Incipit: Un assassinio che tutti commettono

Heimito von Doderer

Ognuno si ritrova la propria infanzia calcata in testa come un secchio. Solo più tardi si rivela quello che c’era dentro. Ma il contenuto ci cola addosso per tutta la vita, per quanto uno voglia cambiarsi l’abito o il costume.

L’uomo di cui racconteremo qui la storia – il suo caso ha suscitato una certa curiosità all’interno dei confini tedeschi e anche al di fuori, quando in seguito la vicenda divenne nota in tutti i suoi dettagli – potrebbe quasi rilasciare un certificato che attesta l’impossibilità di lavare via il contenuto di quel secchio.

Da bambino veniva chiamato Kokosch, seguendo la sua prima, balbettante pronuncia del nome Conrad. Quel che egli, già da fanciullo, chiamava il «suo regno», e più tardi, con espressione più raffinata e pretenziosa, «il mio regno fanciullesco» o «il mio paese dell’infanzia», era l’estrema propaggine di una metropoli che disseminava la sua massa di case al di là di un largo canale percorso da navi, sotto la foschia, fino all’orizzonte. In realtà, quella massa di case non era ovunque raggruppata in schiere e vicoli, ma era variamente smembrata, interrotta da campi non edificati e da spiazzi erbosi, sui quali si elevavano alti alberi della vegetazione fluviale, cespugli e giovani piante. Alcune strade avevano le case su di un lato solo, ben allineate in schiera, mentre l’altro lato era sgombro. Da qui lo sguardo si posava su mucchi di pietrisco, cataste di legna e sulla staccionata che si estendeva dietro al declivio del canale; e poi spaziava ancor più lontano, verso il composito agglomerato della città, oltre l’acqua e anche lungo di essa, là dove questa curvava a sinistra, lenta e luccicante, formando un arco tra le scarpate declinanti. Lì c’era la schiuma grigioverde delle chiome degli alberi e lì avanzavano i prati. In lontananza c’erano i camini delle fabbriche, allineati come frecce in una faretra, e accanto i rilievi larghi e smussati dei gasometri, con gli alti reticolati, dietro ai cui bagliori metallici si stendeva, d’inverno, la nebbia e d’estate l’increspata nuvolaglia di un orizzonte impregnato di vapori. Nell’ultima casa di quella schiera disposta su di un lato solo del canale abitavano i genitori di Conrad che occupavano tutto il terzo piano e avevano dunque un alloggio davvero spazioso. Il padre, Lorenz Castiletz, pur non essendo propriamente un uomo ricco, era comunque quel che di fatto si suole definire un benestante. Il suo ramo era il commercio dei tessuti ed egli aveva inoltre già da tempo la rappresentanza di due ditte olandesi che gli procuravano non poche invidie, giacché esse, da sole, bastavano a garantire una solida posizione. Questa circostanza, unita al fatto di avere non lontano dalla città una zia ricca di beni rurali, con terreni, case e fattorie, fece sì che “Kokosch”, il quale era oltretutto figlio unico, non patì mai durante la guerra o nei primi difficili anni successivi nessuna privazione significativa o che potesse addirittura comprometterne la salute. Quegli eventi si erano svolti totalmente al di fuori di casa Castiletz. Il padre, che soffriva di un difetto cardiaco procuratosi in maniera molto singolare – e cioè praticando con troppa assiduità la scherma nei lontani anni giovanili – non era più in età da essere tra i primi arruolati allo scoppio della guerra e comunque sarebbe stato inabile al servizio già solamente per la ragione menzionata. Tra Lorenz Castiletz e il suo figlioletto si spalancava una differenza d’età di quarantasette anni.

Il padre era un uomo alto e bello, con lunghi riccioli neri e folti baffi, entrambi venati, in maniera elegante e persino vezzosa, da fili e ciocche argentei. Bonario, cordiale e al di fuori del suo lavoro molto distratto e disordinato, poteva però accadergli che, colto inopinatamente da un’ira brutale e improvvisa, come introvertita, divenisse, per così dire, nero come l’ebano per la collera e inveisse con le più spaventose imprecazioni. L’appartamento si trasformava in quei casi in una cavità di terrore finché il padre non compariva improvvisamente sulla porta della stanza sorridendo amabile e pronto a scusarsi con tutti: con la madre, che baciava, o con Kokosch che prendeva sulle ginocchia. Ma l’esperienza del padre che all’improvviso si era così profondamente oscurato aveva sul ragazzo un effetto molto più duraturo delle successive parole di conforto.

