Memoria di una città: Berlino e l’io autobiografico dopo il 1989

 Daniela Nelva

1. L’io tra verità e poesia

La caduta del muro di Berlino e la successiva riunificazione della Germania, con la loro indubbia valenza di cesura storica, hanno indotto diversi intellettuali tedeschi a una riflessione sul proprio vissuto. Ne è testimonianza, tra l’altro, il notevole incremento, a partire dai primi anni novanta, della scrittura autobiografica, da interpretarsi al contempo come percorso individuale di memoria e come momento di valutazione storica e ideologica. Questo sembra valere innanzitutto per quegli autori che, nati nei primi decenni del Novecento, hanno vissuto nell’infanzia e nell’adolescenza il nazionalsocialismo e la guerra, hanno in seguito assistito alla nascita e allo sviluppo della Repubblica democratica e sono rimasti infine più o meno a lungo a Est, tra condivisione ideologica, opposizione, e un certo, inevitabile, adattamento[1].È all’interno di questo scenario che si collocano, tra le numerose altre[2], le autobiografie di Günter de Bruyn (Zwischenbilanz. Eine Jugend in BerlinBilancio provvisorio. Una giovinezza a Berlino, 1992 e Vierzig Jahre. Ein LebensberichtQuarant’anni. Un resoconto di vita, 1996), Heiner Müller (Krieg ohne Schlacht. Leben in zwei DiktaturenGuerra senza combattimento. Vita sotto due dittature, 1992), Günter Kunert (Erwachsenenspiele. ErinnerungenGiochi degli adulti. Ricordi, 1997)[3]. Prescindendo dalle diverse fatture narrative – si va dall’autobiografia di impianto “classico” di Kunert e di de Bruyn all’autobiografia-intervista di Müller –, queste opere consolidano progressivamente una tendenza letteraria, quella appunto del ricorso, per dirla con Philippe Lejeune, a una scrittura siglata da un «patto autobiografico»[4], affermatasi tra gli autori tedesco-orientali sin dalla metà degli anni ottanta. Ne è esempio Stefan Heym, che nel 1988 pubblica, per quanto solo nella Repubblica federale, il corposo volume Nachruf [Necrologio][5], autobiografia in “terza persona” in cui un narratore (apparentemente) «eterodiegetico»[6] ripercorre, attraverso un accorto intreccio di prospettive e piani temporali, la storia di S.H.

La scelta, operata da de Bruyn, Kunert e Müller, di dire – ad alcuni anni di distanza dalla Wende – “io”, coagulando in questo “io” sia la propria persona sia il proprio passato, risponde innanzitutto all’intenzione di un confronto diretto, dunque non mediato attraverso la fiction, con il passato tedesco. Un passato che questi scrittori sentono, per così dire, “doppio”: a essere ripercorsa, nelle loro autobiografie, non è solo l’esperienza più o meno prolungata del socialismo reale – Kunert, com’è noto, passa a Ovest nel 1979 – ma anche quella precedente del nazismo e della guerra. All’infanzia berlinese, al nazionalsocialismo e al periodo trascorso al fronte de Bruyn dedica, per esempio, tutto il primo volume della sua autobiografia. Né si deve dimenticare che Kunert è di origine ebraica. Proprio la memoria della Shoah, coltivata nel dolente ricordo dei parenti scomparsi ad Auschwitz, risponde in Erwachsenenspiele all’imperativo etico di continuare a tenere viva la coscienza collettiva contro ogni forma di oblio. «Sono un oscuro archeologo specializzato nel cercare le vittime della storia tedesca»[7], si legge a questo proposito nel testo.

È d’altro canto proprio la natura della materia autobiografica – la vita individuale – a sottrarre il racconto a un’ottica “storiografica” e a inscriverne i contenuti e le modalità all’interno di un procedere anamnestico tutto soggettivo. Al di là di un certo “potere di veto” delle fonti storiche, che induce de Bruyn, Müller e Kunert a instaurare un rapporto di omologia tra la loro narrazione e il decorso documentabile della propria esistenza, ogni autore narra ciò che vuole e come vuole, modella la sua scrittura a partire dalla percezione che ha di sé e dell’altro da sé, esprimendo in essa la propria visione del mondo e della vita o comunque quella che intende – più o meno consapevolmente – veicolare al lettore. In questo egli è libero di omettere, modificare o dissimulare, di lasciare zone d’ombra, di aprire spazi al silenzio. A intrecciare i fili della tessitura autobiografica è per di più un bagaglio della memoria per sua stessa essenza ambiguo e frammentario. Ciò che costituisce la fibra del ricordo non è infatti il vissuto in sé, dato una volta per tutte, ma una dimensione rievocativa discontinua, minacciata dal fluire del tempo, che sfoca e corrode le immagini, modificando le distanze e i rapporti tra il passato e il suo sempre mobile punto di osservazione[8].

È dunque attraverso un sapiente procedimento di rielaborazione estetica – rispondente, come vedremo, alla peculiarità dello stile di ciascuno – che i tre autori selezionano i propri materiali autobiografici e li condensano in immagini di volta in volta evocative per la ricostruzione di un certo contesto personale e storico. Per quanto concerne il passato di Berlino, che qui particolarmente ci interessa, la loro scrittura sembra rispondere innanzitutto alla volontà di confrontarsi criticamente con le proprie posizioni ideologiche e con il proprio ruolo di intellettuali in due momenti cruciali della storia della Germania socialista, ovvero la costruzione del Muro e la sua caduta. A questo proposito, prescindendo dalla diversa ampiezza narrativa dei singoli testi – come vedremo solo le autobiografie di de Bruyn e Müller giungono a raccontare, nella visione retrospettiva degli anni Novanta, la Wende – questi autori sembrano spesso dialogare tra loro, permettendo così al lettore di ricomporre, al pari delle tessere di un mosaico, i tratti di un’esperienza comune.

2. Il calendario segna: 13 agosto 1961

“Accendete subito la radio! È successo qualcosa!”[9].

Nella rievocazione di Erwachsenenspiele la notizia della costruzione del muro di Berlino raggiunge Kunert e la moglie Marianne attraverso il telefono. È il 13 agosto 1961. A chiamare è un amico. L’«infausto annuncio» suona come segue: mentre ai berlinesi dell’Ovest è permesso, previa esibizione di un documento d’identità, l’accesso al settore orientale della città, i cittadini dell’Est si trovano prigionieri in una «trappola per topi»[10]. Degli autori qui presi in esame, Kunert è quello che restituisce con maggiore intensità emotiva lo sconcerto e il disorientamento di fronte all’evento inatteso, alludendo al contempo, mediante il linguaggio metaforico che gli è proprio, al dramma di una libertà da quel momento condizionata. I fotogrammi della memoria si susseguono veloci nel suo racconto. Muniti della Grüne Karte, il lasciapassare che consente di muoversi in macchina tra i due settori della città, i coniugi Kunert si dirigono dal quartiere di Treptow, dove risiedono, verso il punto di passaggio situato alla Porta di Brandeburgo. La meta di quello spostamento è il quartiere occidentale di Heiligensee. L’esigenza di ritirare un ventilatore, lasciato ad aggiustare presso un amico, diventa il pretesto per verificare di persona l’entità di quanto si profila al confine tra le due zone di Berlino.

Nello spazio anamnestico Kunert si rappresenta come il protagonista di un cortometraggio topografico, prima solitario osservatore di una Berlino est deserta e ammutolita, poi testimone oculare della confusione che regna oltre il Muro, dove i cittadini occidentali si sono riversati nelle strade per protestare contro l’innalzamento di quella barriera. Il ricordo del transito attraverso il varco ancora aperto, superato con trepidazione, diviene occasione per anticipare l’epilogo della Rdt:

Siamo soli nel tragitto verso Alexanderplatz e lungo la Karl-Liebknecht-Straße, lungo l’Unter den Linden in direzione della Porta di Brandeburgo. Quanto più ci avviciniamo al simbolo di pietra, tanto più si accelerano i battiti del cuore […]. E molto lentamente attraverso la Porta che si riaprirà solo dopo quasi trent’anni […]. Ce l’abbiamo fatta. Mentre Berlino est era deserta, nella Straße des 17. Juni pullulano i passanti[11].

 Riconsiderando le ragioni che lo hanno indotto, quel giorno, a ritornare a Est, l’autore individua innanzitutto gli affetti familiari. A essi si affiancano, con pari rilevanza, motivazioni di tipo ideologico, ovvero il riconoscere nella Germania socialista lo stato fondato nel segno dell’antifascismo. E questo in antitesi all’“altra” Germania, in cui Kunert ravvisava ancora retaggi di matrice nazista:

 Non ci siamo rivelati degli idioti col nostro ritorno? Ma qui ci sono i nostri gatti, i miei genitori, i fratelli di Marianne. Inoltre io sono invischiato nel panione dell’antifascismo, incapace di volare, incapace di scappare. A Ovest dominano coloro che hanno collaborato alla “soluzione finale”, i camerati delle SS, gli assassini, che, suppongo, non albergano più tra noi, nella Rdt[12].

La condivisione della tradizione antifascista, di cui la Rdt si proclamava erede per eccellenza, sembra dunque aver escluso all’epoca per Kunert ogni scelta a favore della Germania federale. Significativa, a questo proposito, è l’immagine che l’autore offre di sé – quella appunto di un uccello rimasto “incollato” alla verga cosparsa di pania – in quanto in essa egli allude al sentimento di profonda disillusione politica maturato nel corso della sua permanenza nella Rdt. Iscrittosi a diciassette anni, nel 1946, alla KPD poiché «i comunisti sono stati i decisivi nemici di Hitler», Kunert si è presto visto etichettare dalla dirigenza culturale come un autore “scomodo” a causa dei suoi versi sferzanti nei confronti delle storture del socialismo reale.

Torniamo alla memoria di quel 13 agosto rivissuto dopo la svolta. Come Kunert, anche de Bruyn narra di essersi recato sui luoghi in cui si costruiva il Muro. Il suo punto di osservazione è il quartiere Mitte, dove allora abitava. Mentre dalle pagine di Erwachsenenspiele emerge una rievocazione esclusivamente privata di quel giorno, quelle di Vierzig Jahre si concentrano innanzitutto sulle reazioni dei cittadini orientali di fronte a uno sbarramento che i fedelissimi del partito celebravano come «protezione dall’ideologia capitalistica occidentale» e come «vittoria sul nemico di classe»[13]. Inquietudine, timore, rassegnata presa d’atto di quanto accadeva è ciò che de Bruyn ricorda di aver scorto sui volti e nei comportamenti sia delle sentinelle sia dei civili, tutti lontani dal sentire come proprie le affermazioni trionfalistiche della stampa di partito:

Volevo essere presente mentre ci rinchiudevano […]. Speravo di ravvisare negli occhi dei sorveglianti tracce di cattiva coscienza, contavo anche su una protesta spontanea, rilevai invece da entrambe le parti solo ansia e paura. Su nessun volto si leggeva il giubilo di trionfo che il giorno successivo avrebbe riempito i giornali boriosi e non incontrai nessuno disposto a sostenere, come invece il «Neues Deutschland», che ora finalmente si poteva ricominciare a respirare[14].

Pur rimarcando la sua resistenza interiore a considerare il Muro come qualcosa di «naturale» o a ravvisare in esso l’inevitabile prodotto di una «necessità» storico-politica[15], l’autore ammette tuttavia come all’iniziale rifiuto di quella separazione sia presto subentrato in lui un comportamento adeguato alla nuova situazione:

Alla sua ombra [del Muro, D.N.] si viveva più tranquilli. Si era esonerati dal dover decidere se fuggire o rimanere. Ho potuto osservare l’assuefazione anche in me stesso. La mia opinione nei confronti della costruzione del Muro certo non mutò, tuttavia imparai ad adattare la mia vita alle nuove condizioni […][16].

Un’osservazione, questa, in cui de Bruyn adombra quella tendenza a conformarsi che egli – per la sua formazione cristiano-liberale estranea al socialismo – più volte in Vierzig Jahre si rimprovera di aver avuto nei confronti dell’autorità politica e culturale.

È Heym – da una prospettiva però anteriore alla Wende – a valutare in Nachruf il significato ideologico del Muro. Le sue considerazioni muovono dall’analisi della difficile congiuntura politico-economica in cui si trova la Rdt all’inizio degli anni sessanta. Di fronte all’allarmante «fuga in massa» della forza lavoro verso Ovest la repubblica «si sgretola»[17]. E non potrebbe essere altrimenti, riflette l’autore, dal momento che la dirigenza del partito ha completamente ignorato i malesseri dei lavoratori esplosi nei disordini del 17 giugno ’53, quando essi sono scesi in piazza, prima a Berlino est poi in altre città del paese, per manifestare contro le difficoltà incontrate sul lavoro – la penuria di materie prime, l’innalzamento delle norme produttive, la progressiva riduzione dei sindacati a meri rappresentanti della politica ufficiale. Ad aggravare la situazione di un’economia che langue è inoltre il cambio monetario forzoso sostenuto dagli alleati. Mentre i cittadini orientali sono a caccia dei “preziosi” marchi occidentali necessari ad acquistare le “preziose” merci dell’Ovest, i cittadini occidentali fanno sistematica incetta, a bassissimo costo, dei generi di prima necessità prodotti a Est.

