Christa Wolf, Recita estiva

Meckenburg Pommersche Schmalspurbahn (via stillgelegt.de)

[Nell’ambito degli studi critici italiani sull’opera della Wolf la monografia di Anna Chiarloni, Christa Wolf, uscita nel dicembre 1988 presso Tirrenia Stampatori e da tempo fuori catalogo, si distingue come strumento completo, prezioso e attento per quanti desiderano esplorare il continente letterario della scrittrice. Continuando il nostro omaggio all’opera di Wolf riproponiamo integralmente il capitolo conclusivo della monografia, dedicato agli “amici di quell’estate”, ossia a Recita estiva, un testo che Chiarloni analizza e rende noto al pubblico italiano lavorando direttamente sul manoscritto inviatole da Berlino Est. C.M.]

Anna Chiarloni

In Allerlei-Rauh[1], una «cronaca» pubblicata nei primi mesi del 1988, Sarah Kirsch dedica una trentina di pagine alla rievocazione di una vacanza trascorsa a Kleinmachnow, il villaggio del Meclemburgo in cui la Wolf risiede abitualmente durante l’estate. Anche se le indicazioni cronologiche non sono precise – alcuni indizi farebbero pensare ai primi anni ’70 – la descrizione riguarda comunque il periodo precedente al trasferimento della Kirsch nella Germania Federale (1977). Espliciti sono invece i riferimenti personali al gruppo di amici, prevalentemente intellettuali berlinesi, tra cui spiccano – immediatamente riconoscibili – Christa e Gerhard (Wolf), Helga (Schubert) e Maxie con il marito Jossel (Wander). La narrazione di quella «incantevole estate» procede agile, con quel taglio tra il commosso e lo spavaldo che caratterizza la prosa della Kirsch quando rievoca le sue esperienze nella RDT. Il lettore viene rapidamente immesso in un mondo campagnolo vagamente anacronistico, in cui poeti e scrittori, critici e letterati, sistematisi per tempo in vecchie case contadine opportunamente ristrutturate, trascorrono l’otium estivo tra liete libagioni, cori notturni e tanghi argentini. Ma quello che qui ci interessa è che la Wolf venga direttamente apostrofata, nel bel mezzo del racconto, col reiterato invito a rievocare anch’essa, dal suo punto di vista, quella lontana estate. Né manca un certo tono ammiccante, allusivo di una giocosa intesa tra le due scrittrici[2], pronto a virare nella provocazione divertita a uscire allo scoperto:

«… giacché mistificare attraverso nomi fittizi non serve a nulla, ognuno deve rispondere per sé, Christa non può certo trasformarsi in Kitty, né Carola in Cordula, o il mio nome in Bernhardine. Se però Christa si tiene nel cassetto un testo analogo a questo, allora ci si deve chiedere se è più encomiabile il suo riserbo o la mia faccia tosta».[3]

La Wolf raccoglie il guanto di questa ironica sfida: nell’autunno del 1988 consegna all’Aufbau-Verlag Sommerstück (Recita estiva)[4], un romanzo breve dedicato appunto «agli amici di quell’estate» e siglato da una lirica della Kirsch, «Raubvogel» (Uccello rapace). Il fatto che venga così messo in evidenza il testo finale dell’ultima raccolta di versi pubblicata dalla poetessa nella RDT – dopo il trasferimento scese infatti sulla Kirsch l’usuale cortina di silenzio destinata ai dissenzienti – merita particolare attenzione. Da una parte il gesto richiama un atteggiamento frequente nella comunità letteraria della RDT, quello cioè d’innestare nel testo, attraverso un intarsio di citazioni e rimandi di vario genere, un dialogo sotterraneo, che si articola al di fuori dei canali di comunicazione usati abitualmente in Occidente. E in questo senso va il fitto reticolo i rimandi, interni al romanzo, all’opera di Maxie Wander e di Helga Schubert[5] che tra l’altro instaura – come in Störfall – una sorta di conversazione privilegiata tra donne.[6] Dall’altra indica la volontà di riallacciare – oltre il muro – il filo di quel dialogo tra intellettuali tedeschi che il caso Biermann aveva bruscamente interrotto. «Raubvogel» assume pertanto la cifra di una rivendicazione sempre più frequente nella letteratura della RDT: come un uccello rapace la parola poetica vola «ans Licht», verso i cieli ignari di qualsiasi spartizione politica.

Sommerstück reca in calce una data, Aprile 1988, ma in un’avvertenza l’autrice accenna a varie stesure provvisorie precedenti il 1983 e a parti redatte parallelamente a Kein Ort. Nirgends. Un’indicazione significativa che rimanda al travagliato periodo successivo al caso Biermann, consentendo tra l’altro di decifrare alcune allusioni interne al romanzo, sulle quali ritorneremo. L’avvertenza contiene anche una velata risposta a Allerlei-Rauh. La Wolf, infatti, pur non nominandola, ribalta pari pari il passo citato dalla Kirsch, ribadendo la dignità letteraria dei nomi fittizi:

«L’affermazione abituale che tutti i personaggi sono inventati me la risparmio. E’ evidente che nel racconto non si dispiega altro se non il mondo dell’autore, qualunque sia lo scenario che egli sceglie o i nomi che assegna alle sue figure, giacché i nomi “fittizi” non mistificano una persona più di quelli “veri”, e non tocca ai nomi essere responsabili di un testo, bensì all’autrice».

Questa scelta stilistica è dettata da ragioni ben precise. L’estate rievocata in Sommerstück, il luogo, i personaggi, sono certamente gli stessi descritti dalla Kirsch, tanto da creare una relazione reciproca di testo e sottotesto, ma la narrazione della Wolf trascende, come vedremo, i confini di quei mesi estivi, assumendo le dimensioni di un vero e proprio bilancio generazionale. I personaggi hanno pertanto una funzione simbolica che impone per sua natura il distacco da quel «vissuto» al quale si attiene invece la Kirsch. Il testo della Wolf, che ha una marcata struttura dialogica, si inserisce piuttosto nel genere del Gesellschaftsroman e, coerentemente, anche la scelta dei nomi propri ubbidisce a una certa strategia. Essa rivela infatti una diagnosi di carattere sociolinguistico che attraversa verticalmente, ossia in senso generazionale, il sistema dei personaggi: se i vecchi – che sono essenzialmente i contadini superstiti del villaggio – hanno nomi tipicamente tedeschi, man mano che si discende la scala anagrafica si nota un progressivo slittamento verso soprannomi anglicizzati (Ronny, Jenny, Tussy), fino a quel disneyano «Littelmary» che designa la nipotina di Ellen, ossia di quella figura femminile, inequivocabilmente autobiografica, che sta al centro del romanzo.

La rievocazione, condotta da una voce narrante che oscilla tra il «wir» di un sodalizio amicale, esplicitamente gregario, e la riflessione individuale, incrinata dalla solitudine dell’io, si apre con l’accento elegiaco di uno sguardo postumo:

«Succedeva che ci chiedessimo come ci raffiguravamo quegli anni, cosa avremmo raccontato tra noi e agli altri di quel periodo. Ma che il nostro tempo fosse limitato, questo non lo credevamo davvero. Ora che tutto è finito, anche questa domanda trova una risposta. Ora che Luisa è partita, Bella ci ha lasciato per sempre e Steffi è morta, ora che le case sono distrutte, sulla vita regna di nuovo il ricordo».

Accanto al tono di commiato – che nella parte finale culminerà in un «dialogo con i defunti» – il lettore registra immediatamente una sovrapposizione di piani temporali diversi, ribadita dalla continua intersezione tra passato e presente. Se nel rimpianto per un tempo perduto, in cui «uno slogan, una formula, una fede» univano i soggetti in un progetto comune, si può individuare un riferimento agli anni Cinquanta, la contrapposizione ad un presente, in cui il «wir» è frammentato in «esseri isolati, liberi di restare o di andarsene», orienta inizialmente il racconto lungo l’asse cronologico che sfiora la difficile situazione in cui si era trovata la Wolf nel 1977. Ma anche se altri indizi, disseminati ad arte nel testo[7], rimandano a questo periodo, l’ordito temporale è in realtà più complesso in quanto l’autrice, non interessata, come si è detto, ad una ricostruzione documentaria, sfonda la cronologia proposta dalla Kirsch, condensando nella descrizione di quell’unica estate i riferimenti più disparati, dal primo soggiorno nella casa estiva di Kleinmachnow nel 1962, fino all’incendio che, nel 1983, distrusse, oltre a quella stessa casa, anche quella adiacente di Helga Schubert, introdotta nel racconto col nome di Irene.

Vediamo ora come la Wolf articola la sua «Mecklembugstory» – il termine è della Kirsch[8] – a partire dal sistema dei personaggi. Al lettore esperto di letteratura della RDT non può sfuggire il ruolo insolito assegnato alla struttura familiare. La foto di gruppo della Kirsch si scompone e si ramifica in frastagliate parentele: Christa prende il nome di Ellen e, accanto a lei, non c’è solo il marito Jan, ma anche le due figlie, Jenny e Sonja, con la nipotina Litterlmary. Luisa – la Carola serafica e solitaria di Allerlei-Rauh – è qui introdotta con Antonis, l’antifascista greco e con la suocera, fonte inesauribile di ricette. Analogamente Steffi – ossia Maxie Wander – ha a fianco oltre al marito, anche il figlio David. Notevole risalto viene dato al piccolo Jonas, il bambino della Kirsch.[9] E poi c’è Michael, il figlio di Irene, e l’elenco potrebbe continuare perché la Wolf organizza con questo testo una vera e propria festa in famiglia, che si configura come una parafrasi attualizzante e imborghesita del ricevimento in casa Martens di Kein Ort. Nirgends. Una idilliaca festa campagnola, con tanto di déjeuner sur l’herbe, giochi di società e travestimenti di vario genere che culminano in quella recita a soggetto che dà il titolo al romanzo. Ma non basta: l’estate scorre placida in una rete di relazioni di buon vicinato tra famiglie in vacanza, sostenuta da una sorta di Geselligkeit culinaria che amplifica notevolmente l’attenzione per gli interni già presente in Störfall. La casa, o meglio la cucina – in cui c’è sempre un gran andirivieni di torte, anzi ad un certo punto si parla addirittura, con buona pace delle femministe, di «competizioni femminili per il dolce migliore» – viene qui esibita come il luogo naturale della comunicazione, corredata con tutti gli accessori di rito, dal gatto alla sedia a dondolo: è, insomma, il vero focolare domestico, il Zuhause al quale si giunge «con gioia e sollievo». Tutto questo non va evidentemente inteso come sintomo di riflusso, anche se è prevedibile già fin d’ora, da parte di una certa critica, un attacco frontale in questo senso, ma indica invece un’esasperata volontà di rottura con il mondo della burocrazia, in vista di una rifondazione del senso stesso della polis.

L’intreccio è in questo senso molto chiaro: Sommerstück è infatti la storia di una guarigione, ossia di una presa di distanza dagli eventi del 1976-1977. Il trasferimento in campagna è descritto, fin dalle prime pagine, come un neuer Anfang, come una rigenerazione, anche fisica, dalla logorante vita della capitale. L’acquisto di una casa contadina, l’iniziale titubanza di fronte alla proprietà privata, sono puntualmente illustrati attraverso la doppia prospettiva di Ellen e della voce narrante, con sequenze che rimandano a Nachdenken über Christa T.:

«Naturalmente ci era chiaro che non ci si deve attaccare a nulla. Naturalmente il concetto di “casa” non aveva avuto alcun peso nella nostra gioventù. Ben altre parole – ricordava Ellen – avevano completamente occupato i suoi pensieri. Che cosa la spingeva a cercare una casa? […] Fuga? Ma perché mai fuga. Se proprio qui era la vera vita. Vi farò vedere».

Il concetto di fuga, qui baldanzosamente negato, riemerge tuttavia negli incubi notturni di Ellen, che la Wolf utilizza con l’usuale trasparenza: immagini di «intollerabile» vita urbana, di vuote cerimonie ufficiali da cui l’io rifugge, precipitando tuttavia tra congegni che minacciano di stritolarlo, dai quali non c’è scampo se non nell’autoannientamento:

«Diventare quasi invisibili: questo era il prezzo per poter sopravvivere. Ellen non aveva scelta».

È in questo contesto che si colloca la vistosa riabilitazione ideologica della vita in campagna. La natura, una natura consolatoria, che fin dal primo capitolo si dispiega nelle liriche sequenze di una «Trost-Aria», redime l’individuo proprio perché essa non implica l’assillante dilemma tra «giusto» e «sbagliato», non impone «l’obbligo di formulare un giudizio su ogni cosa»: la natura è Stille, silenzioso e perenne fluire dell’essere che, con la sua indifferenza, consente una rigenerazione profonda:

«La sera, quando Ellen giacque nel suo scuro letto di legno, nella grande quiete che un tempo era certo uno degli elementi del mondo, ma che ormai regnava solo in campagna, percepì come quella tesa stanchezza, originata dal logoramento della vita in città che non concilia il sonno, si disciogliesse in una pesante, sana stanchezza agreste. Prima di addormentarsi pensò ancora che da tempo non aveva più sentito nel suo intimo quella fitta con la quale il suo corpo le annunciava quando essa era sconvolta fino in fondo».

Il senso di spossatezza psichica che caratterizza Ellen è in Sommerstück un doloroso dato generazionale. I giovani appaiono in fondo corazzati da una buona dose di scanzonata indifferenza, avvezzi oramai a navigare tra gli scogli della normativa socialista o a rinunciare con sovrana, pietistica «Gelassenheit» a qualsiasi posizione di prestigio: emblematica, in questo senso, è la figura di Anton, il cui programmatico disimpegno, ricorda la cultura dello sbarco tipica della gioventù occidentale. È invece chi si è formato nel primo dopoguerra a sentirsi oggi sconfitto. Non c’è solo lo sconforto della protagonista, l’idillio campestre si screpola spesso, lasciando trapelare i segni di una nevrosi profonda: il tremito di Bella, la sua ricerca implorante di «requie», i silenzi rabbiosi di Jan, l’emicrania e l’ipertensione di Clemens[10], illustrano assai bene quanto la generazione della Wolf si senta provata dagli ultimi quarant’anni di storia. Mortificati da un apparato burocratico sempre più ottuso, essenzialmente teso ad estirpare dall’individuo la «fiducia nelle proprie capacità», a questi personaggi altro non resta che «aspettare l’età della pensione per incominciare davvero a vivere».

La diagnosi della Wolf è davvero sofferta: la sua è una generazione a cui un potere miope ha tarpato le ali, mortificandone i progetti e le aspirazioni, una generazione «senza un presente» a cui non resta che darsi al bricolage domestico o alla contemplazione dell’immota bellezza del paesaggio nordico. Un paesaggio, si badi bene, non lavorato dall’operosa mano dell’uomo, come vorrebbe l’epica della riforma agraria, bensì una landa desolata alla Storm: cielo, acqua e boschi secolari e sullo sfondo la palude animata da uccelli acquatici, osservati anch’essi nella loro «orgogliosa» formazione familiare. Il lettore si chiederà a questo punto se il rifiuto di un sistema che incastra il cittadino nel meccanismo delle «scelte fasulle» – «tra bianco e nero. Giusto ed ingiusto. Amico e nemico» – approdi soltanto al bird-watching e alle feste in campagna.

L’analisi della Wolf va certamente in questo senso, ma la fuga nella natura ha la funzione di una tappa strumentale, disposta in un percorso più complesso. Attraverso una serie di escursioni nei villaggi circostanti, la scrittrice allarga infatti l’orizzonte del suo Gesellschaftsroman alla società rurale, ampliando lo spettro anagrafico al mondo dei vecchi, che si dispiega al lettore in una serie di ritratti fortemente caratterizzati: personaggi a tutto tondo, radicati nella storia e nel paesaggio tedesco, contadini descritti in una cornice domestica che, negli arredi, nei costumi, nel rispetto per una certa tradizione folcloristica, rimanda ad un passato unitario, non marcato dalla divisione della Germania. Questa generazione, benché provata dalla guerra, è tutto sommato più solida, più dignitosa di quella successiva, che la Wolf sente come precaria, espropriata delle radici storiche e quindi incapace di lasciare una traccia nel presente. Sono valutazioni che segnalano un ripensamento della storia tedesca del tutto inedito nella letteratura della RDT. La «indignazione» verso la miopia di un apparato, che instaura un fiorente commercio antiquario e rimpingua le casse dello Stato esportando nella Germania Federale ogni traccia di storia nazionale, è sintomo di una riflessione nuova sul bisogno profondo dell’individuo di continuità col proprio passato. E l’irreparabile senso di Heimatverlust (perdita di patria) si correla con lo sbigottimento incredulo dei vecchi del villaggio di fronte al cinico efficientismo del funzionario dei servizi di sicurezza che, sopraggiunto in fretta e furia alle esequie della vecchia madre, riparte per la città dando ordine di gettare nella discarica tutti gli arredi e gli effetti personali della defunta:

«Fu allora che vidi con i miei occhi quello che il buon Dio, nel caso ce ne sia uno, non perdonerà al giovane Kroll: si è alzato il vento e un paio di quei fascicoli sparsi in giro si sono sciolti, lasciando svolazzare in giro le foto di famiglia della vecchia Kroll, tutte le sue carte e i suoi scritti, e anche le lettere dal fronte del fidanzato, dei tempi della Grande Guerra. Sapete cosa mi sono detto? Anime smarrite, non so nemmeno io perché. Insomma: il figlio non ha voluto tenersi nulla. Soprattutto nessun ricordo. Qui, guardi lei stessa: l’annuncio di nozze della vecchia Kroll, nel 1925. E qui: la partecipazione di nascita del suo bel bebé. Hans Joachim, Maggio 1927. E adesso mi dica lei, cosa è mai successo a uno che si comporta così. Ce ne andammo da lì a poco. Luisa taceva. Già, cosa gli è successo, chiese dopo parecchio tempo. Questi figli. Chi e quando ha reciso il loro cordone ombelicale col passato. Come è stato estirpato in loro anche il minimo resto di rispetto umano. Tutti pensavano alle lettere e alle carte della vecchia Kroll, a come svolazzavano su quella squallida discarica senza riuscire a trovare pace».

La precisione delle indicazioni anagrafiche, ma ancora più l’appartenenza di Kroll ad uno degli organi burocratici più repressivi della RDT, chiarisce la denuncia della Wolf. Il potere assoggetta l’individuo fino a ridurlo a cifra anonima e ubbidiente, dimentica della propria identità storica e familiare. Sul fine degli anni Ottanta la Wolf, oramai sessantenne, sembra mettere in dubbio la stessa credibilità della propria generazione. Nel capitolo XIX, nel corso del dialogo elegiaco in memoria della Wander che chiude il testo, Ellen riprende il problema, arretrando ancora nel tempo:

«Cosa resta, Steffi, cosa resta. Vedo la nostra generazione dissolversi come sotto una forte irradiazione, un’immagine attuale, lo so. Il profilo dei nostri nonni, confrontato col nostro, mi sembra più saldo. Vedo i nostri contorni venir meno, come se non fossimo destinati ad avere un profilo preciso. Eppure, che cosa non abbiamo mai fatto per rafforzarci, in quanti panni ci siamo cacciati, in quante stanze abbiamo cercato protezione. L’antico istinto che ci spinge verso la caverna, verso il tepore e la vita comunitaria è troppo debole di fronte al gelo cosmico che ci penetra. E tutte le svariate fotografie che facciamo fare dei nostri molteplici volti sono ben più labili di un’impettita foto di nozze de nostri nonni».

Il bilancio negativo deriva dalla consapevolezza di appartenere ad una generazione mutilata di ogni velleità e quindi «incapace d’agire». Una generazione che non ha saputo «cacciar fuori l’urlo che aveva in gola» e si è ormai miseramente ricondotta a «coltivar fiori in campagna». L’elenco delle feste agresti – «feste in tre e feste per venti, feste all’aperto e feste in soggiorno, feste in cucina e feste in fienile» – assume allora il sapore della macabra ripicca. È infatti al termine di una serata trascorsa a giocare al gioco dei difetti, tra padri e figli, amici e nipoti che – con un brusco cambio di prospettiva – la scena, osservata dall’esterno, si congela in un’immagine grottesca, perché «il travestimento e la finzione non sono altro che l’ultima barriera contro la consapevolezza che dietro tutto questo non ci sia che il nulla». E improvvisamente tutta la messinscena – la finestra fiorita di gerani, le tendine in tinta con la tovaglia, le grezze stoviglie all’antica – rivela lo squallore del finto rustico, di un artefatto «teatro dei burattini», finché «nell’ora grigia tra la notte e il giorno» i personaggi vengono colti dall’atroce sospetto di non essere che fantasmi sopravvissuti a sé stessi, in un mondo ormai privo di senso:

«Ognuno di loro aveva sentito lo sguardo muto dell’ospite penetrargli fino al midollo. Non solo il gioco di quella sera, un gioco ben più grandioso era fallito».

