Spostamenti, tra corpo e luogo: su Ulrike Draesner

immagine via walter.bz

[Riproponiamo l’introduzione di Camilla Miglio all’antologia di Ulrike Draesner, viaggio obliquo (poesie 1995-2009), da lei curata insieme a Theresia Prammer per Lavieri nel 2010. Con due poesie: un sezione di damasco, manovra e tessuto connettivo. M.S.]

Camilla Miglio

il viaggio obliquo quasi uno squillare
continuo di tutti i nervi
U. D.

Try See, Try Say: è il titolo di un saggio di Ulrike Draesner su Gertrude Stein. L’esortazione vale anche per lei, e per noi: leggere Ulrike Draesner è udire il dire nel vedere, vedere un viaggio che è translatio per verba e per sona. Il dislocamento passa per parole e suoni, che diventano personǎ, maschera in cui le lingue invocano desiderio e piacere, balbettano trauma e lutto. Il piacere della lingua, avverte Draesner, “ha sempre un lato nascosto, e si chiama panico”. Il gioco del viaggio linguistico, a più riprese intrapreso verso orizzonti inaspettati, è sempre accompagnato da un sentimento perturbante d’inquietudine e spostamento. 

Lo spostamento è traduzione fino in fondo, come nella “traduzione radicale da Shakespeare” che apre questo volume, dove il rapporto con una fonte è “twin spin”, due canzoni con qualcosa in comune, e su quello avvitate insieme; la percezione non è mai ferma e univoca: “e io, disperata, ho capito, / desiderio significa morte, anche se la regia ignora il corpo”. Tra morte e desiderio si può dirimere il doppio avvitamento, ma solo e proprio ripartendo dal corpo, in barba alla regia del mondo che apparecchia luoghi e modi della dimenticanza di sé, spesso interrompendo il filo che avvolge psiche e soma.

Lo spostamento è trapianto di corpo, corpo in parti. Così nella sequenza autopilota: trapianto di organi, e parti di corpi diversi, idea di controllo. Impossibile. La scrittura cattura a tratti elementi di chimica, anatomia, chirurgia. Ma non c’è modo di cogliere i segreti delle passioni, del desiderio, della violenza degli affetti: “ininterrotta invenzione di geroglifici / e loro intreccio a definire / mania, gelosia, paura, / tralucono dal fondo della testa, / bramosia, gioia e odio, / impossibile visualizzarli in scopìa, / da nessuna sezione istologica / si evincono cento segreti / draghi di lingue, veleno come spine”. L’occhio segue la traiettoria di uno sguardo che ricorda il ciglio freddo e doloroso di Gottfried Benn. “Flimmerworte” per Ulrike Draesner, sfavillanti parole vibratili; Flimmerhaare per Gottfried Benn, le sfavillanti ciglia vibratili delle parole di un io lirico ancestrale, improvvisamente attivo e vivo: “la loro percezione dello stimolo […] risponde alla parola, specialmente al sostantivo, meno all’aggettivo, ben poco alla figura verbale. Essa risponde al segno, alla sua immagine stampata, al carattere nero, solo a esso”. Ciglia che aspettano – dice Benn – la propria “ora”, col suo “valore di eccitazione”, e cioè valore di ebbrezza, in cui si giunge a sfondare la rete delle connessioni, cioè a frantumare la realtà”, e solo allora si apre “lo spazio libero per la poesia”. La proprietà è la stessa: accendere un desiderio e coglierlo statu nascendi, seguirlo e perseguirlo nel suo farsi, nella frase, nel corpo, e nel dislocarsi e disgregare in zone le percezioni, le sensazioni, le parti del corpo vivo, o del corpo morto.

