La storia, la Storia

[postfazione a Volker Braun, La storia incompiuta e la sua fine, Milano, Mimesis, 2011]

Matteo Galli

La pubblicazione de La storia incompiuta e la sua fine di Volker Braun segna il tardivo approdo in Italia dell’opera narrativa di un autore fino a un anno fa praticamente inedito nel nostro paese. Dopo una pionieristica edizione fuori commercio delle liriche, pubblicata in italiano nel 1984 da Domenico Mugnolo per i tipi di una piccola casa editrice barese (la raccolta in origine doveva uscire da Einaudi…), nel 2009, presso Donzelli, ha visto la luce la prima compiuta silloge della produzione poetica dell’autore, a cura della massima esperta italiana di lirica tedesca contemporanea, Anna Chiarloni, e del poeta Giorgio Luzzi. Ma del Braun scrittore di prosa, come detto, fino a oggi non vi era nessuna traccia in Italia, malgrado, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ʼ70, l’editoria italiana abbia rivolto un marcato e costante interesse alla letteratura proveniente dalla Rdt, soprattutto agli autori di prosa.

Una delle ragioni dell’assenza di Braun dal panorama editoriale italiano potrebbe forse risiedere nel suo eclettismo formale: oltreché valente saggista, Braun è lirico, drammaturgo, e, solo a partire dagli anni ʼ70, anche autore di prosa. Per ciascuno di questi generi letterari, in Italia, si è assistito alla pubblicazione di un significativo gruppo di autori, guidati da una figura-egemone (Christa Wolf per la prosa, Heiner Müller per il teatro, Wolf Biermann per la lirica), cui vennero ad affiancarsi, in primo luogo, autori “minori”, secondariamente testi di autori che avevano lasciato il paese trasferendosi nella Rft e convogliando sulla propria persona e sulle proprie opere un largo interesse mediatico, pensiamo a Gli anni meravigliosi (1976) di Reiner Kunze o a Tentativi di avvicinamento (1977) di Hans Joachim Schädlich, non a caso pubblicati quasi subito in italiano (rispettivamente nel 1978 e nel 1980) o, infine, autori di singole opere “scandalo”, pensiamo a I nuovi dolori del giovane W. di Ulrich Plenzdorf (sia l’edizione originale che la traduzione italiana pubblicate nel 1973), o Jakob il bugiardo di Jurek Becker (ed. orig. 1969; trad. it. 1976) ma anche a Ciao bella di Maxie Wander (ed. orig. 1977; trad. it. 1980). Braun non poteva vantare alcun ruolo egemonico, non lasciò la Rdt, mantenendo fino al 1989 una posizione di vigilanza critica nei confronti delle aberrazioni del sistema, né aveva scritto la singola opera “scandalo” con cui “sfondare” nel mercato editoriale italiano. Ne siamo certi?

Forse l’opera scandalo con cui fare breccia ci sarebbe anche stata, quell’opera si chiamava Storia incompiuta, il testo che costituisce l’ossatura del presente volume. Perché opera “scandalo”? Come già nel 1973 I nuovi dolori di Plenzdorf, anche la Storia incompiuta esce in prima battuta su “Sinn und Form”, una delle riviste più aperte e autorevoli del panorama letterario tedesco orientale. Ma come spesso accadeva nella Rdt la pubblicazione
avviene in modo un po’ clandestino e dissimulato, basti dire che il fascicolo è quasi tutto dedicato alla poesia armena. Il testo, in realtà, sarebbe stato pronto già alla fi ne del 1973, ma allorché lo scrittore lo invia alla rivista, la redazione di “Sinn und Form” lo rifiuta. Quando, all’incirca sei mesi dopo, Braun incontra casualmente Wilhelm Girnus, il caporedattore di “Sinn und Form”, lo scrittore viene invitato – con sua grande sorpresa – a rispedire il testo. Stavolta gli viene significato che la redazione è sì disposta a pubblicare il racconto a condizione che egli intraprenda alcune correzioni formali: le parole in stampatello maiuscolo vanno trasformate in corsivo, quelle in corsivo devono essere in tondo. Braun acconsente e in effetti la Storia incompiuta esce in maggio. E il fascicolo che la contiene va a ruba.

