Uwe Tellkamp, La torre


Heribert Tommek

Nato a Dresda nel 1968, cresciuto in una famiglia di medici e musicisti, chirurgo a sua volta (traumatologia), Uwe Tellkamp ha continuato a esercitare la professione, non dedicando alla scrittura che «le poche ore restanti», fino al conferimento del premio Bachmann, nel 2004. Dopo averlo accostato a Wolfgang Hilbig e Reinhard Jirgl, gli ultimi grandi prosatori dell’avanguardia tedesco-orientale, i critici hanno accolto con perplessità il suo secondo romanzo, Der Eisvogel (Il martin pescatore, 2005), considerato da alcuni il segnale di un «ritorno della “rivoluzione conservatrice”» nella letteratura tedesca. Ma queste oscillazioni della critica si sono arrestate di fronte a La torre (2008), unanimemente acclamato come il definitivo «romanzo sulla DDR».

Dal punto di vista formale La torre è uno Zeitroman, nella doppia accezione di affresco di un’epoca e meditazione sul tempo, ma è anche un romanzo di formazione e un romanzo d’artista con una specifica pretesa di verità. Modello esplicito è La montagna magica di Thomas Mann. Anche nella Torre si narra di una società in declino, quella borghesia di cultura che conduce un’esistenza anacronistica nel quartiere del Weißer Hirsch di Dresda come già nel sanatorio di Davos. Anche qui la narrazione abbraccia sette anni, dalla morte di Brežnev nel 1982 alla caduta del Muro. Il materiale storico è sottoposto, ancora sulla falsariga di Mann, a un trattamento musicale fin dalla wagneriana Ouverture: dal mare delle voci del passato affiora il mito di Dresda, la «Storia di una moderna Atlantide» (questo il sottotitolo). Perfino la topografia ricorda, nella sua organizzazione verticale, la Montagna magica: la narrazione inizia con l’ascesa del giovane protagonista Christian Hoffmann sui colli dell’Elba, il «lassù» culturale e politico che costituisce l’effettivo spazio della narrazione, contrapposto al «laggiù» dove sta la gente «normale».

Tra i protagonisti è soprattutto Meno Rhode, il redattore editoriale che con i suoi monologhi interiori introduce nel romanzo un livello metariflessivo, a condurre un’esistenza pendolare tra il polo borghese degli «abitanti della Torre» e quello della nomenclatura realsocialista, anch’essa insediata sui colli della «Roma dell’est». Christian, che come il Wilhelm Meister di Goethe vuole diventare un artista o quantomeno un medico di fama, si accosta al secondo polo soltanto esteriormente, prestando il servizio militare per ottenere l’accesso agli studi di medicina, ma conserva fino all’ultimo una riserva interiore. A ben guardare però il contrasto tra i due poli è più apparente che reale, poiché la concezione dell’uomo e i metodi pedagogici che vi dominano sono sostanzialmente analoghi: nell’irrigidito umanesimo di Christian – prodotto della sua educazione «lassù» – si manifesta un’estraneità al mondo che lo tiene a distanza dai personaggi che stanno «in basso» e dalla loro mentalità. Nella distinzione dal mondo inferiore del «popolo», il mondo interiore degli «abitanti della Torre» e quello esteriore dell’«aristocrazia rossa» possono identificarsi.

Al centro del romanzo stanno dunque i problemi di un’élite culturalmente e/o politicamente privilegiata, tanto da dare l’impressione che la vera resistenza interna alla DDR sia venuta dalla borghesia di cultura, mentre il movimento “dal basso” per i diritti civili appare assai sbiadito. La virulenza politica dell’opera di Tellkamp sta nel risuscitare il pathos, tradizionalmente borghese, della deutsche Tiefe quale collante per la deutsche Einheit; la sua virulenza letteraria nel ritorno a una narrazione mannianamente «mormorata all’imperfetto» che, innestata su una struttura testuale stratificata e frammentaria, rivela l’aspirazione a coniugare rappresentatività nazionale e modernità formale. In questo modo Tellkamp può tornare ad occupare, nel campo letterario tedesco, la posizione dello scrittore-notabile, il cui rinnovato successo è legato al rafforzamento di analoghe posizioni borghesi, neoconservatrici e neopatriottiche nel campo politico della Germania riunificata.

Heribert Tommek

Uwe Tellkamp, La torre. Storia di una moderna Atlantide, Milano, Bompiani, 2010

da: Allegoria n. 62 (trad. di Michele Sisto)

This entry was posted in Recensioni and tagged , , . Bookmark the permalink.

2 Responses to Uwe Tellkamp, La torre

  1. Paola Quadrelli says:

    Recensione dotta e interessante che ha però il difetto, non irrilevante, di riferirsi a “Der Turm”, ovvero all’edizione originale del romanzo, non a “La torre. Storia di una moderna Atlantide”, Milano, Bompiani, 2010, come riportato in calce alla recensione. La recensione dovrebbe mettere il lettore in grado di capire qual è la qualità del prodotto editoriale che ha in mano e, dunque, per un’opera tradotta, il recensore non può esimersi dall’esprimere un commento sulla traduzione (che nel caso del romanzo in questione annovera un numero impressionante di errori marchiani). Che cosa volete che capisca il lettore italiano in un romanzo in cui la traduttrice arriva a tradurre letteralmente l’indirizzo di Goethe a Weimar, il “Frauenplan” (cfr. p. 1139 “Ci ancorammo a Weimar, il nostro cordone ombelicale era attaccato al piano femminile”)??

  2. michele sisto says:

    Hai ragione, Paola, la recensione è fatta sul testo tedesco. Ho pensato che tradurla fosse utile perché quella di Tommek è una delle poche voci critiche su un testo acclamato quasi unanimemente, in Germania, sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori. E poiché appariva su “Allegoria”, una rivista di teoria letteraria, il dato della qualità della traduzione – sempre importantissimo – è passato in secondo piano.

    Io la traduzione non l’ho letta, ma molti mi hanno segnalato le numerose, a volte evidentissime, imperfezioni. Certo, l’impresa era ardua, data la mole del libro e i tempi dettati dal mercato editoriale. D’altra parte, a voler correre troppo, magari risparmiando sulle revisioni e sulle correzioni di bozze, si mettono in pericolo gli interessi tanto dell’autore quanto dell’editore stesso. Non mi risulta infatti che il romanzo di Tellkamp sia stato molto venduto e letto, da noi. Ed è un peccato.

    Poche settimane fa un’amica mi diceva che secondo lei il duraturo successo italiano del “Tamburo di latta” è dovuto in misura rilevante, oltre che alla forza straordinaria del testo di Grass, anche alla traduzione che ne fece Lia Secci nel ’62, magari a tratti approssimativa ma stilisticamente efficacissima (non ho ancora letto quella nuova, di Bruna Bianchi).

    Soprattutto quando si tratta di testi di così grande complessità sarebbe bene che gli editori mettessero in conto, nel fare il loro investimento, di dedicare la massima cura proprio alla traduzione. Una buona traduzione può essere decisiva per un best- o un longseller.

Leave a Reply to michele sisto Cancel reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *