Literaturstreit o della sovranità ermeneutica: le accuse a Christa Wolf e la liquidazione degli intellettuali

Günter Grass al funerale di Christa Wolf (via Augsburger Allgemeine)

[Nella sua commemorazione di Christa Wolf letta all’Accademia delle arti di Berlino il 13 dicembre Günter Grass ha attaccato duramente i giornalisti tedeschi che nel 1990 «forti del loro ruolo storico di vincitori», diedero avvio ad una «campagna denigratoria» nei confronti di Christa Wolf: «Fu una sorta di linciaggio pubblico. A dare il via furono, il primo e il due giugno, Die Zeit e la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ulrich Greiner e Frank Schirrmacher impostarono il tono, ripreso poi da un branco di giornalisti che lo amplificarono a ululato selvaggio. […] Quanta indignazione ipocrita dalle penne di giornalisti che, pur non subendo alcuna censura statale, comunque erano servi dello spirito del tempo, con spirito opportunista e desiderio di compiacere». Non a caso Grass sceglie di dedicare il suo discorso commemorativo alla questione, tuttora dolente, del rapporto tra scrittori e giornalisti, che proprio a partire dal 1990 si è sempre più sbilanciato a vantaggio dei secondi, contribuendo alla marginalizzazione della figura dell’intellettuale pubblico. Il discorso di Grass, pubblicato su Repubblica, si può rileggere sul sito della rivista diritti globali. Qui riproponiamo un passaggio da L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi, in cui Matteo Galli ricostruisce quel vero e proprio conflitto per la “sovranità ermeneutica” passato alla storia come Literaturstreit. M.S.]

Matteo Galli

Fin dai primi mesi successivi alla caduta del muro sono entrati nell’uso comune una serie di vocaboli – neologismi e/o risemantizzazioni di termini già esistenti – di forte peso connotativo cui non di rado accadrà di ricorrere: da Ossi e Wessi (rispettivamente: sprezzante denominazione dell’ex cittadino della DDR visto da ovest e dell’ex cittadino della BRD visto da est) a Ostalgie («nostalgia verso alcune forme di vita della ex-DDR», come recita il Duden), da Evaluierung (nelle aziende: un semplice controllo di qualità, nei mesi immediatamente seguenti all’unificazione: la valutazione cui vennero sottoposti migliaia di docenti di scuole e università da parte, spesso, di loro pari grado occidentali) a Wendehals (nella sua accezione letterale: l’uccello denominato torcicollo, nel suo significato traslato: l’opportunista che dopo la caduta del muro e la successiva unificazione, la Wende appunto, non esita, zelante, a cambiare fronte, come accadde ad esempio agli esponenti delle cosiddette Blockparteien, i partiti satelliti della SED che intesero vantare, dopo la fine della DDR, una improbabile verginità politica). Uno dei sostantivi più diffusi, e gravidi di pesanti connotazioni fin dai primi mesi successivi alla riunificazione, fu Abwicklung (ovvero il verbo abwickeln), termine dai molteplici significati, ma che in questa fase venne a significare una cosa soltanto: liquidazione, smantellamento, il destino riservato a numerose fabbriche, aziende e istituzioni della DDR. A questo trattamento si tentò, non senza successo, di sottoporre anche qualcosa di assai più impalpabile e simbolico, ossia l’intero «sistema discorsivo» della DDR al fine di statuire, all’indomani dell’unificazione, chiare gerarchie all’interno di quella che Wolf Lepenies ha chiamato la «classe interpretante».

Ciò avvenne, in una sorta di metonimico regolamento di conti, mediante la demonizzazione di colei che più di ogni altro intellettuale tedesco orientale veniva considerata nella percezione collettiva l’epitome della DDR, ossia Christa Wolf. I fatti innanzitutto. Tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990 Christa Wolf dà alle stampe un testo intitolato Was bleibt (Che cosa resta) lungo un centinaio di pagine, che in calce reca le date di stesura «giugno-luglio 1979 / novembre 1989», un testo redatto, dunque, in due fasi ben distinte e distanti. Il libro, scritto in prima persona, racconta la giornata di una scrittrice famosa, che sta vivendo in uno stato di profonda prostrazione psicofisica: è da settimane oggetto di osservazione da parte di due «giovanotti» (funzionari della Stasi, mai menzionata peraltro) continuamente stazionanti di fronte a casa sua in tenace attesa, si sente prigioniera di una città avvertita come un Nicht-Ort, un non luogo distopico, è avvinta da un forte senso di colpa per tutti i privilegi goduti, è straziata dalla propria mancanza di coraggio, dalla propria impotenza, un’impotenza in primo luogo linguistica (un Leitmotiv, questo, addirittura martellante nel testo), soprattutto se raffrontata alla capacità di esporsi di due giovani poeti che nel racconto fungono da personaggi di contrasto, anche come utopici depositari di una lingua nuova e liberata, facendo ancor più risaltare l’irresolutezza della protagonista. Non ultimo proprio perché pubblicato in quella specie di enclave temporale situata tra l’apertura dei confini fra le due Germanie (novembre 1989) e le prime elezioni “libere” (marzo 1990), da un lato, e l’unione monetaria (luglio 1990) e l’atto ufficiale di adesione (Beitritt) della DDR alla BRD, dall’altro, Che cosa resta si rivela così un coraggioso gesto di auto-decostruzione  morale compiuto dalla scrittrice e intellettuale Christa Wolf.

Il testo non è ancora arrivato in libreria che, con un’azione che ha tutta l’aria di esser stata concertata, dalle colonne dei due principali organi di stampa tedesco-occidentali – la progressista «Die Zeit», per voce del suo caporedattore culturale Ulrich Greiner e la conservatrice «Frankfurter Allgemeine Zeitung» per bocca del suo omologo Frank Schirrmacher – si scatena ai danni di Christa Wolf un linciaggio mediatico senza precedenti. Senza precedenti? Forse no. Già prima della caduta del muro la scrittrice era stata oggetto, soprattutto da parte della stampa conservatrice, di isolati attacchi piuttosto violenti, basti ricordare fra tutti quello di Marcel Reich-Ranicki che già nel 1987, sempre dalle colonne della FAZ, aveva definito Christa Wolf come «DDR-Staatsdichterin» (scrittrice di stato della DDR), dimenticando, quanto meno, il ruolo svolto dall’autrice in occasione del Plenum del 1965 e della petizione contro la sottrazione della cittadinanza a Biermann, anzi insinuando che Wolf a un certo punto avrebbe anche ritirato la propria firma, insinuazione rivelatasi totalmente menzognera.

L’articolo di Greiner si configura più come una lunga recensione e presenta un imperdonabile vizio ermeneutico d’origine, troppo rozzo per esser stato compiuto in buona fede: senza filtri Greiner equipara il personaggio che nel racconto dice «io» all’autrice, alla quale arriva a rimproverare – questo è il titolo dell’articolo – «mancanza di tatto» per questo indelicato e postumo tentativo di guadagnarsi una patente di vittima di quel regime, sulle cui malversazioni negli ultimi mesi peraltro molto si era appreso tramite la pubblicizzazione di numerosi dossier della Stasi aperti sul conto di personaggi più noti o meno noti. «Prima del 9 novembre la pubblicazione di questo testo sarebbe stata una sensazione, che di sicuro avrebbe significato la fine di Christa Wolf scrittrice di stato [è la stessa espressione usata da Reich-Ranicki 3 anni prima], provocandone come probabile conseguenza l’emigrazione. Dopo quella data la pubblicazione è solo imbarazzante».

Già più articolato è l’intervento di Schirrmacher, che accusa Christa Wolf di essere incapace di analizzare il mondo che la circonda in base a categorie tratte dalla sociologia, come «un sistema complesso di gruppi in concorrenza». Come molti altri intellettuali della sua generazione l’autrice, sostiene il critico, ha intrattenuto con il proprio stato un rapporto intimo e familiare mantenendo una incrollabile lealtà, durata per tutta l’esistenza in vita della DDR, nei confronti di quei vecchi comunisti che erano stati in carcere, nei campi di concentramento e in esilio, padri sostitutivi dei padri carnali collusi col regime nazista e proprio per questo, seppur non subito, ricusati. Solo nella parte finale del contributo Schirrmacher muove critiche non molto dissimili da quelle di Greiner accusando la scrittrice di essersi voluta appropriare surrettiziamente di un «postumo ethos resistenziale».

Se fino al 1989 Christa Wolf era apprezzata proprio per essere rimasta nella DDR e aver tenuto fede alla speranza di una trasformazione del sistema dall’interno (la citata posizione di Reich-Ranicki era in fondo un’eccezione), adesso con un autentico voltafaccia, proprio quella circostanza le viene imputata come una colpa. Nelle settimane e nei mesi seguenti il dibattito dilaga configurandosi come una spietata resa dei conti dapprima con tutto il sistema letterario della DDR (la scrittrice Helga Königsdorf definirà il dibattito come un’operazione di «Mittelpunktentsorgung», qualcosa come azzeramento della centralità del ruolo di indirizzo etico svolto dagli intellettuali DDR), quindi con gli intellettuali di sinistra della BRD, accusati sia di aver flirtato per decenni col sistema totalitario della DDR, sia, in tempi più recenti, di aver manifestato pubblicamente notevoli perplessità circa le modalità e i tempi dell’unificazione: liquidazione, insomma, di tutte le istanze morali a est come a ovest, liquidazione di funzioni e testi, ritenuti scadenti perché intenderebbero contrabbandare la correttezza etica, politica, ideologica come un valore estetico («Gesinnungsästhetik», estetica ideologica la chiama ancora Greiner in un successivo intervento, e Karl-Heinz Bohrer parlerà addirittura di «Gesinnungskitsch», kitsch ideologico).

Il dibattito sarà solo il primo (e proprio per questo forse il più violento) di una serie che, a ondate, investirà come un ciclone la sfera pubblica (non solo letteraria) del neonato stato unificato. Appena un anno dopo sarà Wolf Biermann, in occasione del discorso per il conferimento del premio Büchner, ad aprire un altro fronte, rivelando pubblicamente le connivenze fra Sascha Anderson, esponente di spicco della Szene del Prenzlauer Berg e la Stasi, definendolo come «il modesto pettegolo Sascha Stronzo», ciò che provocherà, nei media occidentali, ormai incontrastati detentori della sovranità ermeneutica, la delegittimazione in blocco di un ulteriore pezzo di DDR, ossia l’intera nicchia alternativa, ritenuta fin qui al riparo dai miasmi ideologici.  Se nemmeno quella si salvava…

Ancora poco più di un anno – gennaio 1993 – ed è la volta di un nuovo linciaggio nei confronti di Christa Wolf e di Heiner Müller. Dai fascicoli della Stasi resi pubblici secondo modalità non sempre ortodosse si apprende che i due massimi scrittori della DDR in fasi diverse sarebbero stati collaboratori informali del Ministero; benché quegli stessi atti raccontino la totale inservibilità di siffatti collaboratori, la stampa occidentale – stavolta soprattutto «Der Spiegel» – si getta a capofitto, seppur non con la stessa veemenza di tre anni prima, cercando di trarre il massimo profitto simbolico da questa vicenda, con un atto che testimonia «l’esproprio discorsivo» del periodo successivo all’unificazione.

Se si passano in rassegna i dibattiti politico-letterari degli ultimi quindici anni, che con una certa frequenza investono la sfera pubblica tedesca, si scopre che la DDR, la sua letteratura e i suoi intellettuali, vi giocano un ruolo alla fine marginale; certo: ancora nel 1993 si discute animatamente circa la punibilità retroattiva dei crimini commessi nei quasi trent’anni di esistenza del muro (soprattutto il cosiddetto «Schießbefehl», l’ordine di sparare a chi intendesse varcare la frontiera), alcune singole opere letterarie saranno ancora in grado di polarizzare le opinioni dei critici, grandi fenomeni mediatici come il grande successo nazionale e internazionale di Good Bye, Lenin! nel 2003 o Le vite degli altri nel 2006 torneranno a focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla DDR, ma si ha la sensazione che la battaglia per la sovranità ermeneutica già nei primi mesi del 1993 si sia conclusa. Ne costituisce indiretta riprova il coro unanime, del tutto privo di risentimento e di livore, a cui si assiste quando, alla fine di dicembre del 1995, muore Heiner Müller, pur tenendo conto del fatto che il massimo drammaturgo tedesco del dopoguerra, assai più per esempio di Christa Wolf, si era “immischiato” già prima della caduta del muro anche in questioni tipicamente bundesrepubblicane (fra tutti: la RAF) ed era dunque percepito come autore non rigidamente targato DDR.

Matteo Galli

da: L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi, Milano, Libri Scheiwiller, 2009, pp. 222-228.

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