Curiosamente non prima della pubblicazione, bensì dopo, si mette in moto la macchina del partito che nel dicembre del 1975 convoca Volker Braun; la quasi contemporanea pubblicazione del racconto su “Sinn und Form” e di una poesia, forse ancor più critica, su una rivista monacense stanno trasformando lo scrittore in un caso degno di ulteriori approfondimenti e, se possibile, di dissuasione. Braun è pronto ad ammettere i difetti della poesia, stroncata un po’ da tutti (a cominciare dalla veterana dell’Unione Scrittori, Anna Seghers), dichiarandosi disposto a rimaneggiarla pesantemente, ma sulla Storia incompiuta non ritratta. La discussione sarebbe, per così dire, finita in pareggio, se ulteriori indagini del partito non avessero rivelato ciò che, stranamente a più di sei mesi di distanza dalla pubblicazione, non era ancora saltato fuori, ossia che la vicenda che stava alla base del testo di Braun era realmente accaduta a Magdeburgo.

Una vicenda così riassumibile: la figlia (nella finzione denominata Karin) di un dirigente del partito viene invitata dal padre a interrompere la relazione con il proprio compagno (Frank, nella “versione” di Braun), un tecnico telefonico con trascorsi da teppista, in odore di dissidenza (e di possibile fuga dal paese). Ciò mette in moto una catena di reazioni che vanno dalla ribellione della figlia, alla sua gravidanza, al tentativo di suicidio del ragazzo. Al partito non interessa quale sia il destino umano dei protagonisti della vicenda, quali siano le cicatrici lasciate dall’accaduto, l’unica persona che interessa al partito è il cronista di questa potenziale tragedia, cioè Volker Braun, cui viene rimproverato un atteggiamento negativo nei confronti della Rdt: critica all’ingerenza della sfera pubblica nella sfera privata, critica alle condizioni abitative nel paese, critica allo stato di degrado ecologico, critica all’urbanizzazione selvaggia, avallo di atteggiamenti polemici e/o apolitici da parte di cittadini della Rdt (si veda il caso dei genitori di Frank). Restava oltre tutto la questione da dove Braun avesse preso le informazioni che poi aveva rielaborato nella Storia incompiuta, ma per il momento non era questo il problema prioritario. Prioritario era da un lato avviare un confronto con Volker Braun in merito alle sue presunte aberrazioni ideologiche e, dall’altro, fare in modo che la pubblicazione in rivista rimanesse un fatto isolato e che il testo non giungesse nelle librerie, cioè non venisse edito in forma di libro. Riguardo al primo aspetto, già nel gennaio del 1976 lo scrittore viene convocato una seconda volta al cospetto di una nutrita delegazione del Comitato Centrale: “La storia [la Storia incompiuta M. G.] è l’espressione letteraria dell’errata idea di socialismo propugnata da Volker Braun”, troviamo scritto, senza mezzi termini, nel verbale dell’incontro, dove, in modo altrettanto esplicito, si rimarca il grande plauso riscosso dal testo presso gli scrittori colleghi di Braun, esprimendo altresì la preoccupazione che nella Rdt la sfera letteraria divenga il luogo dove sia consentito esprimere il disagio politico, altrimenti taciuto dalla stampa, dalla radio e dalla televisione. Ciò che i funzionari vogliono a tutti i costi evitare è che – come era accaduto solo pochi anni prima con Plenzdorf – si scateni un dibattito pubblico sulla Storia incompiuta, per questo si decide di abbassare i toni della polemica e di limitarsi a una serie di provvedimenti di vario genere: colloqui confidenziali con lo scrittore, promozione (e accelerazione) della pubblicazione (e nel caso di opere teatrali: allestimento) di testi precedenti dell’autore e, infine, addirittura, la concessione di un visto temporaneo per un viaggio a Cuba, un visto, in precedenza, negato.

Ma la cosa che più di ogni altra ai funzionari interessava era la seconda, ossia che il testo non giungesse nelle librerie; a nulla servono le proteste di Braun che cerca di argomentare con gli apprezzamenti ottenuti presso colleghi del calibro di Christa Wolf e Franz Fühmann o anche presso ambienti accademici, a nulla serve anche la sua disponibilità a rimaneggiare il testo in vista della pubblicazione in libro, la direttrice della sezione culturale del Comitato Centrale Ursula Ragwitz resta irremovibile: “Replicai che non credevo che fosse possibile ‘migliorare’ la storia con piccole correzioni, ma che si trattasse di modificare in modo radicale le proprie posizioni e il proprio atteggiamento”. Pur lasciando spazio, secondo Ragwitz, a ulteriori sforzi di mediazione, l’incontro con Braun non produce i risultati auspicati e una decisione in merito viene rimandata. In occasione del successivo incontro alcuni mesi dopo, ottobre 1976, l’agenda è in parte cambiata, nel frattempo è scoppiato il caso Reiner Kunze con la pubblicazione degli Anni meravigliosi nella Rft e la sua successiva espulsione dall’Associazione scrittori, la linea del partito si è tuttavia ammorbidita, forse anche per non inasprire ulteriormente i conflitti con Braun, avvertito come fondamentalmente fedele al socialismo e allo Stato, si è disposti ad acconsentire alla pubblicazione della Storia incompiuta a condizione che l’autore rimetta mano al testo, in particolare alla lunga sequenza del sogno, il sogno di Karin nella fabbrica, evocazione di una sorta di comunismo primigenio che intende utopisticamente correggere le aberrazioni del sistema. Difficile dire se la pubblicazione sarebbe davvero andata in porto, perché poco più di un mese dopo scoppia un altro caso, ben più drammatico, quello che conduce alla privazione della cittadinanza ai danni di Wolf Biermann – e Volker Braun figura tra i primi firmatari della petizione con la quale gli scrittori della Rdt pregano il partito di ripensare alla decisione assunta. Fatto sta che il libro in Germania Orientale uscirà soltanto nel 1988, pochi mesi prima della fine di quello Stato. L’unica cosa che Volker Braun riesce a ottenere è la pubblicazione della Storia incompiuta in Germania Federale, potendosi appoggiare su due argomenti forti: l’esistenza documentata di copie pirata della pubblicazione uscita su “Sinn und Form” e l’oggettivo beneficio economico – in valuta pesante – che la Rdt avrebbe ricavato dalla vendita dei diritti ad un editore occidentale, nella fattispecie il prestigiosissimo Suhrkamp che già dal 1966 aveva cominciato a pubblicarne a ovest le opere e che a tutt’oggi è l’editore di Volker Braun. Se la Storia incompiuta non è dunque diventato (anche in Italia) un caso come lo sono stati i Nuovi dolori di Plenzdorf o Biermann, lo si deve certamente da un lato a una precisa strategia di basso profilo adottata dai vertici politico-culturali del partito, ma dall’altro lato al fatto che tutta la vicenda è venuta a cadere proprio nel mezzo fra i casi (politico-)letterari più vistosi degli anni ʼ70, appunto Plenzdorf, Kunze e Biermann.