Spostamento è salto: “dal cervello alla pancia”. In questo Ulrike Draesner va oltre la scrittura di Benn, cui dedica una poesia molto esplicita, anche dura e sarcastica, che è anche un fare i conti con la sua poetica. Lo sguardo sezionatore, medico, cinico, si espande nelle sensazioni di corpo, marcatamente femminili. La lente a contatto, uno strumento vitreo, freddo, flessibile ma non troppo, comincia il suo viaggio verso il cervello, con a bordo le immagini. Ma all’improvviso è una bocca a prendere il sopravvento. Non dall’occhio al cervello, ma dalla lingua ai sensi passano le immagini: “la vidi – / con tutte le sue immagini già scivolare verso il cervello – / la espulsi / la misi sul polpastrello / e le succhiai le immagini”. Il recupero del nesso segreto tra soma, psiche e scrittura è un processo alchemico. Ne resta traccia nei titoletti delle sezioni della raccolta für die nacht geheuerte zellen (cellule imbarcate per la notte): fuoco, metallo, aria.

Spostamento è cromatico: musicale, di accenti e colori, determinato dall’assenza e dal desiderio. Se il tu desiderato non c’è tutto il mondo si ripiega ex negativo: i prati sono rossi, bocca e sangue verdi; “le lucciole brillerebbero verdi / vene sottopelle, / a toccare bocche / verdi, / rosse sarebbero le ortiche”. La risemantizzazione dei colori è un elemento forte della poetica di Ulrike Draesner. Bläulich, non Blau è il colore di una sfinge cui non sarà possibile offrire risposte, ma solo nuove domande. L’azzurro, cifra della vita e del sentimento oceanico della tradizione poetica e iconografica si offusca in una gradazione unheimlich. Bluastra è la sfinge, il viso enigmatico di chi abortisce, o forse la faccia mai diventata viso del non nato. Spostamento, anche qui, è “canto in pancia”. Il canto di chi è stato raschiato via, finito in un sacco di plastica arancione. E ancora presente, in forma di canto e rumore che raschia. Il raschiamento interno è sempre anche il raschiare dei rami sulla finestra: “ma cosa vuol dire / “nuvola”) / radicina, tu. / in corridoio cantano, / raschiano / rami raschiano la finestra, / la notte”.

La scrittura è viaggio verso un altro stato, chiamiamolo anche narcosi da morfina, dove è possibile il ritorno, lungo l’avvitamento del nastro di Möbius del tempo, e il bambino abortito ha una nuova possibilità: “e una coppia, giù in spiaggia / che ti riconcepisce / mentre tu / arrotoli palline di miele / o elettricità o pensieri / nell’ape, nel ragno, / nel lago senza luce”. Ma nulla di tutto questo accade, se non per un momento, la realtà è altra: è un aspiratore che invade il corpo della madre e sugge parti di corpo del figlio.

Il corpo perduto e fatto a pezzi, quasi traccia orfica postmoderna, è disperso nella natura: nuvola e campo, radicina e foglia. Il liquido amniotico è neve disciolta e pozza inquinata, tigna del paesaggio.

Il viaggio più doloroso è interiore: peregrinazione tra i segni di una memoria di corpo che si che si sfalda, in stazioni di sosta nella natura diffranta, in voci e forme molteplici.

La diffrazione del corpo che parla e percepisce ancora si traduce in continua oscillazione tra corpo e luogo, nello spazio urbano. Di Berlino, per esempio. Emblematica la prostituta berlinese a Savignyplatz (binario su arco) il cui corpo alienato di donna in mostra vive senza soluzione di continuità con la topografia riconoscibile della città. O a Londra, (nella poesia coventry) ci lasciamo sorprendere della contiguità tra un dente piombato e la natura imperscrutabile di una piazza londinese, tessuto connettivo, o twin spin: il deserto emotivo di una coppia che non comunica. E così anche i maestosi paesaggi delle alpi, contaminati da elettricità e plastica, suggeriscono una strada che porta alla nostra natura profonda, il nostro essere dentro e in fondo al paesaggio.

