W.G. Sebald, Austerlitz

[Tra i Compagni segreti di Eraldo Affinati, gli scrittori con i quali ha condiviso un tratto di cammino nel mondo e nella letteratura, ci sono diversi ‘Mastri di Germania’, tra cui Heinrich Böll, Friedrich Dürrenmatt, Jureck Becker o Uwe Timm. Su di loro ha scritto pezzi che, uscendo dalla penna di uno scrittore, sono qualcosa di più e di diverso da una recensione. Ne ripropongo qui uno dedicato ad Austerlitz di W.G. Sebald. M.S.]

Eraldo Affinati 

Austerliz di Winfried Georg Sebald è il primo grande libro di narrativa del Terzo Millennio. L’autore morì lo scorso anno in un tragico incidente automobilistico vicino a Norfolk (Gran Bretagna). Stava guidando in compagnia della figlia che, fortunatamente, si è salvata. La cosa che più colpì di quella sciagura furono i luoghi in cui avvenne: erano gli stessi che Sebald, tedesco emigrato in Inghilterra, aveva percorso in lungo e in largo camminando alla maniera di un pellegrino antico nella memoria dell’Europa sfigurata dalla storia novecentesca. È stupefacente come la letteratura possa diventare, in certi scrittori, il midollo spinale della loro esistenza, fino alle estreme conseguenze: e così, le medesime strade che furono lo scenario dei pensieri vitali di Sebald, pronto a rincorrere i fantasmi di Conrad e Chateaubriand e sempre concentrato sulla ferita indelebile della Shoah, hanno alzato le quinte della sua tomba. 

Questo scrittore nacque in Germania, nel villaggio di Wertach, un crocevia europeo, non distante dai confini austriaci e svizzeri, un anno prima della fine della seconda guerra mondiale. I suoi genitori erano gente umile: il padre aveva partecipato alle campagne hitleriane raggiungendo il grado di capitano. Fino a otto anni Winfried visse nel giardino incantato della sua casa natale. Nell’adolescenza studiò a Monaco di Baviera. Solo a 17 anni, quando i professori gli mostrarono, secondo una tradizione scolastica, il celebre documentario girato dagli Alleati nei giorni successivi alla liberazione del lager di Bergen-Belsen, il futuro scrittore comprese le dimensioni reali dello sterminio consumato dalla generazione dei suoi padri. Lo choc fu talmente forte che tutta la produzione letteraria di Sebald ne risulterà intrisa. Dopo aver proseguito gli studi a Friburgo, si trasferì prima in Svizzera e quindi in Gran Bretagna dove, insegnando letteratura tedesca contemporanea presso la University of East Anglia di Norwich, rimase per circa trent’anni.

Nelle opere di questo autore è caratteristico il procedimento associativo che lo fa passare da un argomento all’altro senza apparente soluzione di continuità. Noi sappiamo che l’analogia è stata una delle idee portanti dell’epoca moderna, capace di rompere i vecchi meccanismi logici facendo entrare nell’arte dimensioni inaspettate. Sebald, con la sua erudizione apparentemente svagata, ricolloca la coscienza ordinatrice dell’uomo al centro dell’investigazione letteraria. Austerliz  sembra un testo impossibile da rubricare in schemi tradizionali: costituito da una serie ininterrotta di scrittura e fotografie in bianco e nero, secondo un procedimento tipicamente sebaldiano, possiamo definirlo la storia di una ricerca delle radici. Il protagonista scopre il suo vero nome, relativo alla famosa battaglia napoleonica, solo da grande, quando il direttore del collegio decide di vuotare il sacco di fronte a lui: fino ad allora il predicatore calvinista, padre adottivo, che morirà in manicomio, gli aveva fatto credere di chiamarsi Dafydd Elias. Da quel momento comincia per Jacques Austerliz una lenta discesa nei meandri tortuosi del proprio passato, alla spasmodica ricerca dei luoghi dell’antica partenza.

Il lungo racconto, nella finzione romanzesca, viene riferito da un amico, pronto a dichiararsi devoto allievo del personaggio principale: ma, per chi conosce la vita dell’autore, non ci vuole molto a capire che l’ultima opera di Winfried Georg Sebald altro non è che un geniale palinsensto autobiografico: lungimirante esempio di durata narrativa in forma cripto-saggistica. Austerliz, uomo solitario e disperato, erudito privo di rapporti affettivi, fatta eccezione per la convenzionale amicizia strutturale di chi lo ritrae, diventerà presto ordinario di storia dell’architettura mostrandosi interessato alle stazioni ferroviarie, ai fortini militari, ai carceri e ai tribunali, come se non riuscisse a staccare gli occhi dall’energia vitalistica colta nell’istante del ristagno e della crepa: l’uomo che viaggia, il soldato in armi, il recluso alla sbarra, il giudice col dito alzato sui codici. Nelle descrizioni di Sebald contano soprattutto gli spazi lancinanti dove il tempo sembra girare a vuoto: non a caso torna spesso, alla maniera di un refrain, la figura di un orologio rotto.

Quando il protagonista scopre la sua vera storia, il romanzo acquista ulteriore compattezza: i genitori vennero deportati dai nazisti, lui fino all’età di quattro anni era cresciuto a Praga, dopodiché aveva conosciuto una lunga odissea rimossa in tempi successivi che lo condusse, al pari di molti orfani, nei ghetti dell’Europa centrale prima di approdare a Londra. Le tappe di questa ricerca d’identità vengono percorse da Austerliz (risonanza di Auschwitz) come le stazioni di una via Crucis: memorabile l’incontro con Vera, l’antica governante, che riconosce in quell’uomo esitante sul portone, il bambino di tanti anni prima. Notevole il modo in cui le foto si integrano nella narrazione, come quella, diventata l’immagine scelta per la copertina, di un Austerliz, delizioso paggio di cinque anni, immortalato prima che tutto ancora accadesse. Ma ciò che davvero resta indelebile è il tono del racconto: sobrio fino all’austerità, asciutto come gli occhi di chi non ha più lacrime per piangere. Nello strenuo controllo stilistico operato da Sebald si nasconde, alla maniera del mollusco dentro la conchiglia, il giudizio senza indulgenze nei confronti dell’umana cupidigia e, nello stesso istante, l’unica ragione di speranza che l’autore riserva a se stesso: quella letteraria. Come quando, alla fine del libro, consegna al lettore la visione, consapevolmente anacronistica, di un Austerliz smarrito nelle sale della nuova Biblioteca Statale di Parigi che, dopo aver toccato con mano la propria orfanità, s’identifica nel destino napoleonico che il suo vero nome gli sollecita, fino al punto di gridare con Balzac: “Je suis le colonel Chabert, celui qui est mort à Eylau.” (2002)

Eraldo Affinati

da: Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori, Roma, Fandango Libri, 2006, col titolo Winfried Georg Sebald: Je suis le colonel Chabert!

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2 Responses to W.G. Sebald, Austerlitz

  1. Pingback: pagine di letteratura tedesca e comparata

  2. astrea says:

    uno dei rari capolavori contemporanei

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