Lettera aperta sul reclutamento dei giovani ricercatori

[Riporto la lettera firmata da un gruppo di giovani germanisti e inviata ieri all’Associazione Italiana di Germanistica e all’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani. M.S.]

Care colleghe, cari colleghi,

ciascuno di noi sa quanto essenziale per la qualità e per le possibilità stesse di sopravvivenza di un settore scientifico-disciplinare sia l’oculatezza nel reclutamento dei giovani ricercatori. È anche ben noto a tutti quanto il titolo di DOTTORE DI RICERCA, benché – ai sensi dell’attuale normativa – non dotato di carattere necessario, costituisca per legge un titolo preferenziale che non può essere ignorato nel valutare il curriculum di un candidato nell’ambito delle selezioni per posti universitari. 

Facciamo, a questo proposito, riferimento anche alla lettera dello scorso 6 luglio diffusa all’interno dell’Associazione Italiana di Germanistica, in cui sette docenti del settore L/LIN-13 si rivolgevano in primo luogo ai colleghi ordinari, in particolare a coloro che facessero parte delle commissioni delle prossime sette procedure di valutazione comparativa per posti di ricercatore nel nostro settore. L’intento era quello di un richiamo alla responsabilità nella scelta dei candidati vincitori, sottolineando il valore preferenziale del titolo di dottore di ricerca che non può essere equiparato ad altri titoli, pur meritori, come la didattica e altre attività di ricerca (dal momento che, per altro, come si osservava nella lettera, la posizione di ricercatore non è necessariamente legata per legge alla didattica; per questo essa non dovrebbe costituire, nella valutazione, un criterio comparabile al possesso del titolo di dottore di ricerca ovvero alla continuità e alla costanza dell’attività di ricerca di un/a candidato/a).

Il concorso bandito dall’università di Milano (di cui alla G.U. n. 68 del 27.8.2010), conclusosi alla metà di giugno di quest’anno, ha tuttavia riproposto l’attualità della questione: nel caso specifico, la candidata dichiarata vincitrice, a differenza di TUTTI gli altri concorrenti, non era in possesso del titolo di dottore di ricerca. Nella relazione finale, tale scelta compiuta in evidente contrasto con gli stessi criteri di valutazione adottati dalla commissione esaminatrice (verbale n. 1 del 14.4.2011, pag. 3, lettera a, www.unimi.it/cataloghi/valutazioni_comparative/criteri_LetFil_L-LIN13.pdf), non viene avvalorata dalla superiorità vuoi quantitativa vuoi qualitativa della produzione scientifica della candidata vincitrice (questo, per lo meno, non emerge a nostro avviso con inoppugnabile chiarezza dalle 43 pagine della relazione), ma pare più che altro suffragata dalla “intensa e continuativa attività di insegnamento svolta dalla candidata come professore a contratto di letteratura, cultura e lingua tedesca” presso la stessa università di Milano.

Di fronte a questo risultato che non fa che confermare la tacita prassi per cui, con sempre meno eccezioni, i concorsi da ricercatore sono procedimenti amministrativi “ad personam”, generalmente a favore di un qualche candidato interno, NOI PROTESTIAMO per una ragione morale che certo non cambierà l’esito del giudizio, ma che mira a creare un sussulto nelle coscienze e a stimolare un dibattito proficuo sul futuro della ricerca universitaria, anche al di là dei confini della nostra disciplina.

Nel caso specifico del concorso di Milano riteniamo che in fase di valutazione comparativa non sia stato attribuito il giusto peso al titolo di dottore di ricerca, il quale, per sua natura, sancisce l’esito positivo di un percorso formativo pluriennale di ampio respiro finalizzato esclusivamente all’affinamento della capacità critica e ancor più all’acquisizione della competenza scientifica e metodologica che giace a fondamento dell’attività di ricerca. Astraendo tuttavia dal caso singolo – che, com’è risaputo, non è stato il primo del suo genere – ESPRIMIAMO PROFONDO DISACCORDO con l’utilizzo pretestuoso e strumentale di una procedura che continua a chiamarsi “di valutazione comparativa”, ma che ci umilia nella sostanza e nella forma in quanto, in casi purtroppo non rari (talvolta tanto eclatanti da non dover essere qui menzionati), non viene garantita da parte delle commissioni giudicatrici la necessaria obiettività nel valutare e giudicare titoli e pubblicazioni dei candidati dei concorsi. Tutto questo non fa che vanificare il senso nobile e democratico della libera concorrenza tra i ricercatori e declassare le procedure concorsuali a un rituale tanto prolisso quanto inutile.

