Incipit: La panne

Studebaker Starliner 1953 (via studebaker4ever)

Friedrich Dürrenmatt

Prima parte

Esistono ancora storie possibili, storie degne di uno scrittore? Se non si vuole parlare di sé, generalizzare romanticamente o liricamente il proprio Io, se non si sente l’esigenza di parlare delle proprie speranze e sconfitte con sincera verosimiglianza, e del proprio modo di fare all’amore, come se la verosimiglianza desse a tutto questo un valore universale e non piuttosto clinico, o nel migliore dei casi psicologico – se manca il coraggio e si preferisce defilarsi con discrezione, difendere garbatamente la propria vita privata, procurarsi altro materiale da plasmare come fa uno scultore, lavorarci su, realizzarsi e tentare, come un tempo facevano i classici, di non farsi prendere subito dalla disperazione anche se è difficile negare la palese assurdità che ovunque si manifesta –, allora lo scrivere diventa un lavoro arduo e solitario, e anche insensato: non conta un ottimo voto in storia della letteratura (chi non ha avuto ottimi voti, quante abborracciature non sono già state premiate), sono più importanti le esigenze quotidiane. Anche questo è un dilemma, e la situazione del mercato è sfavorevole. Il mero divertimento l’offre la vita con il cinema serale, alla poesia provvede il giornale coi supplementi; in cambio d’un investimento maggiore, che da un punto di vista sociale è superiore a un franco, si chiedono profusioni d’animo, confessioni, verosimiglianza appunto, forniture di valori superiori, considerazioni morali, sentenze praticabili, asserzioni che avvalorino o accantonino, ora il cristianesimo, ora disperazioni in voga: letteratura, insomma.
….Ma se l’autore si rifiuta sempre più e sempre più ostinatamente di produrre cose simili, perché è consapevole che la ragione del suo scrivere è in se stesso, nel riferire caso per caso ciò che ha nella coscienza e nel subcosciente, nel suo credere e dubitare, e ritiene che sono proprio queste cose a non interessare realmente il pubblico, che dovrebbe bastare ciò che scrive, plasma, forma, limitandosi a una gradevole superficie e ad essa soltanto, lavorandoci su e attenendosi al suo livello, e per il resto dovrebbe tacere, evitando commenti e pettegolezzi? Giunto a questo grado di consapevolezza, rimarrà interdetto, sarà colto da esitazioni e dubbi: è quasi inevitabile. Gli viene il sospetto che non ci sia più niente da dire, prende in seria considerazione di piantar lì tutto; forse è ancora possibile buttar giù qualche frase, ma poi si finisce nella biologia – per tener dietro almeno col pensiero all’esplosione demografica, ai miliardi d’individui che si moltiplicano, agli uteri che sfornano in continuazione –, oppure nella fisica, nell’astronomia, per farsi una qualche ordinata idea della struttura in cui oscilliamo. Quel che resta è roba da settimanali, “Life”, “Match”, “Quick” e “Sie und Er”: il presidente sotto la tenda ad ossigeno, zio Bulganin nell’orto, la principessa e quel donnaiolo d’un suo pilota, personalità del cinema, facce da dollari, fungibili, passate di moda appena si è finito di parlarne. E accanto a tutto questo la banale quotidianità d’ognuno, di un europeo occidentale nel caso mio, più propriamente svizzero, brutto tempo e congiuntura, preoccupazioni e tribolazioni, scosse determinate da eventi privati ma senza connessioni coll’universo tutto, con lo scorrere delle cose sensate e sciocche, col susseguirsi delle necessità. Il destino ha abbandonato il palcoscenico su cui avviene la rappresentazione per spiare dalle quinte, fuori dal contesto del dramma, e alla ribalta tutto si riduce a incidenti, le malattie, le crisi. Persino la guerra dipende dalle previsioni dei cervelli elettronici sul suo esito favorevole, caso che non si verificherà mai perché si sa – sempre che i calcolatori funzionino – che solo le sconfitte sono matematicamente concepibili; guai però se avvengono falsificazioni, abusive intromissioni nei cervelli artificiali, anche se l’esito sarebbe meno penoso della eventualità che si allenti una bobina, che un pulsante reagisca in modo sbagliato: in tal caso avremmo una fine del mondo tecnica, per corto circuito, per errato contatto. Non vi è più un dio che incomba, una giustizia, un fatto come nella quinta sinfonia, la minaccia viene dagli incidenti stradali, da dighe che crollano per difetti di costruzione, dallo scoppio di fabbriche di bombe atomiche causato dalla distrazione d’un addetto ai laboratori, dall’errata regolazione d’incubatrici. La nostra strada passa per questo mondo di contrattempi, e sui bordi polverosi, accanto a cartelloni che pubblicizzano le scarpe Bally, le Studebaker, un gelato, e alle lapidi che ricordano le vittime degli incidenti, si colgono ancora alcune storie possibili: l’umanità che traspare da una faccia dozzinale, una disdetta che assume senza volere dimensioni universali, il palesarsi di giudizi e di giustizia, forse anche di pietà, capitata per caso, riflessa dal monocolo d’un ubriaco.

Seconda parte

Un incidente, sia pur banale, una panne, anche in questo caso. Alfredo Traps, tanto per dirne il nome, con un lavoro nel settore tessile, quarantacinque anni, tutt’altro che corpulento, gradevole d’aspetto, dai modi sufficientemente cortesi anche se rivelatori d’una certa studiata artificiosità, perché traspare in lui un che di primitivo, del mercante girovago: questo nostro contemporaneo aveva appena percorso con la sua Studebaker una delle grandi strade del paese, poteva già sperare di raggiungere entro un’ora la località dove abitava, una città abbastanza grande, quando la macchina si mise in sciopero. Non andava più, semplicemente.

Friedrich Dürrenmatt, La panne. Una storia ancora possibile [1956], traduzione di Umberto Gandini, in Racconti, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 370-372

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