Storia incompiuta, il titolo scelto da Volker Braun, allude con tutta evidenza a due significati. Da una parte il titolo si riferisce al finale aperto della vicenda. Frank è uscito dal coma e viene dimesso dall’ospedale, Karin lo accoglie all’uscita: “Stettero a lungo abbracciati in mezzo alla strada. I passanti si fermavano. La donna rimase in attesa, agitata, dietro il portone. I due si tenevano aggrappati l’uno all’altro, pallidi. Si guardavano fissi. Furono accompagnati sul marciapiede, la donna si unì a loro. Non si lasciarono. E qui ebbero inizio, mentre questa ancora non era finita, altre storie.” L’autore ha raccontato il momento della crisi, il conflitto, in particolare il conflitto di Karin, dalla cui prospettiva è narrato il testo. Quando il conflitto, o comunque questo primo conflitto appare superato, i due protagonisti vengono congedati, non senza lasciar intuire che dietro le “altre storie” con cui si chiude la vicenda si nascondano altri conflitti che Frank e Karin dovranno tornare ad affrontare. Anzi, tutto lascia pensare che quello appena vissuto sarà solo il primo e il più virulento di una serie di conflitti che la vita le riserverà. Il più virulento perché la Storia incompiuta racconta prima di ogni altra cosa la tormentata e controversa uscita di Karin dallo stato di minorità, niente di meno che l’obiettivo primario indicato da Immanuel Kant nella sua risposta alla domanda “Che cos’è l’illuminismo?”. In uno dei tanti momenti di crisi della vicenda, con la protagonista assediata da una enorme quantità di domande che non trovano risposta, si afferma: “La fiducia nei genitori era stata sconfinata – loro erano qualcosa più che dei genitori, rappresentavano lo Stato. Lo Stato nel quale quasi tutto è un bene o va bene. In cui si può dare retta agli altri, si deve solo dare retta agli altri! Glielo avevano spiegato. Era una bella favola che suonava quasi come un teorema scientifico. E lei poteva crederci, fino a non aver più alcun pensiero in testa.” La storia di Karin rappresenta dunque l’uscita definitiva dal mondo delle favole e la dolorosa conquista dell’emancipazione e della consapevolezza. La particolare complessità di questo processo di emancipazione consiste nel fatto che – come ben si evince dal brano citato – esso è di duplice natura, non solo emancipazione dal mondo dell’infanzia ma soprattutto emancipazione dall’ideologia dello Stato, di cui i genitori sono a tutti gli effetti i vicari.

Il processo di emancipazione di Karin si compie in prevalenza tramite il corpo e con l’ausilio di testi. La presa di coscienza della propria autonomia di soggetto pensante si configura come un atto in primo luogo fisico, è il corpo che – attraversando dolorose fasi di straniamento e di alienazione – acquisisce consapevolezza di sé; il racconto presenta una quantità impressionante di riferimenti al corpo di Karin, autentico campo di battaglia dei conflitti che si disputano nel testo, non soltanto in conseguenza delle trasformazioni indotte dalla gravidanza, la quale, al di là della corrispondenza col dato fattuale nel quale si è imbattuto Volker Braun, sembra promettere un mondo nuovo, incarnazione, Ver-körperung dell’utopia, di cui si dirà fra un attimo.

Ma nell’itinerario di emancipazione di Karin un ruolo decisivo viene svolto dai testi. La Storia incompiuta pullula letteralmente di riferimenti intertestuali: Goethe, Kleist, Büchner, Brecht, Becher, Christa Wolf, Heiner Müller, Plenzdorf, alcuni di natura extradiegetica, “imposti” dal narratore e volti a creare un cortocircuito comunicativo col lettore colto, altri invece disseminati in sede diegetica ad uso diretto della protagonista. Fra i riferimenti del primo tipo basterà segnalare nella prima frase del testo l’esplicito richiamo, fin nella nervatura della sintassi, ai tipici esordi delle novelle kleistiane e, più in generale, l’immediata “evocazione” della Gattung princeps della prosa tedesca, ossia la novella: che cos’altro è l’informazione/non informazione che il padre comunica a Karin nella scena iniziale, se non l’ennesima materializzazione di quell’ “accadimento inaudito” (“unerhörte Begebenheit”) che secondo Goethe costituisce il nucleo forte di ogni novella? Non solo il tema della gravidanza ma il continuo, insistito costeggiare se non la follia, certamente l’astenia e la depressione fanno di Karin una tardiva sorella di Julietta, la protagonista della Marchesa di O. Ancora: quando Karin si trasferisce a M. per lavorare nella redazione del giornale, il narratore commenta: “Karin dimenticò le sue pene, il centro era tutto aperto e ampio, costruito in tutta fretta sopra le macerie; ebbe un moto di allegria. Era arrivata. [Sie kam an]”. Qui Braun – secondo una modalità clamorosamente antifrastica – intende riferirsi alla cosiddetta Ankunftsliteratur, la letteratura dell’approdo, testi scritti nella prima metà degli ʼ60 che raccontavano il processo, a volte tortuoso, di inserimento e integrazione del soggetto (femminile) nella società e, soprattutto, nel mondo lavorativo socialista – si pensi a Ankunft im Alltag (Approdo nella vita quotidiana, 1961) di Brigitte Reimann, ma soprattutto a Der geteilte Himmel (1963), il Cielo diviso di Christa Wolf. Nella Storia incompiuta, la sensazione di allegria provata da Karin, la gioia di essere arrivata, approdata, si riveleranno il frutto di una breve illusione, anzi: le delusioni patite sul posto di lavoro accentueranno ancor più la crisi scaturita dalle “rivelazioni” del padre.

Più significativi, forse, ai fini del processo di emancipazione della protagonista sono invece i riferimenti diegetici. Un significativo intertesto della Storia incompiuta è I nuovi dolori del giovane W. di Plenzdorf e, tramite quest’opera, Die Leiden des jungen Werther (I dolori del giovane Werther, 1774) di Goethe; nel primo Karin si imbatte casualmente (lo trova sulla scrivania del fratello), il secondo lo ha letto a scuola. Ciò che agli occhi di Karin rende interessante e inquietante ad un tempo il romanzo di Goethe (in misura molto maggiore rispetto a quello di Plenzdorf) è detto esplicitamente: “La cosa terribile nel ‘Werther’ era quello squarcio che dilaniava il mondo e lui stesso”. Nel Werther di Goethe Karin trova oggettivata la propria crisi di valori, il proprio “Riß”, il proprio squarcio, un termine chiave, questo, che rimanda con tutta evidenza a Georg Büchner, al “Riß in der Schöpfung” (“lo squarcio nella creazione”) di cui si parla nel terzo atto del Dantons Tod (La Morte di Danton, 1835) o allo “ungeheurer Riß” (“il terribile squarcio”) del mondo che troviamo nel Lenz (1835), un testo al quale la Storia incompiuta è stato più volte accostato. I riferimenti a Goethe e a Büchner finiscono per situare il conflitto di Karin in una sfera che trascende il dato politico, che pure ha svolto la funzione di elemento scatenante: lo squarcio che si è aperto nella vita di Karin non è soltanto la crisi di un soggetto che ha perso le certezze politiche coltivate fino ad allora, la sua posizione certa e indiscutibile all’interno della società, le proprie illusioni, ma è uno squarcio esistenziale, ontologico, le cui conseguenze restano imprevedibili al momento in cui Braun congeda la protagonista, nello spiazzo dinanzi all’ospedale. Merita una breve menzione un ulteriore intertesto, il Philoktet (Filottete, 1968) di Heiner Müller, di cui nel racconto vengono citati pochi versi, con l’esplicita (di nuovo: evidentemente antifrastica) indicazione del fatto che Karin non ne comprenderebbe il senso: “Sono stati dei greci a gettarmi di forza/ Su questa pietra salmastra,/ Una volta ferito combattendo per loro,/ Inservibile ormai per via della ferita./ E c’erano altri greci: non hanno mosso un dito”. È Filottete stesso che parla qui, lamentando il proprio destino di vittima della ragion politica, di vittima della Storia – al lettore viene suggerito di istituire una relazione analogica fra Filottete e Karin.

A proposito di Storia: si diceva che il titolo allude anche a un altro significato. Per capire il quale occorre appunto passare dal piano della storia, nel senso di “story”, al piano della storia nel senso di “history”, ovvero, come si direbbe in italiano, alla Storia con la esse maiuscola (“il terribile vortice della storia”). “Questa storia – è la storia di tutto il paese”, si dice a un certo punto, mettendo in connessione i due significati del termine. La tormentata vicenda di Karin evidenzia il fatto che la Storia non si è affatto compiuta, ossia che la Rdt non rappresenta affatto – come alcuni vorrebbero – l’incarnazione del socialismo auspicato dai padri fondatori e, ancor meno, del comunismo, l’ultimo approdo della Storia, in un’ottica marxista. Il racconto mette il dito nella piaga delle contraddizioni del sistema, in sostanza tutti gli aspetti, elencati poco sopra, che avevano attirato l’attenzione dei vertici politico-culturali del partito, rispetto ai quali il testo propone tuttavia una pervicace adesione a un progetto utopico, secondo quello che resta uno dei cardini principali della visione politica dell’autore, persino all’indomani della caduta del muro e della fi ne della Rdt. Il progetto utopico di Karin (e di Volker Braun) è quasi tutto concentrato nella lunga sequenza onirica: sghignazzo alla Dario Fo, prove di rivoluzione in stile jacquerie, Carnevale con rito sacrificale, trionfo di un’utopia egualitaria, orgia menadica, con l’operaia/tessitrice a menare le danze, a menare le botte, quella stessa operaia che era parsa a Karin un modello da seguire nel corso delle sue prime esperienze in redazione. “La mattina dopo fu a lungo felice, si ricordava di aver scoperto qualcosa d’importante che le sarebbe bastato per tutta la vita. Ma non riusciva a ricordarsi cosa fosse.” Come era accaduto cinquant’anni prima a Hans Castorp, anche Karin, al risveglio, non ricorda più nulla delle illuminazioni che le si sono palesate in sogno, ma l’onirica evocazione dell’Utopia è un punto di non ritorno, un obiettivo verso il quale tendere.

La modalità narrativa scelta da Volker Braun – un laconico narratore cronista che si alterna alla focalizzazione interna su Karin della cui vita interiore apprendiamo tutte le più sconvolgenti oscillazioni – trova la sua più convincente rappresentazione nella straordinaria ricchezza dei diversi registri linguistici presenti nel testo, cui l’autore ha inteso fornire anche un vistoso equivalente grafico, con tutta una serie di parole in stampatello maiuscolo e in corsivo – iperboli ad alto tasso didascalico che, come si diceva, Braun era stato costretto a normalizzare per riuscire a pubblicare il testo su “Sinn und Form”. Di particolare interesse sono le numerose occorrenze dello stampatello maiuscolo: se ne contano in tutto il testo più di cinquanta. È possibile rintracciare alcune tendenze, mi pare tuttavia di poter affermare che non siamo in presenza di un sistema completamente coerente. Vediamone le principali funzioni. Lo stampatello maiuscolo è il mezzo privilegiato, utilizzato da Braun per smascherare lo Herrschaftsdiskurs, la lingua del dominio – sia essa appannaggio dello Stato, dell’istanza genitoriale o delle istituzioni educative – e per evidenziare il pensiero dicotomico che la sottende. L’introiezione da parte di Karin di questo sistema di valori è talmente profonda che lo stampatello maiuscolo assurge altresì a equivalente grafico delle istanze super-egoiche che condizionano l’esistenza della ragazza, malgrado poi esse trovino espressione anche nei – quantitativamente inferiori – passaggi in corsivo. Ma poi è sempre allo stampatello maiuscolo che Braun affida l’esplicitazione di alcuni passaggi nodali del processo di straniamento e di emancipazione vissuto da Karin. Il corsivo, invece, oltre alla funzione appena indicata, riveste anche quella di evidenziare, sotto forma di citazione, alcune sensazioni oppure formulazioni di Karin. Più in generale la scelta di Braun di raccontare gran parte della vicenda dall’ottica di Karin ha comportato l’adozione di una lingua informale ad alto tasso di colloquialità – neanche lontanamente paragonabile, si badi bene, allo slang giovanile trasformato in autentica Kunstsprache adoperato da Plenzdorf nei Nuovi dolori. L’idioletto di Karin, piuttosto, rivela una sistematica, seppur almeno in un primo momento inconsapevole, distanza e differenziazione dagli stilemi dell’ufficialità.

