Terézia Mora, Tutti i giorni

Daria Biagi

Primo romanzo di Terézia Mora, nota in Germania come traduttrice dall’ungherese e fin dai racconti di Seltsame Materie (1999) molto apprezzata da critici e lettori, Tutti i giorni (Alle Tage, 2004) prende a prestito il titolo da una lirica di Ingeborg Bachmann. Allo stato di emergenza senza tregua che minaccia uomini e lingue – «La guerra non viene più dichiarata, / ma proseguita. L’inaudito / è divenuto quotidiano» – il romanzo oppone lo sforzo, insieme stilistico ed etico, di dare un nome al caos, collocandosi entro coordinate geografico-letterarie comuni a Bachmann, Kafka, Péter Esterházy (di cui Mora ha tradotto Harmonia Caelestis).

Il mondo di Tutti giorni sta in bilico tra più linguaggi: a stento ci si riconosce in una lingua materna, meno ancora in una nazione. Nella storia di Abel Nema, esule esteuropeo toccato dal “dono delle lingue” – ne parla dieci, sebbene lo si senta di rado articolare una frase – Mora racchiude i destini di tanti spiantati europei in fuga da zone di guerra, famiglie smembrate, passati tragicomici. Con indosso un pastrano nero sempre uguale e un nome denso di significati – il muto, il tedesco, il barbaro –, Abel vaga per B., una vorticosa e mai nominata Berlino, metropoli senza centro che azzera le identità. Un professore gli procura i primi contatti nel nuovo paese, un’équipe di psicolinguisti studia il suo caso pagandolo quanto basta per sopravvivere, una giovane redattrice, Mercedes, addirittura lo sposa, un po’ per amore e un po’ per garantirgli il permesso di soggiorno. Ma Abel resta un enigmatico straniero, capace di suscitare tenerezza in alcuni e odio puro in altri, aggredito da un mondo che lo respinge e ogni volta salvato in extremis. Incolume attraversa il piacere e il dolore, come se il suo unico interesse fossero le lingue che pronuncia senza alcuna inflessione, come “uno che non viene da nessuna parte”. Cerca un contatto solo con Omar, il figlio di Mercedes: insegnandogli il russo, inventa con lui un linguaggio di anagrammi, pochi termini slegati ma sufficienti a interrogarsi e rispondersi. All’invadenza e alla violenza nascoste nella comunicazione quotidiana, invece, Abel oppone una strategia di resistenza passiva, un mutismo che incide l’immaginario degli interlocutori e del lettore.

La lingua del romanzo registra queste oscillazioni, mescolando termini stranieri ma soprattutto imprimendo alla sintassi tedesca il ritmo di più lingue sottostanti che creano una prosa sempre diseguale, varia, stridente. L’italiano della traduzione risulta più pacificato, ma lascia intuire l’inventività  dell’originale. La provenienza di Mora, nata nel 1971 a Sopron, sul confine austro-ungherese, fa spesso collegare questo peculiare uso del tedesco a una condizione linguistica decentrata e minoritaria, che si arrovella sul problema della parola perché la vive come marchio della diversità. Il suo caso sembra però più complesso, e travalica la metariflessione comune in effetti a vari autori di questi anni, spesso accozzati nella sbrigativa etichetta “scrittori di migrazione”. In Tutti i giorni, come in altre opere di Mora ancora inedite in Italia, la tensione linguistica è una “forma” testuale che permea i caratteri dei personaggi, le loro azioni, lo sviluppo dell’intreccio; e si inscrive a pieno in una tradizione letteraria, mitteleuropea soprattutto, che fa del lavoro critico sulla lingua il primo passo per l’elaborazione del reale.

Daria Biagi

Terézia Mora, Tutti i giorni, trad. di Margherita Carbonaro, Mondadori, 2010

da: Allegoria n. 61

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