Quello che resta di parole di inconsueta densità connotativa si distilla secondo la inconfondibile lezione di Gottfried Benn. Trapianti di sillabe e vocali, distillazioni, che dalla dimensione amniotica traggono cristalli cerebrali e limpidi di pensiero prismatico. Leggendo (tom, winterrosarium), in una lingua che in traduzione innesta voce draesneriana con echi zanzottiani: “fosse polverizzato il sacco amniotico della bellezza dalla bellezza / non rimarrebbe né lei, né il ricordo, di ciò, che fu. / ma florescenze, estratte, protratte nell’inverno, / gettano, codice cellulare, linfa lattea, il futuro contro il vetro”.

Torniamo al catalogo degli spostamenti che questo libro compone: in quando il cane morì troviamo una cifra della continuità e trapasso di dolore tra donna e animale: cane sulla battigia, in un paesaggio ventoso memore di un passaggio cittadino, e gabbiani avvitati sulle loro teste. L’animale malato rimanda, nella scena sulla spiaggia e nel flashback dell’io lirico, a un’ un’atmosfera vicina alla Virginia Woolf di To the Lighthouse, alle ore del dolore insuperato, della perdita, quasi un basso continuo nel catalogo dei pensieri acuti, alla non-nascita, alla paura e al lutto; e ancora, il corpo e la spirale che impedisce le nuove nascite, i gabbiani in spirale nel cielo ventoso. Toccare luoghi è viaggiare obliquamente tra corpo e natura, tra memoria e trauma: “odore / di malattia che non si vede, di paura dentro le vene. / da anni le hanno messo la spirale. i fiori sul vestito / sono grandi, rosso arancio, anche sulla borsa. ensemble. insieme / mia cara, stare insieme. da allora ogni momento può rattrappire o / esplodere. il fagotto morbido vicino ai piedi che lei ogni sera / prendeva con sé nel sonno, anche per la quiete dei sogni suoi / profondi. fuori la grande scaglia di mare, i gabbiani / affamati sempre, in spirali, l’una nell’altra, bianche”.

Grande il trauma, toccato con mano, disperso per indizi nel poemetto damaskus, manöver. Toccare luoghi è toccare fibre interne di sé, è arrivare con le mani nelle viscere lacerate dell’altro, ricomporle, provare a farlo in un canto frammentario, a volte in singulti, a volte in visioni splendenti come fate morgane.

Gli spostamenti topografici non abbracciano solo le città d’Europa, nei loro paesaggi urbani, venati di desiderio primordiale, e nelle zone di natura selvaggia, invase dalla produzione industriale. Ulrike Draesner ci conduce fino ai deserti del Medio Oriente. Tra Siria ed Egitto avvengo imprevisti spostamenti d’accento. Cominciamo a guardare le parole allo specchio, a volte davvero alla rovescia, nello specchio delle iscrizioni arabe; l’io che scrive è un io che legge e osserva, esattamente come l’io del lettore. Uno specchio neuronale. Si aprono, nella scrittura di Ulrike Draesner, passaggi tra paesaggi e lingue, in una scrittura plurilingue. Il paesaggio urbano, così come quello del deserto pieno di segni della storia, della bellezza e della violenza a pari titolo, parlano al corpo. Soprattutto a corpi di donne soprattutto, che rispondono somatizzando: facendo entrare in se stesse il disagio della storia e dei luoghi, e trasferendo la sofferenza sul paesaggio. Il corpo, come il paesaggio, comincia a parlare per sintomi, indipendentemente da un sentimento ordinatore, da un cogito accentrato.

Di questo si tratta in damaskus: un ciclo di una forza inquietante. Corpi sono i luoghi, le pietre, le fortezze, le dune. Esplose sono le mani dei bambini che raccoglievano penne a scatto colorate, paracadutate dal cielo. Nella parola manovra c’è la mano deflagrata mentre inseguiva un gioco e un colore vivace. Nulla di sublime accade nel presente pseudo televisivo di un medio oriente teatro di guerra da sempre, come testimonia la fortezza di waset, meta per turisti, luogo di morte. La morte irrompe con lo stesso strumento della scrittura, la penna porta distruzione, la penna è una bomba. Le falangi dei bambini curiosi fluttuano nell’aria, con stracci di paesaggio e di memoria.

Ulrike Drasener pone al traduttore la sfida di ripetere in altra lingua una scrittura che già di per sé è translatio. La traduzione sposta i valori e le immagini per approdare nel luogo nuovo, nel corpo sensibile, sulle cicatrici di una lingua diversa, la lingua di chi traduce e di chi legge in traduzione. Ulrike lo fa nella sua stessa poesia, che spesso è traduzione radicale, ricerca del tessuto connettivo tra sé e la parola di altri, in altra lingua. In questo volume non abbiamo solo l’esempio, già citato in apertura, di Shakespeare, ma anche Gaspara Stampa (novo e raro miracol di natura), Gottfried Benn (u), Marguerite Duras (essay), René Char (poesia matrimoniale).

“Try see, try say”. Cosa vedo dentro la lingua dell’altro, cosa sento auscultandone i suoni, carpendone le interferenze. Una tettonica a strati, ancora mobile. Non è sempre facile cogliere a prima vista l’oggetto di una poesia di Ulrike Draesner. Sono frammenti e spesso anche la sintassi, la struttura del verso ci offre piste doppie e contraddittorie: la via del senso non è lineare. E non linearmente, obliquamente in gruppo, ognuno con i propri bagagli di sensi, di aspettative e dolori, abbiamo tradotto questo libro: Alessandro Baldacci, Alberto Destro, Theresia Prammer e chi qui scrive; l’allestimento in partitura di questo “sambuco a più voci” è stato quello di comporre le dissonanze in una dodecafonia di note soggettive.

Viaggio obliquo non vuol essere un’antologia, ma il nostro andare attraverso dieci anni di scrittura. Ognuno dei volumi da cui abbiamo tratto i testi presentati in questa edizione è un “berührter Ort”, “luogo toccato” dalla nostra ricerca di tracce. Tracce di un movimento doppio, sfavillante: che accende in noi un desiderio. Inquietante: che ci mette di fronte, in modi e linguaggi sorprendenti, al lutto di perdite definitive. La raccolta di segni e indizi, una raccolta collettiva, dà vita a un libro che partecipa dei testi di partenza e li trascende, accasati nello spazio-tempo dei loro volumi, e cerca di vedere, sentire, dire i passaggi tra corpi e luoghi in una scrittura che nella sua profondità soggettiva rompe i confini psicologici e poetologici dell’io lirico, per distribuirsi nella crono- e topo-grafia. In questo aperto l’abbiamo raccolta, nel nostro italiano intessuto di lingue altre.

da damaskus, manöver

r t r n  r t r n  träumte
im hotel schwitzend
die laken plastik der boden
rtrn
als man auf hügel
baute fest : die feste, ritteruine
das traurige wort. waffen
dem körper angepasst
wunderte (made in china)
das plastik sich wie es
diesen regen sah oder
spiegelte in seinen blanken
augen nur wider
wie die hand
junge knochen darin
sehnen nach dem stift
der so verlässlich
ach segelte (heiter,
geradezu)
wie unsere gesten verlässlich
weltweit: das lächeln, die
grundideen. kinder klicken
kugelschreiberknopf. wir
winkeln die hände dabei
nur auf unterschiedliche
weise an          den körper
das fallende licht

||

cyanblau
leicht bedeckt von
sand. ameisen krochen kiefern
hinauf, kalk staubte
auf. im chamäleon lief
noch während sie fielen
die chemische reaktion
wechsel von erdbraun zu
gesprenkeltem rot mit
helleren stellen
sandig             ||          fahl.