Non è comunque dall’innalzamento di una barriera che può giungere una soluzione. Il giudizio di Heym – tanto più significativo in quanto espresso poco prima della caduta del Muro – è netto: «Ma che razza di socialismo è questo, che si deve murare affinché il suo popolo non fugga via?»[18]. Con tali inequivocabili parole l’autore denuncia la crisi della Rdt, minata da «stagnazione, decisioni sbagliate, oppressione, ottuso silenzio»[19]. Una crisi che deriva a suo parere innanzitutto dal mancato passaggio dalla fase iniziale di un potere forte – quella «dittatura» pur necessaria al compimento della «rivoluzione» – a un socialismo democratico in grado di far proprie le istanze del popolo, poiché «senza la democrazia il socialismo non può esistere»[20]. A sostegno delle proprie posizioni Heym riporta quanto pronunciato dall’amico Robert Havemann nel corso di una delle sue polemiche conferenze:

La democrazia, senza la quale – come Lenin sottolineava sempre – il socialismo non è realizzabile, è stata soffocata nel periodo dello stalinismo. Bisogna però ripristinare questa democrazia, poiché solo con essa le masse possono essere persuase della necessità della lotta per il socialismo ed essere coinvolte in essa[21].

Nel pensiero di Havemann Heym racchiude implicitamente le speranze politiche che ancora nutre nel presente della scrittura. Ricordando gli intensi colloqui avuti con lo scienziato negli anni sessanta, egli lo annovera infatti tra coloro che sono stati «eloquenti rappresentanti di correnti formatisi in quegli anni sotto la superficie del socialismo reale e che solo oggi cominciano a intaccare la realtà»[22]. L’oggi è appunto il 1988 e il riferimento a quei colloqui equivale a un appello per una svolta democratica della Rdt.

La storia della costruzione del Muro può anche essere adombrata nel destino di un testo teatrale e nelle conseguenti vicende che coinvolgono il suo autore. Partiamo dall’antefatto. Nell’agosto del 1961 Heiner Müller sta concludendo la stesura della pièce Die Umsiedlerin. Oder das Leben auf dem Lande [La trasferita. O la vita in campagna], iniziata alcuni anni prima. Il lavoro è sovvenzionato da una borsa di studio del Deutsches Theater. L’opera viene rifinita contemporaneamente alle prove della rappresentazione. «Ho scritto le scene, le ho viste recitate durante le prove e le ho riscritte»[23], racconta Müller, svelando così tra l’altro l’ossatura di un operare drammaturgico fondato, almeno in questa occasione, sulla stretta collaborazione tra autore e attori. A recitare, sotto la guida del regista Bernhard Klaus Tragelehn, già allievo di Brecht e suo assistente al Berliner Ensemble, sono gli studenti della Hochschule für Ökonomie di Karlshorst, nella cui aula magna si svolgono le prove della messa in scena.

Il testo non sembra inizialmente destare l’attenzione delle autorità culturali: «Per due anni sia il teatro sia lo stato non si sono interessati di nulla», si legge in Krieg ohne Schlacht. E ancora: «Eravamo come su un’isola, non c’erano né controlli né discussioni»[24]. L’aspetto politico dei contenuti della Umsiedlerin – che affronta con taglio critico il processo di collettivizzazione delle campagne[25] – viene alla luce solo quando il lavoro è ormai concluso. Nel 1960 il governo della Rdt ha portato a termine il progetto di socializzazione dell’economia agricola e, nel clima di tensione che ne deriva, la pièce assume un significato scottante: «improvvisamente l’opera acquisì una consistenza a cui prima non avevo pensato», afferma Müller, «non eravamo consapevoli di aver piazzato una bomba»[26].

È la pubblicazione di una scena sul settimanale «Sonntag» a mettere in allarme la sezione culturale del Comitato centrale della SED. Il testo, sottoposto all’esame di una commissione di rappresentanti del partito e di insegnanti, è comunque accettato e destinato, seppur con alcune riserve, a inaugurare nel settembre del 1961 la settimana internazionale del teatro studentesco organizzata dalla Freie Deutsche Jugend, l’associazione che raggruppava i giovani al di sopra dei 14 anni. Salvo che, in questa occasione, alcuni passi in cui si fa menzione del «confine di stato» e della «linea di frontiera» sono percepiti come un attacco manifesto alla costruzione del Muro. Ecco come Müller rievoca dalla prospettiva degli anni Novanta quella drammatica lacerazione:

Determinate frasi della pièce suonarono in quel momento come una vera e propria provocazione, anche se scritte due anni prima della costruzione del Muro. Per esempio, quando Fondrak dice: “È possibile che il prato tra di noi diventi improvvisamente confine di stato […], tu stai in Russia senza aver fatto un passo, io in America, e fare figli sulla linea di confine è esportazione – e pertanto vietato – anche l’importazione è punita. Se soltanto sfioro il tuo seno, già si spara”[27].

Ad aggravare la posizione di Müller intervengono anche altri fattori: da un lato, la mancata presentazione, due anni prima, in occasione della richiesta di sovvenzione presso il Deutsches Theater, di un piano di lavoro dell’opera; dall’altro l’aggiunta, dopo la rappresentazione per il nullaosta, di battute precedentemente non previste. Bollata come «controrivoluzionaria» e «anticomunista», la Umsiedlerin procura all’autore l’accusa di «congiura» e gli vale l’espulsione dallo Schriftstellerverband.

Al di là della ricostruzione delle colpe attribuite a Müller e dei provvedimenti presi nei suoi confronti, sono di particolare interesse le motivazioni addotte dall’autore a giustificazione della sua successiva autocritica, scritta con l’aiuto di Helene Weigel e pronunciata di fronte a un gruppo di scrittori e funzionari di partito:

Si trattava della mia esistenza come autore […]. Scrivere era per me più importante della mia moralità […]. Potevo immaginarmi un’esistenza come autore solo in questo paese, non nella Germania occidentale […]. La mia esistenza vera e propria era quella di autore, e cioè di autore di opere teatrali[28].

A chiarire il senso di queste affermazioni è un altro passo di Krieg ohne Schlacht. Interrogato dai suoi intervistatori circa la sua conoscenza, negli anni cinquanta, dello stalinismo, Müller sposta il discorso dal piano della vicenda storica alle potenzialità drammatiche in essa racchiuse:

Sapevo del comunismo nell’Urss già da mio padre. […] Sapevo di Trotckij, delle epurazioni e dei processi. Era qualcosa che potevo rielaborare artisticamente, a me interessava la tragedia[29].

La tragedia di cui parla Heiner Müller consiste in primo luogo nel rapporto dell’uomo con il potere, che egli identifica innanzitutto nella sua forma totalitaria, la dittatura. In un passo successivo dell’intervista l’autore chiarisce come le dinamiche originate dal potere costituiscano la materia propria della drammaturgia, dunque della sua opera: «per il drammaturgo una dittatura è certamente più espressiva di una democrazia. […] Tanto più c’è stato quanto più c’è dramma», afferma a questo proposito[30]. Il teatro, nella sua articolazione di ruoli, gli appare come il genere letterario che meglio può esemplificare l’interagire tra l’uomo e l’autorità: «il dramma», conclude, «ha più a che fare con lo stato che gli altri generi letterari»[31]. Proprio sulla base del suo rapporto personale, in quanto drammaturgo, con il potere – un rapporto che egli definisce nei termini di una «fascinazione»[32], di un’attrazione da lui subita – Müller spiega le ragioni del suo essere rimasto nella Rdt:

La permanenza nella Rdt era in primo luogo permanenza in un materiale di studio (Material)[33].

È naturale chiedersi come sia da leggere questa affermazione, con cui l’autore sembra declassare le motivazioni ideologiche della sua scelta di vivere a Est a favore di quelle artistiche. Tanto più che tale affermazione è suffragata da altri passi dell’intervista, in cui egli sembra relativizzare il suo credo politico: «non potevo dire di essere comunista», «era un gioco di ruoli» si legge, per esempio, in un altro punto dell’autobiografia[34]. Per comprendere il movente da cui si originano queste riflessioni occorre ricordare che esse germinano all’indomani del fallimento della Rdt. Accanto alle ragioni estetiche addotte a sostegno delle sue scelte – di cui non c’è motivo di dubitare – è lecito supporre che qui Müller voglia legittimamente affrancare la sua identità di uomo e di artista dal naufragio di uno stato nel quale egli è rimasto fino alla fine. Che tali dichiarazioni non siano però da interpretarsi nella direzione di un revisionismo ideologico sembra trovare conferma nel significato e nel valore esemplare che l’autore riconosce alla figura di Bertolt Brecht. Giunto nella Rdt e poi rimastovi nonostante i conflitti con l’apparato, Brecht è, nelle parole di Müller, l’esemplificazione della capacità e della possibilità di comprendere in sé, malgrado tutto e al di là dello specifico contesto storico-politico, arte e utopia comunista:

Brecht era la legittimazione dell’essere a favore della Rdt. […] Poiché là c’era Brecht, si doveva rimanere. […] Brecht era l’esempio di come si poteva essere al contempo comunisti e artisti – senza o con il sistema, contro o nonostante il sistema. Brecht rappresentava una posizione europea rispetto a quella nazionale[35].

3. Intellettuali a confronto

Come si è detto, Günter Kunert lascia la Rdt nel 1979 e si trasferisce a Itzehoe, nello Schleswig-Holstein. Tutta l’ultima parte di Erwachsenenspiele costituisce il contesto di una storia umana interpretata unicamente in funzione di un’irrecuperabile disillusione, di un naufragio ideologico che non sembra oggettivabile nel presente della scrittura. Innestando sui propri ricordi i rapporti che la Stasi, i servizi segreti della Rdt, ha redatto nel corso degli anni e che il poeta ha potuto visionare dopo il 1989, Kunert documenta nell’autobiografia in modo quasi ossessivo la sorveglianza a cui è stato regolarmente sottoposto. Gli stralci riportati sono passi ora di dettagliate relazioni inerenti i suoi movimenti, i suoi incontri, le sue esternazioni, ora di resoconti riguardanti le manovre della censura nei confronti delle sue opere. Con crescente acrimonia l’autore nomina i propri delatori, ne rivela l’identità celata dietro pseudonimi, ne individua con precisione i ruoli. Anche quando testimonia un allentarsi delle tensioni con la dirigenza politica, il bilancio della propria vicenda esistenziale sembra ormai irrimediabilmente compromesso.

Poca incidenza nella narrazione ha la memoria delle esperienze positive vissute nei primi anni Settanta – i ripetuti viaggi in Europa e negli Stati Uniti, i numerosi contatti con diversi intellettuali della Germania federale, le conferenze e la pubblicazione dei propri testi a Ovest. Così, il ricordo della partecipazione, insieme a Max Bieler, a un festival di letteratura nei pressi di Londra si riduce alla succinta esposizione delle difficoltà affrontate per ottenere il permesso d’espatrio, dei distratti controlli britannici nei confronti di quegli «effimeri visitatori provenienti da un paese fittizio»[36], e delle domande rivoltegli dal pubblico anglosassone circa l’esistenza, nella Rdt, della censura. In modo non dissimile, la rievocazione di un suo intervento a una riunione del Gruppo 47 a Wannsee, occasione per incontrare, tra gli altri, Peter Weiss e Heinrich Böll, si comprime nella scarna notazione di fatti marginali.

Il lettore che cerchi in queste pagine di Erwachsenenspiele testimonianze e delucidazioni circa il dibattito politico e ideologico intercorso tra gli intellettuali tedeschi dentro e tra le due Germanie rimane inevitabilmente deluso. La memoria sia dell’ampia galleria di conoscenze – Max Frisch, Uwe Johnson, un giovane Friedrich Delius – sia delle amicizie più strette – Stephan Hermlin, Friederike Mayröcker, Ernst Jandl – si limita a episodi di carattere aneddotico, fagocitata com’è dall’ipertrofia di un io amaramente concentrato sulla propria vicenda personale.

E non è certo un caso che il racconto di un incontro con Böll, in occasione di una conferenza di quest’ultimo presso lo Stephanus-Stift a Weißensee, si soffermi quasi esclusivamente sulla comune visita, a tarda sera, a Wolf Biermann e si chiuda con l’anticipazione dell’ineluttabile futuro – l’espulsione del cantautore dalla Rdt e il successivo passaggio di Kunert a Ovest:

Scarrozziamo i Böll attraverso la città fin da Biermann, che già pizzica impaziente le corde della chitarra. […] “Non aspettare tempi migliori” … suona come il consiglio di andarsene. Se ci fosse un chiaroveggente tra noi, potrebbe suggerire al divertito Böll di preparare già da ora la stanza degli ospiti per Biermann. E Biermann verrebbe a sapere che ha ancora davanti a sé poco più di un anno nella Rdt. E i Kunert?[37]

Dei tre autori qui presi in considerazione, solo de Bruyn si sofferma sulla narrazione degli eventi del novembre 1989. «La fine della Rdt», si legge all’inizio dell’ultimo capitolo di Vierzig Jahre, «generò in me una congerie di sentimenti, in cui tuttavia a prevalere era l’esultanza»[38]. Il pensiero di de Bruyn va qui al 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro di Berlino, avvenimento che per lui, rimasto a Est nonostante la distanza dal socialismo, segna l’epilogo della Repubblica democratica: «la Rdt sopravvisse ancora un anno scarso, ma nel mio calendario privato delle festività questo giorno è indicato come quello della sua scomparsa»[39].

L’apertura di varchi di passaggio tra i due settori della città fu per tutti – com’è noto e come de Bruyn sottolinea ulteriormente – un evento inatteso. Nell’autobiografia l’autore racconta di aver osservato con partecipazione le manifestazioni di euforia collettiva e di essersi rimproverato di non aver contribuito più attivamente al «processo di liberazione»[40]. La ricostruzione di quei momenti avviene in una prospettiva del tutto privata. Tralasciando il quadro complessivo dell’accaduto, dei suoi snodi e delle sue motivazioni storico-politiche, de Bruyn si sofferma sulla memoria di una propria visita, il giorno successivo, a Berlino ovest. Invece di unirsi alla folla dei cittadini orientali che si riversavano lungo il Kurfürstendamm, egli narra di essere ritornato sui luoghi della propria infanzia, trascorsa tra gli spazi verdi del quartiere Britz. Il ricordo del passaggio attraverso la Oberbaumbrücke, il ponte pedonale che unisce il quartiere orientale di Friedrichshain all’occidentale Kreuzberg, funge da testimonianza diretta di quanto si verificava sulla linea di confine, restituendoci le immagini della Berlino di allora:

Qui, dove potevano transitare solo i pedoni, non c’era così tanta calca come nei punti di passaggio più conosciuti, per quanto fosse comunque abbastanza pressante. C’erano ancora le baracche di frontiera con le loro sbarre, le paratie, gli angusti vani e gli stretti passaggi. Ancora si doveva sfilare a uno a uno davanti agli sportelli e far timbrare i documenti d’identità. Ma gli addetti al controllo erano di buon umore tanto quanto coloro che vi si sottoponevano e mostravano di considerare il loro timbrare ormai privo di senso, e tutto si svolgeva rapidamente cosicché non occorreva aspettare a lungo prima di poter vedere il ponte e la Sprea, che da quasi tre decenni era stata coperta dal muro[41].

La rievocazione di de Bruyn focalizza innanzitutto i comportamenti dei giovani orientali che, nati dopo il 1961, si avventuravano per la prima volta, quel 10 novembre, nelle zone di Berlino indicate sulle cartine geografiche dell’Est come un grande spazio bianco, alla ricerca delle colorate vetrine e delle allettanti merci occhieggiate sulla televisione occidentale. «I giovani cercavano di allontanare le grandi aspettative che trasparivano sui loro volti con disinvolte frasi fatte», annota l’autore[42], che nelle ripetute manifestazioni di arroganza verso la polizia di frontiera ricorda di aver colto il nervosismo di chi, impreparato, si apprestava a vivere l’esperienza di una realtà lontana dalla propria quotidianità:

Agli addetti al controllo, davanti ai quali solo il giorno precedente si sarebbero mostrati umili, [quei giovani, D.N.] davano ora prova di come i liberi cittadini posso essere impertinenti. Poiché essi già presagivano che sulla sponda occidentale sarebbero apparsi come ingenui provinciali si comportavano in modo chiassoso e presuntuoso[43].

La visione che si offre al visitatore giunto a Berlino ovest attraverso l’Oberbaumbrücke non corrisponde però alle aspettative: a campeggiare in primo piano sono le cadenti facciate dei palazzi della zona turca di Kreuzberg, «una prima delusione»[44] per chi è alla ricerca del tanto decantato benessere occidentale. Lasciate le arterie congestionate dalle auto dirette verso lo Zoologischer Garten, de Bruyn riferisce di aver raggiunto i luoghi dell’infanzia – la Schutzengelkirche, la scuola, lo Schloß di Britz con il parco e il lago antistante. Al degrado di Kreuzberg fa da contrasto l’aspetto ben curato del castello: la facciata restaurata dell’edificio, le strade pavimentate di nuovo, l’insenatura accuratamente transennata del lago creano l’impressione di un complesso da cartolina, ben lontano dall’ambiente conservato nella memoria delle corse coi pattini sulla superficie ghiacciata dell’acqua. Nella sensazione di estraneità provata l’autore afferma di aver letto il proprio spaesamento nei confronti del cambiamento che si stava verificando: «Era come se il sentimento e i sensi non volessero ancora assecondare la comprensione razionale della nuova situazione. Con alle spalle le esperienze di questo secolo, era difficile realizzare che la storia tedesca potesse anche svolgersi in modo lieto»[45].

Accanto al recupero del passato familiare, quella passeggiata offre a de Bruyn ancora una volta l’occasione per osservare alcune reazioni dei giovani tedeschi dell’Est a contatto con il mondo del consumo. Due le immagini – e contrapposte – su cui egli si sofferma in modo particolare. L’una riguarda l’ostentazione di quei giovani orientali che, riversatisi nelle metropolitane, fanno risuonare a tutto volume i radioregistratori appena acquistati a basso costo; l’altra concerne lo sconcerto di due studenti di fronte all’alto prezzo dei libri occidentali, che li costringe a spendere il loro intero Begrüßungsgeld[46] nell’acquisto delle ultime opere di Martin Walser e Hans Magnus Enzensberger. Immagini, queste, in cui si annunciano quegli aspetti della società capitalista con cui la popolazione dell’Est avrebbe dovuto presto confrontarsi. A chiudere il ricordo di quella giornata è la descrizione dei banchetti di würstel, dolciumi e chincaglierie allestiti in tutta fretta dai turchi di Kreuzberg in prossimità della frontiera. Qui i cittadini orientali spendono gli ultimi spiccioli prima di tornare alle loro abitazioni.

Al di là del vissuto di quei giorni la scrittura autobiografica ci dà modo di cogliere alcune divergenze all’interno di un gruppo di intellettuali partecipi dapprima, seppur con posizioni diverse, della cultura socialista e operanti poi nella Germania riunificata. Ripensando al terremoto politico verificatosi nella Repubblica democratica in seguito alla caduta del Muro, de Bruyn sottolinea di aver sperato sin dall’inizio nella riunificazione delle due Germanie, giustificata, a suo parere, dalla permanenza nonostante i quarant’anni di divisione di una condivisa «cultura tedesca» e di un «senso di comune appartenenza»[47]. E, con ciò, egli ribadisce fermamente di non aver mai appoggiato le posizioni di quegli intellettuali che sostenevano la possibilità di riformare la Rdt, riconoscendo in essa «il campo di sperimentazione per la sintesi, fino ad allora non realizzata, di socialismo e democrazia»[48].

La mia posizione non la condividevano assolutamente tutti. In modo particolare tra gli intellettuali c’erano coloro che disdegnavano l’unificazione, tra questi molti miei coetanei che, come me, avevano rifiutato la dittatura, si sentivano però più strettamente legati allo stato e alla sua idea di quanto non lo fossi io e ora che la dirigenza dava le dimissioni guardavano al prodotto del suo potere come a qualcosa che meritava di essere preservato[49].

È questa, per esempio, la posizione di Stefan Heym. Nelle ultime pagine della sua autobiografia, così come nei testi immediatamente successivi al 1989, l’autore si augura che il socialismo reale possa ancora essere rinnovato. Nachruf si conclude infatti con l’immagine di Gorbačëv, a cui si accompagna l’auspicio che il processo di trasformazione non si faccia attendere a lungo: «se, come, e quanto presto si compirà la riforma non posso dirlo. Tuttavia mi rattristerebbe se ciò per cui S.H. e molti altri si sono impegnati tanto si facesse ancora attendere per decenni»[50]. L’esortazione di Heym alla realizzazione di uno stato socialista democratico risuona anche nelle parole pronunciate il 4 novembre sull’Alexanderplatz da diversi intellettuali, tra cui Christa Wolf e Christoph Hein, che di fronte a più di mezzo milione di persone si esprimono a favore di una trasformazione delle strutture dello stato. A ciò si unisce il richiamo a difendere l’identità tedesco-orientale di fronte alla possibilità – poi verificatasi – di un’annessione tout court alla Repubblica federale[51].

La politica del disgelo inaugurata da Gorbačëv sembra aver attirato in un primo momento anche l’attenzione di Heiner Müller, influenzando, tra l’altro, la stesura delle prime due parti di Wolokolamsker Chaussee, pièce in cinque quadri a cui egli  lavora dal 1984 al 1987[52]. Ritornando a quegli anni l’autore osserva:

Anche per me inizialmente il programma di Gorbačëv era un segnale di speranza per l’azienda “socialismo” che stava naufragando, l’illusione della possibilità di riformare il sistema è durata un po’di tempo, quasi fino alla terza di parte Wolokolamsker Chaussee, scritta nel 1986. Perlomeno è stata sufficiente per le prime due parti[53].

Già nella terza parte dell’opera però il drammaturgo aveva abbandonato il sogno di un “socialismo senza carri armati”, denunciando nel conflitto tra il direttore di una fabbrica del popolo, esponente della vecchia guardia socialista, e un giovane lavoratore, portavoce delle istanze di cambiamento, quella situazione di rottura ideologica che nell’arco di pochi anni avrebbe portato all’epilogo della Rdt e alla fine del blocco socialista. Dello sfaldamento del pensiero comunista parla d’altronde il testo poetico Fernsehen [Televisione][54], letto da Müller stesso – sono i primi giorni dell’ottobre 1989 – nel teatro Am Palast der Republik, dove sarebbe dovuta andare in scena la pièce Quartett [Quartetto, 1982][55], salvo che il regista e un attore sono fuggiti a Ovest. Le immagini nei versi di Fernsehen si intrecciano in una «genealogia della violenza»[56] inscritta nella storia comunista: i carri armati sovietici appostati in quei giorni davanti alla Volkskammer di Berlino est rimandano alla repressione cinese di piazza Tien An Men e, arretrando nel tempo, ai fatti d’Ungheria. Il bilancio è negativo e segnala il congedo da ogni slancio utopico, poiché «in nome dell’utopia sono sorte le fondamenta dell’orrore»[57]. Per quanto si legge a conclusione di Krieg ohne Schlacht, non sembra che per Müller vi fosse lo spazio per una rifondazione della Repubblica democratica. «Per la Rdt non c’era altra alternativa che la Repubblica federale. Solo adesso, dopo l’unificazione, c’è di nuovo anche in Germania una base per la lotta di classe»[58], afferma l’autore a chiusa della sua lunga intervista, rivendicando comunque il diritto a perseguire l’uguaglianza sociale all’interno di mutate coordinate storiche e politiche.

4. Lo sguardo sul presente. Ein Tag im Jahr di Christa Wolf

A soffermarsi sulle procedure attuate da Bonn nell’ambito della riunificazione tedesca è il testo autobiografico di Christa Wolf Ein Tag im Jahr. 1960-2000 [Un giorno all’anno. 1960-2000] uscito nel 2003[59]. A differenza delle opere precedentemente citate, incentrate tutte su una scrittura che sonda il passato dalla prospettiva successiva al 1989, il volume della Wolf è il risultato di un progetto letterario portato avanti dall’autrice per quarant’anni, dal 1960 al 2000. Esso nasce infatti dalla raccolta di singoli testi elaborati in forma diaristica – nel costante intreccio di vita privata, vicenda intellettuale e contesto storico-politico – di anno in anno nella data ricorrente, salvo poche eccezioni, del 27 settembre. Se i testi antecedenti alla svolta raccontano nell’immediato la storia della Rdt, le annotazioni risalenti agli anni Novanta focalizzano alcuni momenti della Wende, prima soffermandosi sul dibattito circa le possibilità di riformare il paese, poi descrivendo lo sconcerto di fronte alla scomparsa dello stato socialista, repentinamente smantellato da Kohl a seguito della vittoria elettorale del marzo 1990.

Le prime immagini del testo datato 27 settembre 1990 rievocano gli eventi dell’ottobre precedente, quando i Vopos caricano i dimostranti scesi in piazza contro Honecker in occasione del quarantesimo anniversario della Rdt. Proprio all’epoca della stesura di queste pagine la Wolf fa parte della commissione d’indagine sugli abusi allora compiuti dagli organi di sicurezza sui manifestanti. Nella rievocazione di quei momenti drammatici, che hanno visto coinvolta anche una delle due figlie dell’autrice, Berlino appare una città blindata:

Torno col pensiero a meno di un anno fa, quando per ordine di questa gente nelle notti intorno al 7 ottobre i dimostranti furono caricati su autocarri, condotti in distretti di polizia e in autorimesse e lì costretti a stare tutta la notte in piedi con le mani contro il muro e le gambe divaricate, senza mangiare né bere, scherniti e vessati, Annette tra loro; la domenica mattina la cercammo in tre, a Berlino Mitte, alla procura generale, in questura; dai citofoni venivano sempre voci di diniego; il centro di Berlino somigliava a una città assediata e io pensai: adesso il potere mostra il suo vero volto[60].

La prospettiva diaristica offre poi al lettore una visione a “distanza zero” di quanto si verifica – siamo appunto nei mesi seguenti le elezioni del 18 marzo – in una Rdt ormai destinata a confluire nel sistema occidentale. È ancora nello stesso testo che la Wolf tratteggia, dall’ottica degli acquisti quotidiani, la prepotente irruzione a Est, complice l’unificazione monetaria, dell’economia di mercato coi suoi prodotti e la sua violenta forza penetrativa:

Nella rivendita aperta fino a tardi all’angolo della Kavalierstraße, dove conosco il posto di tutte le merci sui ripiani, adesso a volte il mio senso dell’orientamento fa cilecca per via delle nuove merci colorate collocate accanto alle vecchie o che le rimpiazzano. Quando arrivo alla cassa, poco prima di mezzogiorno, il negozio è casualmente vuoto. Ciononostante la commessa sussurra, ragguagliandomi sulle ultime faccende che la riguardano: una catena di supermercati tedesco-occidentale sta negoziando con la catena di stato per rilevare il negozio. Se la cosa non va in porto, probabilmente verrà chiuso. Allora saremo tutti licenziati, dice la donna o forse ne potranno restare due[61].

La successiva enumerazione delle «vane azioni di salvataggio»[62] nelle quali l’autrice si è trovata coinvolta – «ho contribuito a salvare le edizioni Reclam e le edizioni Aufbau, ho collaborato all’Accademia delle Arti e alle discussioni sul futuro del PEN club»[63] – attesta la tenace reazione dell’intellighenzia Rdt di fronte alla liquidazione non solo politica ma anche culturale del paese, di cui è indice il collasso dell’editoria, non più sostenuta dallo stato, la scomparsa di prestigiose riviste, la soppressione di numerose accademie. Più volte nei testi di Ein Tag im Jahr risalenti agli anni Novanta fa capolino l’immagine dei libri d’argomento politico o di letteratura est-europea buttati nelle discariche o mandati al macero. Ma non è tutto. A essere progressivamente smantellati, annota la Wolf, sono molti servizi d’eccellenza, tra cui l’università, il cui corpo docente viene perlopiù allontanato, e parte della struttura sanitaria, privatizzata. Ripetutamente torna la parola «licenziamento»: ora degli operai dei cantieri navali, ora degli occupati nel settore dell’agricoltura, ora degli impiegati nelle diverse cooperative.

Alla constatazione della debolezza interna dei movimenti che nei mesi successivi alla caduta del Muro si sono espressi a favore di un rinnovamento della Rdt, rivelatisi incapaci di tradurre i loro progetti in direzione dell’auspicata «terza via»[64], si accompagna nella Wolf il biasimo verso ogni delegittimazione dell’identità orientale. Pur ribadendo il proprio atteggiamento critico nei confronti della storia politica della Rdt, l’autrice prende le distanze dall’enfasi della Wende cavalcata dai partiti occidentali: «non ho dimenticato la mia disperazione negli ultimi anni della Rdt, e tanto meno mi si indurrà ad approvare il modo e la velocità con cui essa è stata liquidata»[65], annota il 27 settembre 1993. Il bilancio è amaro: «per molte persone nella ex-Rdt crolla ancora una volta una nuova speranza di paradiso […] e dipende dal peso di una tale delusione dove sarà trascinata la maggioranza di questa gente»[66].

Le pagine in cui la Wolf ripercorre i momenti della violenta campagna di denigrazione condotta da una certa stampa occidentale in seguito all’uscita, nel marzo 1990, del suo racconto Was bleibt – letto malevolmente come «tentativo di volersi annoverare tra i perseguitati della Rdt» o come «prova di un intimo coinvolgimento col potere»[67] – denunciano l’inquietudine di chi si sente «esposta»[68] a un confronto con il passato «gestito dall’ovest senza tatto e senza differenziazioni».

Nel sentimento di estraneità provato durante uno spostamento in macchina da Pankow a quello che era il centro di Berlino ovest sembra riassumersi il disagio di chi si trova catapultato in una realtà storica forzosa:

Come sempre, adesso che andiamo “in città” si scende per la Wollankstraße, la Schönhauser in direzione del centro è da un pezzo pressoché impraticabile per i lavoro in corso, quanto dureranno, diciamo ancora una volta, mi sorprendo a pensare che probabilmente non vedrò più Berlino ridiventare una città praticabile, subito dietro l’arco della ferrovia comincia Berlino ovest, i sobbalzi sul selciato cessano, parecchie volte stiamo fermi ai semafori, apro bene gli occhi e cerco di imprimermi in mente il tratto di strada che ho già percorso in macchina dozzine di volte, come mi è durevolmente estranea questa Berlino ovest, come continuo a orientarmi poco in tanti suoi quartieri, a quanto pare non vuole riuscirmi di registrare nella memoria questi luoghi nuovi. Mi chiedo se non ci sia di mezzo una resistenza inconsapevole[69].

La resistenza di cui parla la Wolf è quella di chi si oppone alla tabula rasa o alla strumentalizzazione di un passato che necessita ancora di essere interrogato, perché «non ci può essere riconciliazione senza conoscere i fatti»[70].

Sono passati vent’anni dalla caduta del Muro. Sulla storia della Repubblica democratica, con la sua forte carica utopica e le sue contraddizioni, molto è stato detto e altrettanto è stato scritto. In questo ambito, i testi qui presi in esame possono dare un contributo alla riflessione. Alla parola autobiografica è affidato il compito della memoria personale, della testimonianza diretta, del pungolo critico.

Daniela Nelva

da: Oltre il muro. Berlino e i linguaggi della riunificazione, a cura di Anna Chiarloni, Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 119-136

*Del testo di Heiner Müller è ora disponibile un’edizione italiana: Heiner Müller, Guerra senza battaglia. Una vita sotto due dittature, ed. orig. 1992, trad. dal ted. Valentina Di Rosa, Rovereto, Zandonai, 2010, 370 p.

Immagine: Oberbaumbrücke

 


[1] Riprendo in questo contributo quanto da me discusso in D. Nelva, Identità e Memoria. Lo spazio autobiografico nel periodo della riunificazione tedesca. Stefan Heym, Günter de Bruyn, Heiner Müller, Günter Kunert, Mimesis, Milano, in corso di stampa. *Ora Mimesis 2009.
 [2] Per una ricognizione del panorama inerente la scrittura autobiografica dopo il 1989 cfr. D. Mugnolo, Autobiographien, Memoiren, Erinnerungen, in F. Cambi, A. Fambrini (a cura di), Zehn Jahre nachher. Poetische Identität und Geschichte in der deutschen Literatur nach der Vereinigung, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2002, pp. 139-150.
 3] G. de Bruyn, Zwischenbilanz. Eine Jugend in Berlin, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1992; Id., Vierzig Jahre. Ein Lebensbericht, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1996. H. Müller, Krieg ohne Schlacht. Leben in zwei Diktaturen, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1992. G. Kunert, Erwachsenenspiele. Erinnerungen, Carl Hanser Verlag, München-Wien 1997
[4] Ph. Lejeune, Le pacte autobiographique, Editions du Seuil, Paris 1975 [tr. it. Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna 1986].
[5] S. Heym, Nachruf, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1988.
[6] Utilizzo qui la terminologia coniata da Gérard Genette nella sua analisi della «voce» del racconto. Per narratore «eterodiegetico» lo studioso francese intende un narratore estraneo al mondo raccontato che ripercorre le vicende di un personaggio altro da sé. Cfr. G. Genette, Figures 3, Editions du Seuil, Paris 1972, p. 252 [tr. it. Figure 3, Einaudi, Torino 1976, p. 292].
[7] G. Kunert, op. cit., p. 315.
[8] La complessità del testo autobiografico, sapientemente espressa da Goethe nella nota formula di «poesia e verità», è messa in luce da de Bruyn in un breve saggio del 1995, il cui titolo suona, non a caso, Das erzählte Ich. Über Wahrheit und Dichtung in der Autobiographie [L’io narrato. Sulla verità e poesia nell’autobiografia]. Se da un lato l’autore individua nell’aspirazione alla «verità» la cifra peculiare dell’autobiografia, da lui descritta come «racconto veritiero» sospinto dall’impegno etico del suo autore a narrare «fatti», dall’altro egli ammette come tale «verità» non possa essere «assoluta», quanto piuttosto subjektiv, «soggettiva», e zeitbezogen, ovvero legata al peculiare momento della rielaborazione retrospettiva. Cfr. G. de Bruyn, Das erzählte Ich. Über Wahrheit und Dichtung in der Autobiographie, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1995, pp. 19-20.
[9] G. Kunert, op. cit., p. 218.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 219. Pochi giorni dopo, ai coniugi Kunert sarà ritirato il lasciapassare per Berlino ovest. La promessa di fornire loro al più presto un documento sostitutivo non sarà mantenuta. Cfr. ivi, p. 221.
[12] Ibidem.
[13] G. de Bruyn, Vierzig Jahre, cit., pp. 110-111.
[14] Ivi, p. 107.
[15] Ivi, p. 109.
[16] Ivi, p. 110.
[17] S. Heym, op. cit., p. 661.
[18] Ivi, p. 668.
[19] Ivi, p. 671.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem. Robert Havemann, titolare di una cattedra di fisica alla Humboldt-Universität, è allontanato dall’insegnamento nel ’65 a causa delle sue posizioni critiche nei confronti dell’ortodossia materialista.
[22] Ivi, p. 669.
[23] H. Müller, Krieg ohne Schlacht, cit., p. 160.
[24] Ivi, p. 162.
[25] Con il termine Umsiedler (letteralmente «emigrato») si indicavano nella Rdt – in modo eufemistico – i tedeschi costretti nell’immediato dopoguerra ad abbandonare i territori orientali del Reich, passati all’Unione Sovietica e alla Polonia. Insieme ai lavoratori agricoli e ai piccoli contadini, essi furono assegnatari dei terreni confiscati ai grandi proprietari terrieri.
[26] H. Müller, Krieg ohne Schlacht, cit., pp. 161, 166.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, pp. 180-181.
[29] Ivi, p. 62.
[30] Ivi, p. 112.
[31] Ivi, p. 113.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p. 61.
[35] Ivi, p. 112.
[36] G. Kunert, op. cit., p. 278.
[37] Ivi, p. 366.
[38] Ivi, p. 255.
[39] Ivi, p. 260.
[40] G. de Bruyn, Vierzig Jahre, cit., p. 255.
[41] Ivi, p. 258.
[42] Ibidem.
[43] Ivi, p. 259.
[44] Ibidem.
[45] Ivi, p. 260.
[46] Con questo termine erano indicati i cento marchi di «benvenuto» dati una tantum dalla Rft ai visitatori orientali che si recavano a Ovest.
[47] G. de Bruyn, Vierzig Jahre, cit., p.  256.
[48] Ivi, p. 257.
[49] Ibidem.
[50] S. Heym, op. cit., p. 837.
[51] Il 26 novembre è ancora Heym a pronunciare l’appello Für unser Land [Per il nostro paese], redatto da molti intellettuali, ricercatori ed esponenti della Chiesa evangelica al fine di esortare il popolo della Rdt a rivendicare l’autonomia del proprio paese.
[52] H. Müller, Wolokolamsker Chaussee I, in Shakespeare Factory I, Rotbuch Verlag, Berlin 1985, pp. 241-250. Id., Wolokolamsker Chaussee II-V, Henschelverlag Kunst und Gesellschaft, Berlin 1988; ristampato in id., Shakespeare Factory 2, Rotbuch Verlag, Berlin 1989, pp. 231-260.
[53] H. Müller, Krieg ohne Schlacht, cit., p. 348.
[54] H. Müller, Fernsehen, in «Temperamente», 1 (1990).
[55] H. Müller, Quartett, in Herzstück, Rotbuch Verlag, Berlin 1983, pp. 71-90 [tr. it. Quartetto, in H. Müller, Teatro, Ubulibri, Milano 1984, pp. 101-120].
[56] A. Chiarloni, Germania ’89. Cronache letterarie della riunificazione tedesca, Franco Angeli, Milano 1998, p. 33. Rimandiamo a questo studio per un inquadramento del dibattito che ha impegnato gli intellettuali tedeschi, non solo orientali ma anche occidentali, nel periodo della Wende e per un’analisi dei testi letterari in cui esso emerge e si riflette.
[57] Così Heiner Müller in «Freitag», 16 novembre 1990. Cito da A. Chiarloni, op. cit., p. 34.
[58] H. Müller, Krieg ohne Schlacht, cit., p. 360.
[59] C. Wolf, Un giorno all’anno 1960-2000, e/o, Roma 2006 (ed.or. Ein Tag im Jahr. 1960-2000, Luchterhand, Munchen 2003).
[60] Ivi, p. 392.
[61] Ivi, pp. 393-394.
[62] Ivi, p. 394.
[63] Ivi, p. 399.
[64] Ivi, p. 402.
[65] Ivi, p. 446.
[66] Ivi, p. 425.
[67] Ivi, p. 399.
[68] Ivi, p. 449.
[69] Ivi, p. 441.
[70] Ivi, p. 445.
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