Paul Celan, Microliti e Oscurato

Camilla Miglio

La pubblicazione dei due volumi di Paul Celan, Microliti – raccolta di aforismi, prose, frammenti di poesie e di poetica – e Oscurato – “canzoniere deformato e ribaltato” (scrive Dario Borso, curatore di entrambe le edizioni), indirizzato alla moglie e al figlio dal chiuso della clinica psichiatrica, può essere considerato un punto di svolta nel discorso su Celan in Italia. Una lettura così serrata è possibile forse solo ora, dopo l’apertura degli archivi, che hanno in parte chiarito il presunto ermetismo dei suoi versi. Un ermetismo da Celan sempre respinto. Si pensi alla dedica delle sue poesie al poeta Michael Hamburger, suo traduttore in inglese: “niente affatto ermetico!”. Queste edizioni in cui vita e scrittura sono così evidentemente intrecciate sottraggono Celan alla vulgata feuilletonistica che ha accompagnato spesso i carteggi con la moglie, con le amate Bachmann e Shmueli, o le testimonianze postume che calcano la scena pubblicistica con nuove rivelazioni eroticopoietiche (vedi Brigitta Eisenreich, Celans Kreidestern – La stella di gesso di Celan). Non della leggenda disforica del poeta disperato, né della versione euforica del seduttore deraciné si sentiva il bisogno. Si sentiva il bisogno di una lettura attenta alle circostanze reali e concrete della scrittura eppure (la parola è di Celan) “antibiografica”, come questa dei Microliti e di Oscurato. Ne emerge chiaramente la via stretta di chi ha scelto, non liberamente, di abitare nient’altro che la lingua, per finire poi colpito, aggredito proprio sulla propria parola, accusato di plagio, come accadde a Celan per mano della vedova del poeta Yvan Goll.

I Microliti, frammenti di un senzapatria, il primo in rumeno scritto nel 1947 a Bucarest, l’ultimo in francese scritto nel 1970 a Parigi, testimoniano proprio il cammino polifonico (rumeno tedesco francese, con sullo sfondo gli echi di traduzioni da 11 lingue) di un poeta che radicalmente pensa se stesso e la storia a partire dalla lingua, e pensa la lingua come luogo di massimo pericolo per la libertà e integrità dell’umano, ma anche luogo dove l’umano può avere ancora “Spielraum”, spazio. Leggiamo: “e dipendeva dalle parole se si tornava a tastare le cose”.

Sono frammenti di corpi litici, estratti o depositati nella tettonica della scrittura. Pensati, a partire dal ’60, come legittima difesa contro i lapidatori, in attesa di diventare “cristalli”, testimonianza  “incontrovertibile” della “realtà” della propria poesia. Il contrario del plagio. “Vetro, fiato, scritto”, scrive Celan in uno degli ultimi microliti, del 1970, a proposito della poesia di Mandel’stam.

L’edizione italiana (prima traduzione mondiale), a differenza di quella tedesca, segue l’ordine cronologico, e non tipologico o di genere. In questo modo il pensiero poetante, l’osservazione corrosiva di storia vita e scrittura, si colgono nel loro farsi; come una doppia spirale di DNA, esse si agganciano senza rispecchiarsi. Vige la legge che un aforisma definisce dei “vasi comunicanti”: la scrittura, la lettura fluisce e rifluisce attraverso la materia “spugnosa, porosa” del corpo (fisico di chi scrive, della sua psiche sofferente); la poesia si lascia attraversare e assorbe letture contemporanee, nomi e circostanze, realia contundenti dell’esistenza, pronti anche a ferire chi legge. Come suggerisce la copertina dell’edizione italiana, una Danae di Anselm Kiefer, la pioggia di materia stellare, non più oro ma dura e spuria materia piovuta da un altrove, penetra nei pori della vita e negli intervalli della scrittura.

La poesia si piega sotto “l’accento acuto del presente” ma l’io che scrive è pure infinitamente dal qui e ora. Leggiamo: “patria del poeta è il suo poetare”, il poeta cerca asilo non nelle sue quattro mura ma nelle sue “quattro parole”. Ciascuna poesia è fazzoletto di patria, lontana stellarmente da ogni altra poesia e dalla vita stessa. La poesia è “luogo casuale del tempo linguistico”, imprevedibile congiunzione di parole, “per un tempo limitato”, che, rinunciando alla rima, alla musicalità armonica, si volge allo “sconfinato”.

La traduzione produce nell’italiano un ductus, un lessico, un discorso celaniano, coerente con la programmatica dichiarazione di Celan del 1966: “e non musicizzo più”; con la scelta cromatica per una lingua “grigia”, ma al tempo stesso “polisemica” e “senza maschera”. La scrittura si fa analogon del “fenomeno dell’interferenza, azione reciproca di onde coerenti che s’incontrano” […] “mutamento nel contiguo, nel successivo, nell’opposto”. Il lettore italiano di Microliti potrà osservare contiguità e interferenze che il traduttore ha ottenuto con grande labor limae. Due esempi: in un frammento di prosa la contiguità fonica tra “Unsinn” (“Assurdo”) e “Unsereins” (“Uno come noi”) viene compensata dalla scelta della risposta successiva (“Appunto”). E così altrove: “Dico luce, non dico buio, ma si rifletta: l’ombra che ciò proietta!” (dove la rima “licht-wirft” viene recuperata nell’italiano “rifletta-proietta”). E non si tratta di rime estetizzanti.

Per questo il curatore avverte dell’intento ironico della rima e del timbro della poesia che apre il volume Oscurato, reso in italiano con felici soluzioni in assonanza, che rimanda in modo chiaro e polemico a Gottfried Benn. Alla postfazione di Giorgio Orelli, che proprio di questa poesia illustra lo strumentario retorico e prosodico, sembra rispondere uno dei microliti: “una poesia non può esser mai il risultato della maestria del rispettivo poeta”. Un’idea del genere “apre solo uno degli accessi”. Mallarmé è stato pensato fino in fondo e messo a testa in giù soprattutto dall’ultimo Celan. L’edizione documenta proprio la contiguità tra scrittura pubblica, sofferenza e scrittura destinata alle persone amate che pure hanno rischiato di venire uccise dalla stessa mano che scrive.

Oscurata, offuscata è la poesia di questo quaderno di versi: dalla reclusione in clinica, dal coma, dai farmaci, dal delirio. Il gesto di oscurare è anche parte del lavoro del poeta. Il poeta che – dice Celan “ombreggia” – cerca l’ombra delle parole. Proprio quest’ombra sembra cercare l’edizione italiana di Oscurato, in un continuo rimando tra testo e paratesto. A differenza dell’edizione tedesca, essa segue un ordine che anche in questo caso documenta il concrescere della scrittura col tempo, con l’ambiente di pensiero e vita intorno alle poesie. La scrittura porta i segni della situazione psicotica, di una condizione di vera e propria cattività in clinica psichiatrica, tra il ‘65 e il ’66, dei plurimi shock ipoglicemici. Qui ricorrono, ripensati e riscritti sotto il peso della sofferenza e corrosi dall’acido del sarcasmo, frammenti di temi e motivi dell’opus celaniano: l’amore, il tempo, la scrittura, la follia, la distruzione attraverso il linguaggio. Un esempio, la modulazione della scrittura dell’abisso, inaugurata da una rima ironica e dissacrante: “L’abisso senza gradi/ si spalanca da sé –/ Arriva il cala e cadi”: l’abisso non è stato mai metafora, pensiamo alla poesia Davanti a una candela dove è “crepaccio del tempo”. Ma qui si fa esperienza fisica e diretta, è il come indotto, si tocca col corpo. Ecco anche il controsalmo: “dei/ crollati all’insù/ stridulo/ salmo”. E il cadere verso l’alto non è certo una citazione da Elegia duinese di Rilke, ma la inscrizione nell’opera dell’esperienza del coma, che nella lettera a Giséle viene riferita come un precipitare “in paradiso”, ma avverte il curatore in nota, raccoglie l’eco dell’Ulisse di Joyce, Circe: “don’fall upstairs!” e del Nibelungenlied. Il richiamo alle letture che hanno accompagnato quello che Celan percepisce come “internamento” in clinica, è un fatto fondamentale per capire l’”ombra” di queste poesie. Fa luce sulla struttura relazionale del suo scrivere e sul motivo che ha reso l’accusa di plagio così micidiale. Queste poesie intrecciano relazioni di contiguità e continuità con le letture del momento (Joyce, Wolfe, Conrad, l’Iliade, Lao-Tse) e altre di lunga durata e memoria (bibliche, politiche, scientifiche, mineralogiche, filosofiche). Parole sottolineate in libri altrui sono il picchetto cui annodare fili relazionali da piantare nella propria scrittura, nella propria carne, quasi spine, o uncini. Il rapporto con una realtà riscritto in poesia rende le parole multiverse, tra vita e morte: “Non scriverti/ tra i mondi,// imponiti alla/ varietà dei significati,// confida nella scia di lacrime/ e impara a vivere”. Ma la prima stesura chiudeva con: “impara a morire”.

In questa correzione (dalla morte alla vita) c’è forse tutto Celan. La vita nel verso, e la morte, l’ombra che la parola allunga su chi legge. Questo precario esporsi in congiunzioni di parole, frammenti di vita e lettura, fatti e memorie riscrive letteralmente la storia: “Ri-cordo: /anche pre-cordare, avanpensiero e custodia di ciò che potrebbe essere”. Proprio in questo ricordare in avanti, che cita il Kierkegaard della Ripetizione, consente di “vivere le poesie. Affinché restino vere”. Mettiamo in tasca ancora due sassolini: “le poesie non cambiano certo il mondo, ma cambiano l’essere-nel-mondo”. Ci insegnano a pregare in un modo diverso, “a mani sgiunte”.

Camilla Miglio

Paul Celan, Microliti, a cura di Dario Borso, Zandonai, Trento 2010, pp. 172
Paul Celan, Oscurato, a cura di Dario Borso, Einaudi , Torino 2010, pp.105

da: L’Indice, luglio-agosto 2011; immagine via The New Yorker.

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