 

da damasco, manovra

r d c v  r d c v sognava
sudando in albergo
le lenzuola plastica il pavimento
r d c v  quando si costruiva su colline
solidamente: solido, il rudere dei cavalieri
la trista parola. armi
adattate al corpo
si meravigliò (made in china)
la plastica di come volò
in pezzi? si meravigliò il camaleonte
sulla sua roccia quando
vide questa pioggia o
semplicemente la specchiò
nei suoi occhi vuoti
come la mano
con dentro giovani ossa
legamenti dopo la biro
che affidabile
ahi – veleggiava (serena,
persino)
come i nostri gesti affidabili
su scala mondiale: il sorriso, le
idee di fondo. bambini cliccano
su penne biro. noi
incurviamo le mani
solo in modo diverso
sul       corpo
la luce cadente

||

azzurro ciano
leggermente coperto da
sabbia. strisciavano formiche su per
mascelle, calce spolverizzava
in giro. nel camaleonte ancora
funzionava la reazione chimica
mentre cadevano
cambio da color terra a
rosso chiazzato con
zone più chiare
sabbioso          ||          tenue.

(traduzione di Camilla Miglio)

 

bindegewebe
(ehegedicht)

dies kribbeln im bein diese sehnsucht
die weder sät noch erntet nur gehorcht
sich selbst gehört sie ganz zeugt
als gläubige als absolut als fall
die grammatik sich der knie. dort
liegen wir manchmal doch nur die
schnellen jungen simmernd in ihrem saft
verstehen die anfangschimäre der wahrheit
zu zeichnen: ein lächeln, unvorhergesehen.
ich bin ganz ohne sorge da auf dem knie
das nachts mit der matratze spricht und
sagt dies ist mein alter mein knochen mein
schutzschild bist du. man verdreht sich
nicht, man geht vorbei. man berührt und
dort ist das ende warm wie ein bahnhof
aus hosen und röcken und nächten
lang her getragen. dort murmelt etwas
wie liebe manchmal ist „dafür“ ein
„davor“, gehalten. dahinter wo der
zug fährt faltet die zukunft der anderen
sich auf – hier aber sind wir zusammen
auf knien im traum hier rührt uns
(nichts). zwei schwalben machten keinen
sommer? ha, heiter hebt sich das
bahnhofsdach.

mit dank an
rené char, crible
tessuto connettivo    
(poesia matrimoniale)

questo formicolio nella gamba questo desiderio
che né semina né raccoglie soltanto ubbidisce
che aderisce a sé stesso si crea completamente
come credente come assoluto, genu-
flessione grammaticale. lì
di tanto in tanto ci stendiamo ma solo i
giovani rapiti cuocenti nel loro brodo
sanno tracciare la lettera iniziale della
verità: un sorriso, inaspettato.
sono senza preoccupazioni lì sul ginocchio
che di notte parla con il materasso e
dice questa è la mia età il mio osso il mio
scudo di difesa sei tu. non ci si
storce, si passa. si tocca e lì
la fine è calda come una stazione
di notti gonne e pantaloni portati
da tanto lontano. lì mormora qualcosa
come amore, a volte un “pertanto” è un
“davanti“, trattenuto. dietro dove il
treno parte l’avvenire degli altri si
riapre – qui però stiamo insieme
su ginocchia nel sogno qui non ci tocca
(niente). una rondine non faceva
primavera? ah, serenamente si alza
il tetto sopra la stazione.

un grazie a
rené char, crible

(traduzione di Thresia Prammer)

Ulrike Draesner, viaggio obliquo (poesie 1995-2009), a cura di Camilla Miglio e Theresia Prammer, S. Angelo in Formis, Lavieri, 2010

 

This entry was posted in Saggi, Traduzioni and tagged , , , . Bookmark the permalink.

One Response to Spostamenti, tra corpo e luogo: su Ulrike Draesner

  1. Pingback: Nuovi poeti di Berlino 1: Ulrike Draesner | germanistica.net

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *