Thomas Bernhard, Autobiografia

Etica e poetica: verità della scrittura
nell’Autobiografia di Thomas Bernhard

 Anna Ruchat

«Per loro natura queste note devono in ogni caso sempre essere scritte tenendo presente che verranno osteggiate e/o saranno oggetto di procedimenti legali, o che semplicemente verranno considerate come le note di un folle. Chi scrive  […] è abituato al fatto che quello che dice e quello che scrive e tutto ciò che ha scritto fin’ora, in tutto il corso della sua vita e del suo pensare e sentire, tutte cose a cui, per un motivo o per l’altro, era stato costretto, è abituato al fatto che tutto ciò venga osteggiato e perseguitato e ritenuto folle. Le opinioni, quali che siano, non lo interessano, laddove per lui si tratta di fatti. Non è pronto, né mai lo sarà, a comportarsi, a pensare e sentire in un modo che non sia esclusivamente soggettivo, sebbene per sua natura sia consapevole in ogni istante che tutto, di qualunque cosa si tratti, può essere solo approssimazione, solo un tentativo. Si possono indicare in lui, e quindi anche in questo scritto, come se ne possono indicare dappertutto e quindi anche in tutti gli scritti, lacune e addirittura errori, mai tuttavia una contraffazione o addirittura una falsificazione perché lui non ha alcun motivo per concedersi anche una sola contraffazione o falsificazione. Facendo affidamento sulla propria memoria e sul proprio intelletto e sorretto da queste due facoltà congiunte che costituiscono, io credo, una base affidabile, egli intraprende anche questo tentativo, anche questa approssimazione all’oggetto, che presenta, in effetti, un altissimo grado di difficoltà. Ma non vi sono ragioni, secondo lui, per rinunciare a questo tentativo per quanto imperfetto e scorretto esso possa sembrare. Le lacune e gli errori fanno parte integrante di questo scritto in quanto tentativo e approssimazione, esattamente come tutto ciò che in esso è stato annotato. Ottenere la perfezione è impossibile, di qualunque cosa si tratti, a maggior ragione dunque se si tratta di cose scritte, e più che mai è impossibile in note come queste che sono costituite da migliaia e migliaia di brandelli di possibilità e di ricordi. Qui vengono forniti dei frammenti dai  quali un lettore che davvero lo desideri può senz’altro ricostruire un tutto. Nient’altro. Frammenti della mia infanzia e della mia adolescenza, nient’altro» (Il respiro, in Autobiografia, pp. 288-89).

Se c’è un libro che mette a nudo la relazione tra la vita, la scrittura e la loro “verità”, questo è la “cosiddetta” Autobiografia di Thomas Bernhard: cinque racconti distinti, scritti alla distanza quasi regolare di un anno (poco più o poco meno) uno dall’altro, che ripercorrono per “quadri”, come fosse una galleria della memoria, la giovinezza dello scrittore, ora riuniti in un unico volume. Il libro, appena uscito per le edizioni Adelphi, comprende le traduzioni dei singoli libri già pubblicate dallo stesso editore, ed è dotato di un eccellente apparato di commento a cura di Luigi Reitani: una cronologia molto dettagliata, le note ai testi (con riferimenti anche alle edizioni e recensioni italiane) e una sorta di glossario delle persone e dei luoghi aiutano a calare questi racconti nei “fatti” – tra quelle date che Bernhard spesso omette o travisa – senza però appesantirne la lettura.

In un «gioco di illusioni e scorci prospettici» scrive Reitani nel saggio introduttivo tutto incentrato sulle corrispondenze, e non corrispondenze, tra volumi autobiografici e genealogia o cronologia bernhardiana, Thomas Bernhard fa venire alla luce qualcosa che è più della verità: la sua verità. Fin dagli esordi, infatti, ma in modo particolare negli scritti autobiografici, Thomas Bernhard, è stato un vero militante della scrittura, e più ancora della parola al servizio della demistificazione: un trivellatore della sostanza esistenziale attraverso lo strumento infido e tuttavia insostituibile della lingua.

«Da molto tempo la ragione mi vieta» scrive Bernhard ne La cantina, il secondo degli scritti autobiografici, «di dire e scrivere la verità, perché ciò che si dice e si scrive in fondo non è altro che menzogna, ma lo scrivere è per me una necessità vitale […] anche se tutto quello che scrivo in fondo non è altro che una menzogna la quale attraverso di me è trascritta come verità. Noi possiamo esigere la verità, ma la sincerità ci dimostra che la verità non esiste.»

Nei cinque volumi che costituiscono, come è stato tante volte sottolineato dalla critica, uno spartiacque stilistico nell’opera dello scrittore austriaco, la vita è presentata come una decisione (sottotitolo del libro centrale, Il respiro), una presa di responsabilità nei confronti dell’esistenza stessa dalla quale l’autore non potrà più recedere perché quella responsabilità è per lui la salvezza. «Sono avido di farmi conoscere:» scrive ancora ne L’origine «non importa da quanti, purché ciò avvenga conformemente al vero; o, meglio detto, non desidero nulla ardentemente, ma ciò che temo più di tutto al mondo è di essere travisato da coloro che mi conoscono soltanto di nome, dice Montaigne.»

La guerra, il dopoguerra, la miseria fanno dunque da sfondo a un succedersi di quadri, più che a una narrazione vera e propria, in cui di volta in volta vengono messi a fuoco dei personaggi o dei luoghi che interagiscono con il protagonista ragazzino, ragazzo e da ultimo bambino: al centro di tutto il ciclo il nonno, lo scrittore Johannes Freumbichler, «emblema dell’uomo votato esclusivamente alla sua arte, convinto della superiorità dello spirito, tirannico nei confronti dei familiari e tuttavia condannato a un grottesco insuccesso e alla miseria» come scrive Reitani nell’introduzione. Nell’Origine (1975), che è solo un accenno – mentre il pensiero della morte serpeggia nella forma del suicidio, della morte accidentale, della guerra e dei bombardamenti – è lo “zio Franz” il tiranno e portavoce di quelli che sono «senza dubbio gli anni più atroci» della vita dell’autore. Direttore del collegio della Schrannengasse, rimasto «cattolico e nazionalsocialista» anche dopo il 1945, lo “zio Franz” (la cui controfigura reale querelerà Bernhard per diffamazione) è l’ombra del passato austriaco e da lui il ragazzo si salva andando a suonare il violino nella “stanza delle scarpe”. Nella Cantina (1976), dedicata all’epoca dell’apprendistato in un negozio di alimentari nel quartiere di Scherzhauserfeld, c’è invece l’umanissimo Podlaha commerciante e musicista mancato che il protagonista incontra quando decide di «andare nella direzione opposta», abbandonando il ginnasio, l’«Alta Scuola della borghesia», per iniziare la convivenza con esseri umani più autentici all’«Alta Scuola dei reietti e dei poveri».

Diverso è ciò che accade nel Respiro (1978) e nel Freddo (1980), dove protagoniste dei quadri sono la malattia – che colpisce il ragazzo non ancora diciottenne degenerando rapidamente in un succedersi di errori e trascuratezze imputabili all’apparato sanitario pubblico – e la morte, quella del protagonista, nel “trapassatoio” (ricoverato per una brutta infreddatura all’ospedale di Salisburgo, gli viene impartita l’estrema unzione), e poi la morte del nonno nello stesso ospedale in cui è ricoverato il ragazzo e la morte per tumore della madre quando il ragazzo si trova convalescente nel sanatorio di Grafenhof. Qui in primo piano sono i luoghi: l’ospedale, il sanatorio di Grafenhof e quello di Grossgmein dove incontriamo personaggi sempre più abbozzati, come il venditore ambulante di Mattighofen o l’oste di Hofgastein  o ancora i tubercolotici di infima classe con i quali il giovane Bernhard convive al sanatorio di Grafenhof: «Che mostruosità infame ha architettato qui il Creatore, avevo pensato allora,» leggiamo ne Il freddo «che aspetto disgustoso ha preso qui la miseria umana. Questi esseri, senza dubbio definitivamente respinti dalla comunità umana, esseri ripugnanti, inetti, e come feriti nella loro sacra fierezza, svitavano, passando lungo il corridoio, i coperchi delle loro sputacchiere di vetro marrone e vi sputavano dentro con perfida solennità: un’arte raffinata, tutta loro, di trarre spudoratamente lo sputo da chissà dove nei polmoni corrosi, per poi sputarlo in quelle sputacchiere.» Figure deformate dalla memoria, amplificate dalla solitudine e dalla disperazione, che lasciano il posto solo alla fine del Freddo a un nuovo ”interlocutore”, il musicista Rudolf Brändle:  «mi pareva che dalla morte di mio nonno non avessi più avuto nessuno da poter stare a sentire senza dover cadere nella disperazione, nessuno di cui avere fiducia.»

Torna prepotentemente alla fine del Freddo anche la musica, un’ancora di salvezza che strappa il protagonista alla malattia. A sostenere infine, con la parola, i racconti autobiografici, ci sono Montaigne, Pascal, Wittgenstein, e da ultimo, a Grafenhof, la scoperta di Dostoevskij. «La letteratura, eccetto i Demoni, non era fatta per me, tuttavia, pensavo, ne esistono certamente altri di questi Demoni. Ma come fare per procurarsi nuovi Demoni?» scrive ancora ne Il freddo «La sola via possibile per me era lasciare Grafenhof al più presto e cercare in libertà i miei Demoni.»

Con Un bambino (1981)  e una prosa più distesa, Bernhard torna all’inizio: «Se c’è una scoperta che il narratore fa, ricostruendo il proprio passato,» scrive Reitani a proposito dell’ultimo racconto «questa non è il destino già iscritto nelle origini ma piuttosto la fragilità dell’Io, la sua minacciosa alterità. (…) così il padre di Bernhard, descritto come un uomo eccezionalmente malvagio e perverso, diventa un doppio minaccioso e inquietante, che il bambino incontra con terrore in un ritratto.»

L’autobiografia di Thomas Bernhard è dunque un’opera-chiave non solo per il suo valore introspettivo e per certi versi liberatorio –la “scoperta della fragilità”, che non riguarda solo il protagonista, ridimensiona le colpe –, ma anche per le innovazioni formali cui dà luogo, aprendo un varco nella roccaforte dei romanzi scritti prima del ’75 (Gelo, Amras, Perturbamento, per citarne alcuni): quei lunghi monologhi trafelati e ininterrotti che, con la loro tragica comicità, avvinghiano il lettore.

Le pagine dell’autobiografia sono invece concepite come una sorta di esercizio di  distacco, volto a conoscere e a svelare la verità su se stessi; esercizio che permetterà all’autore di accedere alle zone più buie del proprio passato, riconciliandosi, in parte, con i morti, restituendo loro via via le rispettive ragioni, cancellando a volte le colpe e con esse quei grumi di rancore che cementavano fin lì la sua scrittura. I romanzi successivi (tra gli altri Il soccombente, A colpi d’ascia, Estinzione, Antichi Maestri) nasceranno infatti nel segno di un disgelo.

«Thomas Bernhard con la sua “autobiografia” ha in realtà composto un formidabile e audace inno alla vita» scrive Luigi Reitani al termine dell’introduzione «non alla vita schiacciata dall’infamia e dalla violenza, straziata dalla miseria e dalla sofferenza, offesa dalla rozzezza e dalla stupidità, ma a quella che ogni uomo nell’attimo decisivo, ha il diritto di decidere per sé.»

Anna Ruchat

Thomas Bernhard, Autobiografia, a cura di Luigi Reitani, traduzioni di Eugenio Bernardi, Renata Colorni, Umberto Gandini, Anna Ruchat, Adelphi, 2011

 

 

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