Brigitte Reimann

Berlin, Stalinallee (via Jean-Claude Kuner)

Paola Quadrelli

In una lettera del marzo 1972 con cui riprende contatto, dopo vent’anni di silenzio, con un’amica d’infanzia trasferitasi nella Germania Occidentale, la trentanovenne Brigitte Reimann, malata di cancro e condannata a una sorte irrimediabile, traccia di sé un amaro profilo riassuntivo, quasi un epitaffio per ricordare una donna vitale e irrequieta, che visse con intensità bruciante le passioni private e partecipò, dapprima con entusiasmo e poi con crescente scetticismo, alla vita pubblica del suo Paese. Scrive dunque la Reimann all’amica Veralore Schwirzt:

Vent’anni, mio Dio! Uno sguardo all’indietro; non credo che sia cosa facile. La storia di una vita, una storia che ancora fino a tre anni fa sarebbe stata piacevole da ascoltarsi e a cui adesso bisogna invece apporre l’incipit: “C’era una volta”. C’era una volta una donna piena di vita, che due volte intraprese gli studi universitari e due volte li interruppe per ribellione contro i suoi illustri professori, […], che ebbe molte storie con molti uomini, fece un sacco di sciocchezze, di cui a tutt’oggi non si pente – che si sposò quattro volte e non volle avere figli – cosa di cui ora, un po’, si pente – perché riteneva più importante la scrittura […]; c’era una volta una scrittrice che ebbe troppo presto troppo successo […], che ricevette un cumulo di onorificenze e quasi tutti i premi letterari che vengono conferiti qui da noi, che credette in una Grande Causa e di una Grande Causa ebbe modo di dubitare, che bramava di vedere il mondo e dovette accontentarsi dei Paesi vicini, Polonia, Praga, Mosca […], che da giovane fu arrestata e avrebbe dovuto finire in prigione e che dieci anni dopo cenava allo stesso tavolo con Walter Ulbricht […] in breve: c’era una volta, ed è andata bene così […].

 Con questo dolente autoritratto si congeda dal mondo una delle figure più rilevanti della vita letteraria della Germania Orientale negli anni Sessanta: Brigitte Reimann, nata a Burg, nei pressi di Magdeburgo nel 1933 e morta a Buch (Berlino) nel febbraio 1973, autrice di novelle e romanzi, tra cui Franziska Linkerhand, che, pubblicato postumo nel 1974, ottenne grande e duraturo successo nella Germania Orientale.

La compenetrazione tra vita privata ed eventi pubblici, constatabile in quella lettera in cui la Reimann allude tanto alle cene ufficiali con Ulbricht e al giovanile ardore socialista quanto alla sua turbolenta vita sentimentale, costituisce un tratto caratteristico non solo degli scritti di carattere privato della Reimann, ma contraddistingue un modo di interpretare il proprio ruolo, tipico degli intellettuali dei regimi comunisti dell’Est. La distinzione tra scrittori dissidenti e scrittori “allineati”, una contrapposizione proposta dalla stampa occidentale negli anni dopo la caduta del Muro con disinvoltura e manicheismo eccessivi, si rivela, di fatto, troppo rigida per comprendere l’attività di quei molti scrittori che, come la stessa Reimann, vissero e operarono nel loro Paese cercando di interloquire con il potere politico e con il partito, senza emigrare e senza, d’altro canto, innalzare lodi al regime.

Come è stato più volte sottolineato, la letteratura assunse nella DDR la funzione di «Ersatzöffentlichkeit», svolse, cioè, quel ruolo di scambio e veicolo di opinioni che i media, asserviti al regime, non potevano svolgere. Da qui la predominanza nelle opere letterarie di soggetti inerenti alla società stessa e la vita quotidiana della DDR; da qui lo speciale legame intrattenuto dagli scrittori con il proprio Paese e con il proprio pubblico di lettori, a cui essi si sentivano legati da un vincolo di responsabilità, solidarietà, complicità, fiducia. Radicati nella realtà sociale e politica della DDR sono anche i romanzi di Brigitte Reimann, che costituiscono, oltre che una testimonianza incisiva del disagio femminile (e non solo) nella Germania Est, anche un capitolo importante e, fino a pochi anni fa, sottovalutato della letteratura tedesca del secondo Novecento.

