Perché leggere i classici?

The Great Poets Frieze on the Albert Memorial (by H. H. Armstead)

Federico Condello

«Classici: si presume di conoscerli». Così Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni. Ci sarebbe poco da aggiungere. Se non fosse che la placida sonnolenza del “classico” ­ forte di un primato che mille classicismi e anticlassicismi hanno mutualmente rinforzato ­ sembra oggi turbata da sogni inquieti, o destinata a bruschi risvegli. In Italia, specialmente: perché il Ventennio fascista, con la sua «orgia di classicità» (Degani), ha prodotto una dura reazione all’altezza, per dirla alla grossa, del Dopoguerra. Una reazione che ha iniziato a incidere, allora per la prima volta, sulla scuola e sui suoi programmi, e non solo su quelli del super-gentiliano liceo classico. Un certo “classico” appariva ormai di classe, platealmente e non senza ragioni. Del resto, il ron ron classico sembrava ormai fuori moda a ogni acuto osservatore dell’epoca. Micidiale una pagina dei Fiori italiani di Meneghello, dedicata alla quotidianità della formazione liceale in età fascista: nei “classici” imparaticci della scuola, ricorda il romanziere, «si trovavano memorabili battute di guerrieri e filosofi, ragguagli sugli effetti delle pugnalate e sulla boria, e con poche altre cose, qualche modello di bellezza suprema. Molti singoli versi greci e latini, come “l’ambidestro campione asteropeo”, s’imprimevano profondamente negli animi; e c’erano infine quelle stimolanti trovate circa la natura del mondo, per esempio panta rei, e una serie di arguti ideali, a cominciare dal calò-cagazzò». Chiunque abbia frequentato, negli ultimi 20 o 30 anni, un liceo classico, non tarderà a riconoscere la deprimente attualità del brano.

E oggi? Oggi, da un quindicennio almeno, spia di una situazione sempre più critica è la fortuna di un genere saggistico che assomma ormai titoli a decine: chiamiamolo, per intenderci, l’“apologia del classico”. Una specie di libro, o di libello, inimmaginabile fino a due generazioni fa. Certo, l’allarme è periodico e l’apologia altrettanto: i prodromi di questo genere panflettistico risalgono almeno al Seicento. Nel Novecento la produzione si intensifica, specie fra anni Trenta e Quaranta, quando l’Occidente si identifica nel “classico” soprattutto per reazione identitaria; e poco importa se fosse reazione alto-borghese o apertamente nazi-fascista, dal momento che non pochi slogan accomunano personaggi della statura di Curtius ai più servili propagandisti di regime, ivi compreso quel Heidegger su cui Karl Löwith pronunciò una famosa, agghiacciante boutade: dopo averlo ascoltato, «non sapevi se prendere in mano i Presocratici di Diels o se marciare con le S.A.». Di lì a poco ­ e siamo finalmente a noi ­ la crisi è conclamata: e tocca davvero la scuola, di ogni ordine e grado, dai licei via via riformati alle università costrette a criteri di ranking ­ oscura parola di moda ­ elaborati a prescindere dai saperi più tradizionali. Una crisi indubbia, che ha i suoi promotori tanto nella destra neoliberista, che chiama “riforme” i tagli, quanto in certa sinistra progressista, che ribadisce volentieri stereotipi grossolani (fra gli ultimi, il giubilante Piergiorgio Odifreddi: «gli umanisti continuano a predicare l’insostituibile ruolo formativo delle lingue morte nel mondo vivo», «la lobby umanistica sta per finire inesorabilmente nel “cestino dei rifiuti della storia”»).

Di fronte a un simile cataclisma ­ cui non mancano, come si vede, cantori e corvi ­ gli odierni apologeti del classico ce l’hanno messa tutta. Hanno rinverdito argomenti perenni: le “radici” greco-romane (pericolosa linea destrorsa) e il “latino lingua logica” (dunque l’inglese è illogico?); ne hanno inventato di nuovi o quasi nuovi: l’“inattualità” antagonistica del classico (trovata di vaga matrice nietzschiana) e addirittura, all’antitesi di ogni “radice”, il mirabolante esotismo di Atene e di Roma (ma per quale ragione il “classico” sarebbe più esotico di qualsiasi altro “antico”, o di qualsiasi altro “altrove”?); infine ­ argomento imperituro ­ le lingue classiche come indispensabile ausilio all’apprendimento dell’italiano (ma quale italiano? Quello dei “classici” italiani, forse: non certo quello, finalmente standard, dell’età post-televisiva).

Sono argomenti stanchi, che giustamente stancano. Ne faceva un piccolo, corrosivo censimento, anni fa, Giuseppe Cambiano, in un suo contributo compreso in Di fronte ai classici (a c. di I. Dionigi, Milano, BUR, 2002). Proprio da Cambiano viene ora una notevole raccolta di saggi Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura (Bologna, il Mulino, € 18.00) che è senza dubbio fra le letture più ricche e raccomandabili, sul tema, degli ultimi tre decenni. Non deve ingannare il titolo alla Calvino, che poco merito rende alla ricchezza del volume, e che suggerisce un improprio apparentamento al succitato genere apologetico: quel che importa qui, è semmai il sottotitolo. Perché, se una morale si ricava dallo snello ma densissimo lavoro, è che i “classici” dovrebbero essere letti per una sola e semplice ragione: perché essi sono sempre stati letti.

Soluzione troppo facile? Soluzione addirittura tautologica? Pigra resa all’autorità del canone? Niente di tutto questo. L’essenza di ogni classicismo ­ scriveva Valéry ­ è «de venir après», di venire dopo. L’après strutturale del classico è preso da Cambiano molto sul serio, con dottrina pari al disincanto. Un après che può essere mero conformismo (e sostanziale indifferenza); può essere nostalgia reazionaria e ansia di rinascita; può essere anche ­ ed è il punto che più interessa all’autore ­ illusoria presunzione di estraneità, e dunque passiva accettazione di idee, ideologie e stereotipi dalle quali può immunizzarci soltanto una meditata riappropriazione della tradizione. Sicché questo invito a rileggere i classici ­ invito pacato, illuminato, laico, mai retorico né prescrittivo ­ si traduce spontaneamente in una storia delle riletture passate e contemporanee: storia critica, va da sé, e spesso polemica.

Sulla «vigilia del Nazismo» si apre, non a caso, il volume: e Cambiano ricostruisce magistralmente le posizioni assunte nel 1930, durante un celebre convegno svoltosi a Naumburg, su impulso di Werner Jaeger, dai migliori rappresentanti della filologia coeva, a proposito del “classico” e della sua vitalità. È un vero germinaio di clichés tuttora prosperi. E, pur fra accenti diversi, spicca la sinistra consonanza dei quell’“umanesimo” (cosiddetto “terzo”) con temi e intenti del terzo Reich. Fa eccezione, nell’ambiente, il grande Bruno Snell: quello Snell ­ giova ricordarlo ­ che nel fatidico 1934, anno del plebiscito pro Hitler (19 agosto), scrisse un articolo, innocente in apparenza, sul “verso dell’asino” nelle lingue classiche; per dimostrare che se il verso dell’asino, in greco, si trascrive sempre più o meno con ou («no»), l’asino tedesco, invece, fa sempre j-a («sì», come il 90% dei tedeschi dinanzi al nuovo Führer; l’articolo è stato felicemente riproposto negli ultimi «Quaderni di Storia», luglio-dicembre 2011). Fa eccezione a suo modo anche il vecchio Wilamowitz, che nel 1930, in risposta alle sollecitazioni del Convegno, scrisse seccamente: «la parola “classico” mi fa orrore». Quanto a Benjamin, che recensì gli atti della grande Kermesse, il suo verdetto fu ancor più drastico: «una considerazione del classico che non sa dir nulla sulla schiavitù non può certo valere come conclusiva».

Il séguito del volume mostra bene come alla trappola del classicismo apologetico ­ anzi, con il termine di Cambiano, “cosmetico” ­ non sfugga nessuno dei successivi laudatores della tradizione greco-romana: non certo Gadamer, di cui è denunciata con lucidità la «concezione reverenziale», appena mascherata dall’ermeneutica; ma nemmeno i rappresentanti del classicismo liberal d’Oltreoceano, da Rorty alla Nussbaum, che per proclamare continuità o auspicare restaurazioni (democratiche, naturalmente) bonificano il “classico” da quanto in esso è più scabroso e scandaloso. Ancor più in generale, Cambiano argomenta con efficacia contro la tendenza sottilmente anti-illuministica di molta ermeneutica contemporanea, che rimprovera alla “critica” ­ sono parole di Gadamer ­ i suoi «pregiudizi contro i pregiudizi»: una tendenza anti-illuministica contro la quale vanno fatte valere, almeno, le ragioni della più concreta filologia, intesa come «materialismo testuale» minimo e tuttavia indispensabile.

Molto altro si troverà, in queste pagine avvincenti, dai singolari riusi di Tucidide alla vigilia dell’ultima guerra in Iraq, fino alle posizioni della filosofia contemporanea (Derrida compreso) sull’“oralità” come dimensione comunicativa della poesia e della filosofia antiche. E Cambiano non si esime, nell’epilogo, dall’affrontare la questione che dà il titolo al volume. Perché leggere i classici, appunto. Perché saremmo altrimenti condannati ­ se non pratici di letture e riletture ­ a subirne passivamente l’influenza. Il classico è davvero l’«Ewig-Alte, Ewig-Tote», il «sempre-antico, sempre-morto», come voleva Wölfflin? In un certo senso sì, per Cambiano, che da ogni classicismo vitalistico e da ogni tradizionalismo restaurativo è lontano mille miglia. Ma sono “morti” particolari, i classici splendidamente ritratti in queste pagine: sono morti che possono ancora ­ per parafrasare Eschilo ­ uccidere i vivi.

Federico Condello

Giuseppe Cambiano, Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura, Bologna, il Mulino, 2011, 192 p.

da: Alias, suppl. del “manifesto”, domenica 22 gennaio 2011, p. 6

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