La coscienza di vivere in un vuoto storico è bruciante, tanto più quanto riaffiora nella memoria il ricordo dello slancio ideale e della «irrepetibile innocenza» degli anni Cinquanta. In una società che, come per gli intellettuali romantici, non consente all’individuo di dispiegare le sue capacità, il disagio interiore si fa insopportabile: «la tensione aumenta, quando il mondo esterno blocca qualsiasi possibilità d’azione». E ancora più dolorosa, rispetto a Kein Ort. Nirgends, trapela la sensazione di un’occasione perduta:

«A nulla giovano le spiegazioni perché ogni interpretazione, ogni comprensione, viene spezzata da un’unica parola: troppo tardi».

E tuttavia la Wolf è una di quelle scrittrici che, ostinatamente, vuole far camminare il mondo. Per questo, con un’impennata finale che rammenta Störfall, essa lascia intravedere la possibilità di una redenzione. Il percorso verso la speranza, che si apre negli ultimi capitoli del romanzo, passa attraverso l’esperienza dell’incendio che minaccia la casa di Ellen. Un episodio che consente di ridimensionare l’immagine di una natura totalmente benigna rivelandone la cieca casualità – il fuoco è infatti causato dall’eccessiva siccità – e di attivare la minuta, talora ridondante[11] analisi della peristalsi familiare in una concreta esperienza di vita comunitaria. Il confronto con la descrizione della Kirsch di questo secondo episodio è illuminante. In Allerlei–Rauh l’incendio, che non assume rilievo particolare, viene rapidamente domato dal gruppo di amici «con l’aiuto di due trattoristi del colcoz locale». In Sommerstück la Wolf dispiega invece, con rapide sequenze cinematografiche, una sorta di epopea della solidarietà umana. Il coordinamento dei soccorsi, assicurato dall’intervento spontaneo di un’anonima figura «in tuta da lavoro», dà luogo a una intensa scena corale alla Seghers, in cui tutti – vecchi, donne e bambini – incuranti della fatica e del pericolo, con tacita intesa, «si dispongono in fila», «formando una catena umana, senza che nessuno desse un comando, tutti con qualcosa in mano nell’intento di spegnere il fuoco», mentre sullo sfondo già avanzano i mezzi motorizzati della cooperativa agricola.

Questo episodio rende più trasparente la funzione della campagna in Sommerstück. Il mondo rurale, lontano dai centri di potere, si configura come il custode di sentimenti come la solidarietà, la naturalezza, il rispetto umano, sentimenti altrove perduti. È pertanto qui, nella quiete e nella hölderliniana Abgeschiedenkeit (solitudine), che sigla il finale del testo, che avviene non già il «ripiegamento», bensì la «ricostituzione» del soggetto politico. Certo il processo è faticoso e l’individuo deve riprendere il cammino a partire dal censimento delle occasioni mancate. Ma la distanza, anche fisica, dal mondo dell’inganno e del sopruso consente il riaffiorare nella memoria di un’utopia originaria, vibrata come «uno squillo di tromba». Ricordo, non azione, sembra riconoscere la Wolf. Uno spostamento minimo, dunque, che tuttavia segnala la volontà di non adeguarsi. Per questo, a differenza della Kirsch[12], la Wolf conserva il lessico della speranza nell’immagine simbolica della mano tesa[13] che, alla fine del testo, si posa sulla pagina come una promessa.