Il primo importante romanzo della Reimann, Ankunft im Alltag («Approdo nella vita quotidiana», 1961), si situa nel solco delle direttive impartite nella conferenza di Bitterfeld dell’aprile 1959, in cui Ulbricht aveva invitato gli scrittori a sperimentare essi stessi la vita nei cantieri e nelle industrie e a riferirne nelle proprie opere. Numerose e importanti sono le opere letterarie scaturite da questo scambio con il mondo della “produzione”, da Il cielo diviso di Christa Wolf, nato dopo l’esperienza lavorativa della scrittrice presso la fabbrica di vagoni ferroviari di Halle in cui è ambientato il romanzo stesso, ai Produktionsstücke di Heiner Müller. La vicenda di Ankunft im Alltag si svolge presso il leggendario Kombinat «Schwarze Pumpe» di Hoyerswerda, una raffineria di carbone che rappresenta anche l’epico teatro di battaglia della prima pièce di Heiner Müller, Die Korrektur. I tre neo-maturati Curt, Recha e Nicholaus arrivano nel Kombinat per svolgere un anno di lavoro prima di intraprendere gli studi universitari: accanto alle vicende private, incentrate sul classico “triangolo” sentimentale, i tre giovani sperimentano la vita nella brigata operaia e maturano un senso di responsabilità nei confronti della società dei lavoratori. In particolare, il cinico e arrogante Curt subisce un processo di redenzione morale che lo rende consapevole del nesso inscindibile tra singolo e collettività. Il titolo del romanzo battezzò peraltro tutto un genere letterario successivo della letteratura tedesco-orientale, la cosiddetta Ankunft-Literatur, che raffigura l’“approdo” nel mondo del lavoro, la compiuta realizzazione del socialismo dopo il disordine morale, le difficoltà organizzative e le perplessità politiche dell’immediato dopoguerra.

Ancora vincolato a certi stereotipi della letteratura di edificazione del socialismo, il romanzo della Reimann illustra però senza infingimenti la fatica del lavoro manuale e le concrete difficoltà che insorgono in un collettivo di lavoratori e con la diciassettenne Recha offre un intenso personaggio femminile, che prelude, nel carattere indipendente e orgoglioso e nelle ambizioni professionali, a Franziska Linkerhand, la giovane architetto dell’omonimo, successivo (e incompiuto) romanzo. Recha sogna infatti di diventare architetto, di costruire le nuove città di cui ha bisogno il Paese, di costruire parchi, case “di cemento e vetro… e in ogni appartamento sole e cielo”.

I mutamenti socio-urbanistici dovuti al nuovo e tumultuoso riconfigurarsi del paesaggio industriale, l’esigenza di progettare nuovi e funzionali insediamenti abitativi, la continua e crescente necessità di alloggi, il ruolo di rappresentanza e, quindi, di propaganda, svolto da insediamenti, progetti urbanistici e palazzi, fecero assurgere l’architettura e l’urbanistica a discipline-chiave del regime della Germania socialista. L’architettura è inoltre un campo in cui si intersecano creatività individuale ed esigenze sociali, in cui dovrebbero coniugarsi aspetti estetici e pragmatici: non stupisce, dunque, che essa potesse fungere da banco di prova dell’estetica e della politica socialista. La Reimann, che nel 1960 si era trasferita a Hoyerswerda, ebbe modo di assistere personalmente all’edificazione dei nuovi quartieri nati per accogliere le famiglie degli operai del gigantesco complesso industriale “Schwarze Pumpe”.

Agli inizi del 1963, quando iniziò a progettare il nuovo romanzo, la scrittrice ebbe poi modo di conoscere Hermann Henselmann, eminente architetto della Germania socialista (aveva, tra l’altro, diretto l’edificazione della Stalin-Allee a Berlino) e che era peraltro grande ammiratore dell’ultimo romanzo della scrittrice, Die Geschwister, incentrato sul tema della divisione della Germania. Il rapporto di stima reciproca instauratosi con Henselmann, gli incontri susseguitisi negli anni e le numerose lettere, di cui resta testimonianza nel carteggio edito nel 2004, costituiscono il terreno di informazioni e riflessioni da cui hanno tratto forma le aspirazioni e le considerazioni del personaggio romanzesco. D’altro canto, Henselmann è adombrato nella figura del maestro di Franziska, il prof. Reger, che cerca di coniugare il lato funzionale dell’architettura con quello artistico e creativo e che è consapevole del ruolo sociale del proprio lavoro, insito nella possibilità di influire sui rapporti interpersonali.

