprire che molto è stato tradotto ex novo (La famiglia Schroffenstein, La battaglia di Arminio, La brocca rotta, Il principe di Homburg, Roberto il Guiscardo, duca dei Normanni, Il teatro delle marionette) e che perciò non gli toccherà di rivedere, impreziositi dalla carta finissima, certi errori e certe imprecisioni contenuti in quelle già esistenti. Con piacere ritroverà le traduzioni di Giorgio Zampa (Käthchen di Heilbronn), Enrico Filippini (Pentesilea) e Roberta De Monticelli (Anfitrione).

Con meno piacere constaterà il riemergere di vecchie perplessità. Nella Pentesilea ci sono varie imprecisioni e scelte non felici nella resa di singole parole (detto di passata – anche un errore materiale: viene attribuita a Protoe una battuta di Meroe). Per esempio Versehen, termine di cruciale importanza in Kleist, viene reso con “errore” (p. 384), mentre Bistolfi nella Famiglia Schroffenstein giustamente preferisce “abbaglio” (p. 99); Küsse, Bisse, letteralmente baci, morsi (siamo nell’ultima scena, quando Pentesilea imbastisce la sua grottesca difesa) vengono resi con “amore, orrore” (p. 384): era meglio perdere la rima che cancellare la materialità sessuale di baci e morsi, ma ci sono altri casi di questo tipo. La traduzione dell’Anfitrione non sempre è all’altezza del suo compito, in particolare nella celebre quinta scena del secondo atto, dove compaiono rese discutibili (mein Abgott, letteralmente “idolo mio”, diventa “mio tesoro”, p. 244, eccetera).

Le traduzioni di Marina Bistolfi, invece, sono eccellenti. Non solo non contengono sviste o inesattezze, ma sciolgono con semplicità ed eleganza i nodi dell’originale, senza sbavature, senza inutili personalismi. Provi il lettore curioso a mettere a confronto, per esempio, la traduzione della Famiglia Schroffenstein di Ervino Pocar, grande traduttore, con quella della Bistolfi. Finirà per chiedersi: ma chi dei due è Kleist? La mia risposta, senza possibilità di ripensamento, è: il vero Kleist sta nel Meridiano. Una bella sorpresa sono anche le nuove traduzioni di Cesare Lievi, Anna Maria Carpi e Renata Colorni. Una sola osservazione nel merito riguardo a Lievi: in certi casi Lievi semplifica il testo dell’Homburg e della Brocca rotta, e lo fa da regista teatrale quale egli è, forse essendosi chiesto di volta in volta come avrebbe potuto suonare in scena un certo verso kleistiano ed essendosi dato la risposta che non sarebbe suonato in modo naturale, con agilità. Ecco, in casi del genere Lievi è intervenuto e ha semplificato, nel senso che ha reso l’originale più agilmente recitabile o anche leggibile. Non so se questa operazione è opportuna, forse era meglio astenersene. Anche in questo caso comunque ci troviamo di fronte ad un lavoro attento e compiuto con scrupolo. Lo stesso si deve dire del Guiscardo tradotto da Carpi.

Sulla completezza del volume non possono essere formulate che lodi. Lettere a parte, esiste però un’altra mancanza, che doveva essere evitata. Va da sé che un Meridiano non è il doppione di un volume del Deutscher Klassiker Verlag (l’edizione tedesca di riferimento di questi testi) e perciò, per esempio, non può contenere La famiglia Ghonorez, la prima stesura della Famiglia Schroffenstein. Ciò vale anche per frammenti di altre opere. Ma la Variante, la scena XIII nell’atto III della Brocca rotta, voluta da Kleist nell’edizione a stampa del 1811, ovviamente inclusa nel volume di riferimento del Deutscher Klassiker Verlag, non doveva essere esclusa. Carpi la ricorda nell’apparato critico sottolineandone l’importanza, anche se senza prendere in considerazione la questione controversa della sua interpretazione, ben nota agli studiosi di Kleist, principalmente in relazione al personaggio del consigliere Walter. Questa Variante, si badi bene, offre un finale ambiguo e per certi versi contraddittorio rispetto al finale conosciuto. E soprattutto: la Variante era per Kleist un altro finale dell’opera, che doveva essere conosciuto.

Concludo con alcune osservazioni sulla cura del volume, a cui ha provveduto Carpi, nota germanista e biografa di Kleist. A firma di Carpi sono l’Introduzione, la dettagliata Cronologia e un’ampia parte delle utilissime Notizie sui testi e note di commento, alle quali ha dato il suo prezioso contributo Stefania Sbarra. Chiunque si accosti a Kleist, che sia la prima volta o no, troverà in questi materiali un corredo indispensabile, una bussola complessivamente affidabile. Il genio tormentato di Kleist, i punti di forza della sua produzione, la grande novità e modernità di tanti elementi presenti nei suoi scritti, ma anche la stranezza e la straordinarietà del ‘pianeta’ Kleist: tutto questo è illustrato da Carpi con competenza e completezza di informazione, ricorrendo frequentemente alla letteratura critica, anche a quella più recente. Va però detto che alcune affermazioni di portata tutt’altro che secondaria non convincono. L’Introduzione suscita dubbi e perplessità, stimola la critica e per certi aspetti non risponde alle aspettative. Anche le Notizie contengono affermazioni discutibili. Non sto parlando dell’incipit dell’Introduzione (“Heinrich von Kleist è un mito”, p. XI) e nemmeno del titolo Kleist, il “genio sinistrato” (in tedesco verunglückt), desunto dalla lettera di Kleist alla fidanzata Wilhelmine von Zenge del 10 ottobre 1801, senza però dire che si trattava con tutta evidenza di un epiteto denigratorio coniato da altri, che Kleist assumeva su di sé per orgogliosa autodifesa, cambiandolo di segno. Nel momento in cui nell’Introduzione si legge per esempio che la Famiglia Schroffenstein persino cadrebbe nel “comico involontario” (p. XV), come dire che almeno in parte sarebbe fallita, oppure che nella Pentesilea ci sarebbero incongruenze (per esempio le Eumenidi “scambiate con le Erinni”, p. XXXVIII – ma le Eumenidi non sono l’altro volto delle Erinni? Figuriamoci se Kleist non lo sapeva, quando le chiamava “le spaventose”, p. 343), quando si legge nelle Notizie che gli “scenari fantastici o pseudostorici del teatro di Kleist” sono “inesorabilmente datati” (p. 1140), che La battaglia di Arminio è “pura propaganda di guerra” (p. 1142), che l’ultima battuta nel finale della Pentesilea è sostanzialmente malriuscita (p. 1180), che i racconti sono da preferire al teatro, “vincolato a una retorica della grandiosità che ci è per larghi tratti assai lontana” (p. 1215) la definizione di “sinistrato” assume, senza che la curatrice lo voglia, un significato per così dire ‘sinistro’. Non mi sembra che questa sia la strada migliore per difendere Kleist da eventuali ammiratori privi di distanza critica. Non giovano inoltre all’analisi sia una certa eccessiva attenzione a risvolti biografici, sia l’assenza del tentativo di andare al di là della pur doverosa storicizzazione per individuare anelli di congiunzione con il nostro tempo e la nostra condizione.

Eugenio Spedicato

Heinrich von Kleist, Opere, a cura di Anna Maria Carpi, Mondadori, Milano 2011, pp. 1354

da: L’Indice dei libri del mese, 2012, n. 1 (gennaio), p. 26

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