Christa Wolf, In carne e ossa

(immagine via krankenhausbengel)

Manuela Poggi

1. Diagnosi di un avvelenamento

Verletzt. Comincia così l’ultimo romanzo di Christa Wolf. Il participio passato del verbo verletzen, ferire, indica da subito una ferita, una frattura, appunto, uno stato di emergenza. E in effetti veniamo da subito catapultati in un’autoambulanza, dove una donna in pericolo di vita, che per tutta la narrazione resterà senza nome, viene trasportata d’urgenza in ospedale. Con questa corsa verso la salvezza comincia un viaggio, metaforico e allucinato, che si dirama da quella stanza d’ospedale in cui la donna è costretta durante l’estate del 1988. Siamo nella ex Rdt, un paese malato che sta per disgregarsi, ma lo sguardo che la “paziente” – così viene asetticamente chiamata da tutto lo staff ospedaliero – volge alla realtà circostante è limitato a un pezzo di cielo berlinese che si intravede dalla finestra della sua stanza e a cui la donna, almeno durante la malattia, preferisce un libro di poesie, rilegato in blu, di Goethe. Tutto, in realtà, accade entro i confini di un sub-mondo che vive nella protagonista, un “palcoscenico interno” nel quale la donna entra ed esce nel delirio intermittente tra un’operazione e l’altra, un alternarsi di stati di coscienza ed incoscienza che si riflettono in una prosa-fiume febbrilmente incalzante e nel continuo cambio del soggetto narrante che parla di sé in terza persona.

La malattia, è chiaro da subito, non riguarda soltanto il corpo. L’infezione che si è creata nelle viscere della donna ha radici profonde e la guarigione, ma prima ancora la salvezza, dipende dall’individuazione delle cause della malattia attraverso una sorta di viaggio catartico, un cammino verso il passato che ripercorre cinquant’anni di storia personale mescolata a quella di un paese, di più paesi (la Germania di Hitler, le due Germanie del “dopo”). Una discesa nell’Inferno dantesco compiuta in uno stato di lucida narcosi da cui riemergere (un verbo ricorrente) per restare “incollati” al proprio corpo, alla vita, leibhaftig, come dice il titolo originale. Perché, “prima o poi, il mattino arriva”. Il viaggio, in un continuo spostamento prospettico dello sguardo, conduce la donna nella capitale bombardata del ’44 e nelle stazioni di controllo ai confini tra Berlino est e Berlino ovest, in una geografia politica patologicamente speculare all’anatomia umana: là i bombardamenti aerei e la paralisi di un sistema ideologico, qui il crollo del sistema immunitario e convulsioni in tutto il corpo.

2. Storia di una guarigione

“L’ospedale è un’immagine riflessa della società”, ammette laconico il direttore del reparto. Una società completa di regole (“inspirare, trattenere l’aria, espirare” cadenzano l’esame tomografico) e gerarchie alle quali la paziente, così come nel “mondo esterno”, è refrattaria. Le giornate, qui, sono scandite dai turni delle infermiere, dai controlli medici e dalle visite quotidiane di un interlocutore, un tu coniugale che sembra essere l’unico appiglio alla realtà. Ma l’alternarsi del giorno e della notte, della luce e dell’oscurità, è ritmato, in questo permanente stato di dipendenza, dai turni notturni di Kora, che nel delirio febbrile della malata e nell’ingresso narcotizzato in quel mondo a metà tra il “qua” e il “là” che è l’anestesia, la prende maternamente per mano, vola con lei sulla metà orientale del wolfiano cielo diviso, la rassicura e le dà fiducia, perché la morte che ci sfiora altro non è se non un mezzo per capire che quello che vogliamo è, infine, vivere.

Kora Bachmann si chiama questa creatura notturna. Bachmann come la poetessa Ingeborg (un Leitmotiv, quasi, nell’opera della Wolf), Kora dal greco Kore, “la fanciulla”, secondo l’antica denominazione di Persefone, dea degli Inferi e simbolo dell’alternarsi delle stagioni e del sorgere e perire del sole. Con lei ci si può addentrare nell’Ade, a lei si può finalmente confidare, in lacrime e dopo cinquant’anni di silenzio, il segreto di una famiglia intera: il figlio illegittimo della zia Lisbeth, il cugino Manfred, nato da una relazione clandestina con un medico ebreo. Come se l’autrice volesse tornare a ridistribuire il giusto peso delle responsabilità storiche nella valutazione degli eventi, ricordando che la prima cesura storica tedesca è, ancora oggi, nel 2002, quella dell’Olocausto, della barbarie nazista, cui mai sarà possibile assimilare gli errori di un sistema (il socialismo nella ex Rdt) che semmai dimenticava, nelle parole di Heiner Müller, che il bene collettivo si raggiunge attraverso l’emancipazione e non l’annichilimento del singolo individuo.