Anna Chiarloni

da Anna Chiarloni, Christa Wolf, Torino, Tirrenia Stampatori, 1988, pp. 151-165


[1] Sarah Kirsch, Allerlei-Rauh. Eine Chronik, Stuttgart 1988.
[2] Op. cit., p. 60: «Spesso, quando negli anni successivi incontravo Christa, finiva che parlavamo di quella bella estate ricordando quelle feste. Ogni volta le dicevo che un giorno avrebbe dovuto scriverne …».
[3] Op. cit., p. 61.
[4] Il testo è in corso di stampa presso la casa editrice Aufbau di Berlino Est. I passi qui tradotti sono citati dal manoscritto.
[5] Nel colloquio con Steffi la Wolf sembra prendere posizione contro la tesi della Schubert, secondo la quale la malattia può essere talvolta accolta con sollievo dalla donna emancipata, come momento di requie a uno stress eccessivo. Cfr. Helga Schubert, Knoten, in Blickwinkel, Aufbau, Berlin u. Weimar 1984. La tesi della Schubert compare tuttavia anche nei racconti di Helga Königsdorf, si veda per esempio Der Lauf der Dinge, Aufbau, Berlin u. Weimar, 1982, p. 133. Una posizione privilegiata, accanto alla Kirsch, ha invece Maxie Wander, anche rispetto al marito Fred che, nel testo, compare con il nome di Josef ed ha un ruolo secondario, benché la Wolf abbia recensito a suo tempo con calda partecipazione il suo romanzo Der siebente Brunnen (cfr. Lesen un Schreiben, Darmstadt 1980, p. 193 e segg.).
[6] La Wolf cita la Kirsch, oltre che in prima pagina, anche all’interno del romanzo, sottoponendo al giudizio degli amici «Katzenleben», una poesia dell’omonima raccolta pubblicata in Germania Federale nel 1984.
[7] Evidente è l’intento di richiamare alla memoria l’inverno successivo al caso Biermann, soprattutto all’accenno di Ellen al 26° anno di matrimonio (che per la Wolf coincide appunto con il ‘77). La rete dei riferimenti cronologici è fitta e accentua il carattere di Schlüsselroman, insito nella struttura del testo. I più facilmente individuabili sono: la caduta della giunta militare in Grecia (‘74), la morte di M. Wander (‘77) e la data di pubblicazione di Katzenleben  (‘84)
[8] Allerlei-Rauh, p. 60.
[9] Sarah Kirsch, che compare nel romanzo col nome di Bella, è colta non già in quell’estate felice di Allerlei-Rauh, in cui ancora riceveva lettere d’amore «gocciolanti» di fior di lavanda e di mistral, bensì in un momento di acuto logoramento psichico, evidentemente allusivo dei mesi successivi al caso Biermann e precedenti il suo trasferimento nella RFT.
[10] La figura di Clemens, l’unico professionista nel gruppo, lascia intuire che la crisi generazionale descritta dalla Wolf non investe soltanto gli intellettuali ma anche chi ha raggiunto nel lavoro posizioni di prestigio.
[11] Il termine «peristalsi dell’anima» è usato in funzione autoironica dalla stessa Wolf. Eccessive – o forse peregrine a noi italiani, non certo usi ai laceranti dilemmi dell’etica protestante – sembrano tuttavia le lunghe discussioni sull’opportunità di mentire o meno ai malati di tumore.
[12] In fatto di speranza la Kirsch è certamente su posizioni diverse. Un passo di Allerlei-Rauh (p. 88) lascia d’altra parte intuire di che natura sia la speranza della Wolf: «Dopo tanti anni tornai in Meclemburgo […] mi sembrò impossibile che gli abitanti fossero di nuovo disposti a nutrirsi della pappa della speranza, a credere in un miracolo che avrebbe dovuto arrivare proprio da quei luoghi in cui Heinrich Vogeler era scomparso in un lager» (com’è noto Vogeler morì nell’URSS di Stalin).
[13] Il gesto solenne della mano tesa – la congiunzione delle mani di Ellen e Steffi – suggella anche una sororanza nel dolore che rimanda all’intensa amicizia tra Christa Wolf e Maxie Wander, scomparsa nel 1977. Il passo, che letteralmente interseca corpo e testo, fisicità e astrazione, esemplifica assai bene l’intreccio simbolico tra autenticità poetica e soggettività dell’esperienza che caratterizza l’opera della Wolf. Riprendendo la valutazione positiva della generazione dei nonni, Ellen, dialogando con Steffi dice:
– «Questi sì che erano ancora esseri umani. Ogni parola un diamante. Quando lei scrive “respinto”, quando scrive “impotente”, lì, tra parola e realtà, non riusciresti a infilare la punta di uno spillo nemmeno con una mazza. Da noi invece ci puoi infilare un dito. La mano intera. Talvolta, ahimè, l’intera persona, tutta te stessa.
–  Ehi, sorella. Ora però prendi fiato. Ora concediti questo intervallo. O le tue frasi ti devono inghiottire con pelle e capelli.
–  Su questo non c’era nulla da dire, ma oggi ti dico – mentre cessa di piovere e irrompono i primi raggi di sole –: Ebbene sì, lo devono. Lo devono davvero. Con ritegno, come tu mi conosci, io mi concedo. Senza riserve, come tu mi vuoi, resto fedele a me stessa. E ora poso la mia mano tra queste due frasi e tu, finché puoi, tienila tra le tue».
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