Robert Walser, Ritratti di pittori

Ferdinand Hodler, Der Buchenwald, 1885

Davide Racca

Il poeta Robert si soffermava spesso a contemplare il fratello maggiore Karl, pittore e illustratore, nell’atto di dare forma alle sue visioni. Fu lo stesso Karl ad iniziare il giovane Robert alla conoscenza della storia dell’arte. I due fratelli svizzeri si sarebbero incontrati diverse volte in varie città delle Germania, fin quando Karl non focalizzò la sua attività a Berlino. Ed è qui che Robert partecipò alla bohème berlinese e frequentò gallerie, mercanti d’arte, artisti della Secessione e mostre, dove nel 1901 per la prima volta in Germania fu possibile vedere cinque tele di Van Gogh. 

Robert mantenne con le arti plastiche un’affinità elettiva, al di là della parentesi berlinese, fino al 1933, anno in cui, trasferito nel sanatorio di Herisau, in Svizzera,  sempre più chiuso nelle sue passeggiate, non cessò di scrivere.

Il poeta trova nella pittura e nel disegno un filtro sensibile per accedere al mondo. Non necessariamente vede opere dal vero. Anche semplici riproduzioni di originali, pescati in botteghe d’arte, sono scintille che innescano meccanismi di creazione e visioni; e da qui partire per percorrere brevi prose o poesie, oppure dialoghi divaganti con figure immaginarie.

E’ quanto accade in Ritratti di pittori di Robert Walser (Adelphi, 2011), a cura di Bernhard Echte e tradotto da Domenico Pinto. Un libro con quadro a fronte, dove il dipinto, il disegno, a differenza di un normale catalogo o saggio d’arte, non viene spiegato, illustrato, giustificato e imbrigliato a griglie estetiche e concettuali; esso rappresenta piuttosto un punto di partenza immaginativo, un trampolino di lancio di visioni e moti d’animo, un serbatoio di storie, di umanità e di qualcos’altro.

Walser si lascia andare a un flusso di proiezioni e sinestesie, come quando ne Il bosco di faggi, del pittore svizzero Ferdinand Hodler, mette le mani in tasca perché pervaso dall’aria fredda e pungente dell’inverno che ne emana.

Parlare in sintesi di molti quadri costituisce per me una difficoltà di cui, in un certo senso, mi compiaccio sinceramente. Qui contemplai un paesaggio ora primaverile ora innevato, un dipinto ora di fiori ora di donna. Quando mi fermai davanti a un nudo femminile, che posava su un morbido sofà, qualcuno mi rivolse la parola nel tentativo di far colpo con la sua critica d’arte. Trovai tuttavia giusto lasciargli intendere che a me la saccenteria non garba.

Walser non vuole influenzare l’opinione pubblica o esercitare alcuna forma di giudizio intellettuale con i suoi scritti d’arte. In quanto scrittore si sente affine all’acquarellista che sembra dire: “Dipingo acquerelli perché vorrei insegnarti ad amare ciò che sta intorno a noi”.

Questi testi di Walser sono “poesia” che dalla pittura imbocca il sentiero dell’invenzione verso nuove direzioni di letture, con similitudini di grande fecondità interpretativa, come: “Vidi un Cristo con una ferita nel costato; la ferita era simile a una bocca”. E la scrittura divagante è sempre interna a una visione umile e creaturale, mossa da sentimenti di pietà, che impongono un limite alla scrittura stessa, quando, davanti a un quadro di Brueghel, scrive: “il mio sarà solo un breve articoletto irrilevante, a quell’uomo prigioniero e ignudo, perso nella notte dei tempi.”

Walser si ritrova a cercare in sé, e non nell’inaffidabilità del successo, ragione e fondamento del proprio essere e fare. Per lui, in arte,

decisivo è piuttosto un qualcosa che arricchisca la vita, qualcosa che può cadere nell’oblio ma che in seguito si torna poi ad amare, che per un certo tempo viene magari censurato, ma che forse proprio per questo avrà in avvenire effetti più profondi.

Davide Racca

Robert Walser, Ritratti di pittori, a cura di Bernhard Echte, traduzione di Domenico Pinto, Milano, Adelphi, 2011, 134 p.

da “Alias” del 26 novembre 2011

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