Ma il doloroso viaggio nella corruzione del corpo non si è ancora compiuto. L’insostenibilità fisica e psicologica di un sistema incancrenito si manifesta anche nel percorso parallelo del compagno Urban, che incarna quel carrierismo interno al partito ritenuto responsabile dello smarrimento ideologico degli ultimi anni di vita della Rdt. “Il nuovo Mefisto”, lo definisce l’ammalata, citando, nell’ennesimo richiamo a Goethe, il patto del Faust: corruzione attraverso l’immobilità anziché l’immortalità (e infatti Urban, come il sistema che lo ha creato, non riconosce in tempo i sintomi del suo disagio).

3. Il viaggio della malattia

La metafora della malattia come inscrizione della crisi di una società nel singolo individuo non rappresenta una novità nella prosa di Christa Wolf. Quest’ultimo romanzo costituisce l’approdo di una “poetica della malattia” estesa nel tempo, che comincia con Il cielo diviso (1961), passa per Riflessioni su Christa T. del 1968 e arriva al breve monologo Im Stein del 1999 (contenuto nella raccolta Hierzulande. Andernorts), racconto autobiografico di un’altra degenza in un micro-cosmo ospedaliero della Rdt. La paralisi di un paese incapace di reggere il peso di un’utopia e le contraddizioni di una classe politica sorda alle esigenze di rinnovamento si risolvono nell’opera della Wolf nel crollo fisico e psichico dell’essere umano, sprovvisto di un sistema immunitario in grado di sostenere lo shock della disillusione e la consapevolezza di aver perso un‘occasione storica.

In Carne e ossa assistiamo ad un acuirsi del decorso della malattia parallelamente all’indagine della protagonista sul proprio passato. La crisi qui è totale ed investe anche la narrazione, che procede con un interminabile discorso indiretto, incapace di approdare ad un “punto fermo”, spezzato da “convulsioni linguistiche” quando il periodo accelera nell’assenza di punteggiatura o sembra incepparsi nella ripetizione del lessico legato allo scorrere del tempo, dove pure si esprime il senso di immobilità, l’impossibilità di reagire e tuttavia lo sguardo ironico dell’ammalata. Propagato fin nel linguaggio che lo racconta, il morbo che ammala la protagonista si dipana nelle dimensioni spazio-temporali dell’allucinazione, che fonde i piani temporali e contamina indistintamente il presente con gli orrori e le colpe del passato. Il transito in epoche trascorse coinvolge anche il mondo mitologico e quello letterario, i cui protagonisti sono però qui richiamati a confortare (Goethe, Bachmann) la malata o a rappresentare metaforicamente, nel continuo gioco di specchi e rimandi che caratterizza questa prosa, l’affezione patologica dell’autrice stessa (Thomas Mann).

La malattia, in questo romanzo doloroso e insieme ironico, è ovunque. Intacca la memoria della paziente facendone emergere ricordi nascosti e purulenti: labirinti di cantine che si trasformano in percorsi di morte, dove i passaggi tra una parete e l’altra dischiudono scenari ossessivamente uguali; passaggi di confine che sembrano stabilimenti balneari – no anzi, mattatoi; e perfino nell’“acquario” della sala operatoria, dove l’intera gerarchia ospedaliera si attrezza a compiere la tragicomica battaglia con un’appendice. Perché questa strana, improvvisa alterazione del sistema immunitario, che risana chi ne è affetto e nell’oblio della quale la protagonista riesce comunque a (farci) sorridere ironicamente, altro non è se non la variante psicosomatica di un malessere che può colpire chiunque, ovunque. Raccontarlo, a quanto pare, è l’unico rimedio.

Manuela Poggi

apparso col titolo Leibhaftig: il male di vivere di Christa Wolf, in La prosa della riunificazione: il romanzo in lingua tedesca dopo il 1989, a cura di A. Chiarloni e G. Friedrich, Alessandria, Edizioni Dell’Orso 2002, pp. 141-148, e anche in «Alias», supplemento de «Il Manifesto», 04.05.02, V/18, p. 19.

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