Crediamo che i membri delle commissioni siano chiamati a un esercizio di responsabilità tanto maggiore in quanto le norme di legge che regolamentano i concorsi per ricercatore non obbligano né a stilare una graduatoria finale (con la conseguenza assurda che se il vincitore dovesse per qualsiasi motivo rinunciare al posto il concorso andrebbe rifatto ex novo) né a valutare i titoli con puntualità tale da consentirne una reale “comparazione”: infatti quanto vale un dottorato di ricerca? quanto una monografia? quanto la curatela di volume collettaneo? quanto un articolo pubblicato su una rivista, magari internazionale, secondo la modalità peer review? quanto una pubblicazione in lingua rispetto a una in italiano? quanto l’esperienza didattica? quanto un assegno di ricerca? quanto una borsa di ricerca all’estero?

In queste condizioni lo spazio di discrezionalità dei commissari, i quali, oltre a tenere conto della quantità dei titoli possono naturalmente e devono valutare la qualità del lavoro scientifico dei candidati, rischia di dilatarsi indebitamente fino a travalicare nel mero arbitrio. Riteniamo pertanto che l’insufficienza della normativa – alla quale sarebbe peraltro opportuno impegnarsi a porre rimedio in sede legislativa – debba essere compensata da un accresciuto scrupolo di trasparenza e da una più rigorosa sorveglianza reciproca da parte di chi è deputato a selezionare le nuove leve della germanistica italiana. Ne va del futuro della nostra materia e delle nostre stesse università.

Ci rivolgiamo in primo luogo alla nostra generazione di studiosi, quella per intenderci dei “cervelli in fuga” e dei “precari della ricerca”, costretta ad affrontare sacrifici nella maggior parte dei casi non ripagati da un adeguato sbocco lavorativo nell’università italiana: se è facile lamentarsi del sistema, non è altrettanto semplice esprimere apertamente il proprio dissenso, specie per paura di vendette trasversali, in sede di futuri concorsi, da parte di chi è oggetto di critica. Noi intendiamo invece dare un segnale a coloro che selezionano la classe dirigente e docente che sia, nello stesso tempo, di incoraggiamento a chi, come noi, ha scelto la strada della protesta.

RIVOLGIAMO infine UN APPELLO ai professori ordinari coinvolti nelle procedure di valutazioni in corso e in quelle (speriamo!) a venire: è necessario a nostro giudizio mettere fine al sistema dei favori per passare al tanto dibattuto, e tanto poco attuato, sistema dei meriti in rigorosa osservanza di quei criteri di valutazione che la legge impone e che l’etica professionale deve onorare. Svalutare il titolo del dottorato di ricerca significa invalidare ciò che di buono l’università stessa produce, significa sminuire l’impegno che non è solo dei dottorandi, ma anche dei professori che ne guidano e ne assistono il lavoro, significa minare il futuro della ricerca dal suo interno, come se la politica dal canto suo negli ultimi decenni non avesse già intrapreso misure a sufficienza in tal senso. Riteniamo che, soprattutto in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, ogni scelta delle nuove leve non in linea con parametri esclusivamente meritocratici equivalga a una decisione deleteria per la qualità e la credibilità del nostro settore disciplinare, ma in ultima istanza anche colpevole nei confronti dell’intera collettività.

13.09.2011

Andrea Benedetti
Laura Benzi
Simone Costagli
Gabriele Guerra
Elisabetta Mengaldo
Michele Sisto
Michele Vangi

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One Response to Lettera aperta sul reclutamento dei giovani ricercatori

  1. Michele Sisto says:

    [Con il consenso dei professori Costazza, Morello e Schiavoni riporto qui di seguito il testo della loro replica inviata alla mailing-list dell’AIG.]

    Care colleghe e cari colleghi,

    poiché siamo stati chiamati in causa direttamente dalla lettera inviata attraverso la mailing list dell’AIG dai partecipanti alla procedura di valutazione comparativa per un posto di ricercatore di Letteratura Tedesca presso l’Università degli studi di Milano, in qualità di membri della commissione preposta a tale concorso non possiamo esimerci dal rispondere. Vorremmo tuttavia precisare fin da subito che la nostra risposta non intende assolutamente aprire un dibattito, bensì piuttosto chiuderlo definitivamente. Per le ragioni che emergeranno chiaramente da quanto segue, riteniamo infatti che le valutazioni espresse da una commissione di concorso non debbano essere fatte oggetto di discussione e che ciò non possa in particolare avvenire attraverso la mailing list dell’AIG. Da ora in avanti non risponderemo perciò più a eventuali prese di posizione o commenti sulla questione.

    Qualche tempo fa abbiamo preferito non rispondere alla lettera di alcuni stimati colleghi che avevano messo in discussione i criteri adottati da alcune commissioni giudicatrici all’interno dei concorsi per posti di ricercatore. Poiché quel documento non nominava esplicitamente il concorso svoltosi a Milano e poiché soprattutto non ritenevamo di dovere spiegazioni a un autoproclamato ‘comitato di salute pubblica’ che si arrogava il diritto di giudicare pubblicamente l’operato dei colleghi (tra l’altro ancor prima di aver letto i giudizi del concorso), non abbiamo ritenuto di dover reagire. Ma la delegittimazione portata avanti dai colleghi ha evidentemente dato i suoi frutti.

    Se la lettera di protesta dei candidati che non hanno vinto il concorso di Milano può apparire in un certo senso comprensibile quale frutto della loro delusione di fronte alla difficilissima situazione precaria di giovani ricercatori comunque meritevoli, la lettera dei colleghi va giudicata invece con maggior severità. Essi non sembrano rendersi conto, infatti, delle conseguenze del loro agire: continuando per questa strada, il lavoro di ogni commissione di concorso potrà venir criticato da chiunque, dai colleghi scontenti perché il loro candidato non ha vinto il posto così come dai candidati che non hanno avuto successo. La delegittimazione di colleghi finisce per rivolgersi in tal modo contro tutti, anche contro coloro che l’hanno formulata, poiché conduce in definitiva alla delegittimazione delle commissioni giudicatrici e degli stessi procedimenti di valutazione comparativa.

    Fatte queste premesse generali, non intendiamo sfuggire alle questioni poste. Ci viene obiettato che nelle nostre valutazioni non avremmo tenuto conto del titolo di dottore di ricerca e avremmo attribuito eccessiva importanza alla didattica.

    Alla prima obiezione rispondiamo semplicemente che quanto affermato non corrisponde al vero, perché abbiamo invece sempre tenuto conto del dottorato, attribuendo un punteggio fisso al titolo in quanto tale e ulteriori punti alla pubblicazione del lavoro di dottorato in base alla sua ampiezza, al fatto se fosse scritto in tedesco o in italiano, all’editore presso cui è stato pubblicato e poi soprattutto in base alla qualità della ricerca svolta e dei risultati conseguiti. Non solo la qualità dei lavori di dottorato è infatti molto disomogenea, per cui il loro valore va considerato con attenzione caso per caso, ma il titolo di dottore di ricerca non rappresenta comunque una precondizione per l’accesso al ruolo di ricercatore, costituendo solo uno dei diversi titoli soggetti a valutazione.

    La valutazione delle pubblicazioni è un’operazione complessa e molto delicata, alla quale la nostra commissione si è dedicata con particolare attenzione. In assenza di criteri oggettivi per tale valutazione, la commissione ha elaborato una griglia precisa, tenendo conto di numerosi fattori (numero delle pubblicazioni e loro ampiezza, loro collocazione editoriale, lingua nella quale sono state redatte ecc.), ma in particolare dell’originalità, innovatività e importanza di ciascuna pubblicazione scientifica e della sua congruenza con il settore scientifico-disciplinare. Crediamo che i giudizi che abbiamo espresso in maniera sempre equilibrata, evitando critiche eccessivamente severe, per quanto necessariamente sintetici, testimonino a sufficienza l’attenzione con cui abbiamo letto e valutato tutte le pubblicazioni; un’attenzione che potrebbe essere sicuramente testimoniata tra l’altro dagli stessi candidati sulla base dei colloqui che hanno sostenuto.

    Altrettanto e forse persino più complessa della valutazione delle pubblicazioni è stata quella dei titoli. Anche in questo caso abbiamo tenuto conto, oltre che del dottorato, anche dell’attività didattica svolta, della partecipazione a convegni nazionali e internazionali, della loro organizzazione, della collaborazione a progetti di ricerca ecc. Nella “lettera dei partecipanti” alla valutazione comparativa si dice che la scelta del vincitore per il concorso di Milano sarebbe stata “compiuta in evidente contrasto con gli stessi criteri di valutazione adottati dalla commissione esaminatrice”, poiché “suffragata dalla ‘intensa e continuativa attività di insegnamento svolta dalla candidata come professore a contratto di letteratura, cultura e lingua tedesca’ presso la stessa università di Milano”. Vorremmo ricordare, a questo proposito, che tra i “criteri di massima per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati” stabiliti dalla commissione nella prima seduta, lo “svolgimento di attività didattica a livello universitario in Italia o all’estero” figura al secondo posto, subito dopo il “possesso del titolo di dottore di ricerca o equivalente, conseguito in Italia o all’estero”.

    Questo criterio di valutazione, che non è stato aggiunto dalla commissione, ma è presente nel modello di verbale fornito dagli uffici e corrisponde quindi al bando di concorso, smentisce oltre ogni dubbio tutti quelli che affermano che la didattica, non essendo la posizione di ricercatore necessariamente legata per legge all’insegnamento, non debba venir presa in considerazione nel giudizio valutativo. Chi afferma una cosa del genere o non conosce la realtà dell’università italiana, oppure è in malafede. Perché noi tutti sappiamo che il ricercatore svolge per legge fino a un massimo di ottanta ore di lezione frontale ed è impegnato negli esami di profitto e nell’assistenza alle tesi triennali e magistrali. Molti corsi, anche fondamentali, sono tenuti ormai da ricercatori non per il tempo di una breve supplenza, ma in via continuativa e per molti anni, a causa della mancanza di professori di ruolo. Proprio la necessità di coprire molte ore di attività didattica ha spinto l’università di Milano a bandire il posto di ricercatore in questione. L’attività didattica svolta dai candidati, spesso a prezzo di grandi sacrifici, data la scarsa remunerazione e i carichi di lavoro talvolta enormi (non solo molte ore di insegnamento frontale, ma anche centinaia di esami e decine di tesi di laurea da seguire), non garantisce soltanto la predisposizione degli stessi all’insegnamento, la loro conoscenza delle metodologie didattiche ecc., ma testimonia anche il loro impegno costante all’interno dell’università. Per tutti questi motivi, siamo convinti che l’attività didattica svolta rientri a pieno titolo tra i criteri di valutazione e vada tenuta in considerazione assieme al dottorato di ricerca, alla partecipazione ai convegni ecc.

    Il giudizio finale espresso dalla commissione rappresenta il risultato di tutte queste complesse valutazioni e considerazioni ed è per questo difficilmente valutabile da chi, dall’esterno, non solo non conosce le discussioni (a volte anche vivaci) che hanno avuto luogo all’interno della commissione, ma non è perfettamente a conoscenza nemmeno di tutte le pubblicazioni e dei titoli dei candidati. Ricordiamo che le commissioni vengono estratte a sorte e che non facendo noi parte né di gruppi di potere né di consorterie di alcun genere, abbiamo espresso il nostro giudizio all’unanimità, secondo coscienza e in piena libertà.

    La protesta dei candidati non ha nulla di “eroico”, perché essi non corrono sicuramente alcun rischio di vendetta più o meno trasversale da parte nostra: simili pratiche non fanno parte del nostro modo di essere e non appartengono nemmeno al nostro vocabolario mentale. Essi sfogano la loro comprensibile frustrazione per la situazione attuale del reclutamento nell’università su una commissione che non è certo all’origine di tale situazione. Se avessimo potuto, avremmo volentieri attribuito più posti, che sarebbero stati sicuramente meritati. Poiché c’era però un solo posto a disposizione, abbiamo dovuto operare una scelta.

    Chiunque ritenesse comunque scorretto l’operato della commissione, può adire alle vie legali e inoltrare un ricorso presso gli organi competenti. Questa, e non la sterile protesta o la delegittimazione delle commissioni giudicatrici, ci sembra l’unica via percorribile.

    Prof. Alessandro Costazza
    Prof. Riccardo Morello
    Prof. Giulio Schiavoni

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