Al testo della Storia incompiuta, nella sua versione pubblicata a ovest nel 1977 e successivamente ristampata, si sono aggiunte due appendici risalenti al 1996 e al 1997, intitolate rispettivamente La fine della storia incompiuta (Das Ende der Unvollendeten Geschichte) e Resta la storia incompiuta. Postilla (Es bleibt die unvollendete Geschichte. Ein Nachtrag). Nella prima appendice, presa visione degli atti della Stasi, Volker Braun ricostruisce alcuni elementi della genesi del testo, svelando ciò che anche per lui, a distanza di vent’anni, fu un’assoluta sorpresa: al momento in cui egli aveva accolto e registrato la confessione di “Karin” (che in realtà si chiamava Martina) costei era una collaboratrice informale (una “IM”) del ministero per la sicurezza dello Stato. Partendo da questo fatto e appoggiandosi sulla citazione di una serie di dati documentali, Volker Braun avvia un’elaborata riflessione poetologica sulle tecniche di interazione fra poesia e verità, fra dato fattuale ed estremizzazione nonché trasformazione della fabula, sulle interrelazioni fra (presunte) vittime e (presunti) carnefici nella sfera pubblica (e in quella “segreta”) della Rdt, sulla fine della storia e sulla fine della Storia. Il culmine di quest’appendice – che testimonia, rispetto al testo principale, di una incomparabilmente maggiore complessità – è proprio l’istituzione di quest’analogia: alla luce di un cursorio esame degli atti, si scopre che la storia di Karin non è più incompiuta e si è trasformata in una squallida vicenda fatta di delazioni, ricatti e spionaggio (apprendiamo che le persone reali, le quali avevano ispirato le figure di Karin e di Frank, erano emigrate a Ovest, probabilmente per svolgere incarichi di spionaggio agli ordini dei servizi segreti orientali); alla luce di un cursorio esame degli eventi del 1989 la Storia si è compiuta, seppur in un senso diametralmente opposto rispetto a quello auspicato da chi aveva creduto nell’Utopia libertaria del comunismo.

Ma già l’anno dopo, nelle due pagine scarse Resta la storia incompiuta. Postilla che chiudono il volume, Braun – autore dialettico se mai ve ne furono – ritratta la chiusa rassegnata e nichilista del testo precedente. Riesaminando con più attenzione gli atti l’autore scopre che Martina (alias Karin) aveva ben presto preso distanza dal Ministero e a Ovest se ne era andata di sua iniziativa, quindi non, come in un primo momento affermato dall’autore, al servizio dello Stato e della Stasi; riesaminando con più attenzione gli atti del divenire storico e ripensando al testo redatto un anno prima, Braun afferma: “L’ho scritto col coraggio e l’audacia di un autore che molla tutto perché solo mettendo in modo radicale la parola fine è possibile trovare un nuovo inizio. Ma sbagliavo da qui a dedurne la nostra assurda esistenza […] proprio i tratti più utopistici del socialismo delle origini poi fallito continuano ad agire come una sfida”. E sulla strada di un’ostinata fedeltà all’Utopia Volker Braun continua a muoversi anche in questi ultimi anni.

Matteo Galli

da: Volker Braun, La storia incompiuta e la sua fine, Milano, Mimesis, pp. 117-126

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