Una volta, nell’anticamera laccata di bianco, si era trovato di fronte il suo genitore furibondo in un momento inopportuno, ma per Kokosch assolutamente innocente: si stava infatti recando a scuola, in orario per le lezioni pomeridiane. Teneva sotto braccio la cartella coi libri. Il padre, di cui si sentiva la voce nella stanza della madre divenire improvvisamente alta, per passare poi a una tonalità acuta, anzi a vere e proprie urla, si precipitò attraverso la doppia porta a vetri del soggiorno e vide Kokosch che se ne stava lì in piedi, mentre egli lo credeva già fuori di casa. «Non obbedisci neanche più agli ordini come dovresti, a quanto sembra, canaglia!» sibilò al bambino con voce relativamente bassa, il che fece una profonda impressione su Conrad. «Fuori dai piedi, fuori!» gridò allora il padre, afferrò saldamente per la nuca il piccolo, che proprio in quel momento iniziava a piangere per lo spavento, e lo sbatté fuori dalla porta. Quella volta fu il padre che andò a prendere Kokosch dopo le lezioni: il bambino ne fu molto spaventato, perché non era abituato a vederlo all’uscita da scuola, ma Lorenz Castiletz colmò il figlio di tenerezze, lo ingozzò dal pasticciere di torta e panna montata e si dedicò a lui per tutta la serata, nei compiti – che in quel modo furono sbrigati in un battibaleno – e nei giochi. Si stese sulla pancia in tutta la sua mole per disporre bene e con precisione gli scambi del trenino meccanico e la madre, entrando nella stanza, batté le mani a quello spettacolo. Anche Kokosch era contento. Eppure, l’episodio vissuto in anticamera entrò nei suoi sogni; erano sempre sogni spaventosi nei quali, curiosamente, vedeva con straordinaria nitidezza la stuoia di reps marrone che andava dalla porta d’ingresso alla porta a vetri del soggiorno e ne vedeva ogni fibra come se fosse vicinissimo, come se egli stesso non fosse neppure due spanne sopra il pavimento. Era un’immagine che non mancava mai di apparirgli quando sognava il padre furente.

Quelle cadute improvvise nella tenebra erano però sempre e invariabilmente provocate da incidenti ridicoli e non era mai successo che il padre avesse perso la testa in quel modo per una qualche questione grave, o, perlomeno, seria. Si trattava, invece, di bottoni saltati e di cravatte sgualcite, di foglietti smarriti dove erano annotate faccende ancora da sbrigare: queste erano le sciocchezze che lo trascinavano nell’abisso. Quest’ultimo non era poi sempre solamente metaforico, ma si prefigurava, per così dire, esteriormente, nell’oscurità sotto la scrivania e il divano, dove si doveva magari cercare qualcosa, in una posizione accovacciata che risultava soffocante per quell’uomo debole di cuore e decisamente predisposto all’apoplessia e che lo costringeva a risollevarsi con la testa paonazza, perlopiù senza aver risolto nulla.

Come molte persone sbadate – il cui segreto consiste sostanzialmente nel prendere un oggetto, nell’usarlo e nel non rimetterlo mai al suo posto – anch’egli sosteneva che una cosa gli era stata sottratta o spostata quando non si trovava più al suo posto, il che, peraltro, avrebbe avuto del soprannaturale nel caos sempre nuovamente debordante dello studio, fuorché nelle prime due ore dopo che la signora Castiletz aveva rimesso in ordine in assenza del coniuge. Ma qui stava forse il pericolo maggiore: un intervento razionale di quel tipo distruggeva di nuovo tutti quei sentieri e percorsi dell’abitudine formatisi nella vita di tutti i giorni sui quali le cose stanno adagiate in disparte ma in cui la memoria rapida e abile di chi sta cercando può ritrovarsi facilmente nella penombra della coscienza: questa capacità fa parte delle forze d’animo più significative e sorprendenti delle persone disordinate; ma sono proprio queste facoltà a venir paralizzate da quell’intervento, cosicché ci si ritrova allora a dover cercare alla luce della limpida ragione, che è già di per sé un organo critico; guai se i luoghi che egli in quei casi, con estrema severità, pretendeva deputati all’ordine mancavano poi di fornire una conferma esteriore! La caduta nell’abisso diventava non solo possibile, ma talvolta, addirittura, inevitabile.

 Heimito von Doderer

Heimito von Doderer, Ein Mord den jeder begeht, (1938) edizione dtv, 1993, pp. 5-8, trad. di Paola Quadrelli.

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