Dopo essersi separata dal marito, un operaio rozzo, violento e invidioso della superiorità culturale della moglie (con questo matrimonio la Reimann problematizza proprio quel legame tra élite intellettuale e classe operaia a cui mirava il marxismo-leninismo), Franziska si trasferisce a Neustadt, desiderosa di svincolarsi dal mondo patriarcale della propria città natale e pronta a intraprendere un percorso di emancipazione fondato sull’indipendenza economica e sull’autostima che nascono dall’esercizio di un’attività professionale praticata con passione e impegno. Nei cantieri di Neustadt, Franziska deve misurare le proprie aspirazioni professionali con la pianificazione edilizia statale che impone la costruzione in serie di grigi casermoni, innalzati in brevissimo tempo e con materiali di scarsa qualità. Rappresentante di questa edilizia che non conosce fantasia ed emozioni, è Schafheutlin, il capo di Franziska, pedante e opaco “ragioniere dell’architettura”. D’altro canto, Franziska deve difendere la sua dignità e autonomia dinanzi al volgare maschilismo dei colleghi uomini, primo fra tutti l’arrogante Jazwauk che irride le aspirazioni emancipatrici di Franziska.

La figura maschile più importante del romanzo è, però, il camionista Wolfgang Trojanowicz, che Franziska chiama Ben e a cui è rivolto il romanzo in forma di una lunga lettera d’addio. Trojanowicz, il cui atteggiamento ironico e distaccato richiama al lettore l’“amico estraneo” dell’omonimo romanzo del 1982 del tedesco-orientale Christoph Hein, ha dietro di sé una vicenda drammatica che ha segnato per sempre il carattere dell’uomo, inducendolo al fatalismo e alla rassegnazione. Giovane e promettente professore universitario a Lipsia e membro del partito, aveva subito un processo di epurazione dopo la repressione della rivolta ungherese nel 1956 ed era stato condannato a quattro anni di detenzione. La distanza tra l’atteggiamento amaro e disilluso di Trojanowicz e la volontà costruttiva e l’ottimismo mai sopiti di Franziska inducono, infine la donna ad abbandonare l’amante.

Il romanzo, che come si è detto, restò incompiuto a causa della morte della scrittrice, fu pubblicato nel 1974 e, in versione integrale (privo, cioè, di alcuni tagli imposti dalla censura) nel 1998: su quest’ultima versione si basa l’edizione italiana, pubblicata da Voland nel 2005 nella traduzione di Antonella Cerminara. Negli ultimi quindici anni la figura e l’opera di Brigitte Reimann sono oggetto di riscoperta e rinnovato interesse in area tedesca: l’editore Aufbau ha pubblicato dapprima le lettere con Veralore Schwirtz e i due volumi dei diari, quindi i carteggi con Christa Wolf e con Henselmann, e, infine, nel 2008, le lettere ai genitori. Nel 2003 Markus Imboden ha diretto un film sulla vita della scrittrice, Hunger auf Leben (Fame di vita), interpretato da Martina Gedeck e con Ulrich Mühe tra i personaggi principali (poi attori protagonisti ne Le vite degli altri, premio Oscar nel 2007).

La ricchezza umana, la forza intellettuale, il coraggio, l’intensità emotiva della Reimann e della sua Franziska e l’importanza documentaria dei diari e dei carteggi della scrittrice, che visse per anni al centro della vita culturale della DDR, costituiscono senz’altro gli elementi che hanno maggiormente contribuito a questo revival. Accanto ad essi va tuttavia considerato pure il desiderio di tratteggiare un quadro più preciso e articolato della DDR, un Paese scomparso ma irriducibile a quelle contrapposizioni schematiche tra ex-spie ed ex-dissidenti, nostalgici e avversari incalliti con cui è stata troppo spesso presentata la realtà della Germania socialista nei media occidentali.

Paola Quadrelli

da: PulpLibri, novembre-dicembre 2009

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