Anni di viaggio – Pietre d’inciampo, un protocollo

Gerd Danigel, Am Rande der Schönhauser, 1980 (via Freitag)

[Wanderjahre – Stolpersteine è uno dei protocolli al maschile raccolti da Christine Müller in Männerprotokolle (Berlin, Buchverlag der Morgen, 1985), qui tradotto per la prima volta. Il punto di vista del ventiquattrenne Jürgen, per quanto parziale (andrebbe infatti considerato insieme alle altre 15 interviste raccolte nel volume), testimonia i problemi e le contraddizioni intrinseci al tentativo di definire un paradigma di maschilità diverso da quello tradizionale. «Non voglio recitare la parte assegnata agli uomini», reclama Jürgen, «Non voglio essere l’uomo forte, il grande vincitore o il conquistatore». Esigenze, queste, attuali anche nell’Italia di oggi, come documentano ad esempio la discussione sviluppata dal gruppo Maschile plurale e il sensibile e intelligente volume di Stefano Ciccone Essere maschi. Tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier 2009). M.S.]

Christine Müller

Jürgen,
ventiquattro anni,
addetto alle pulizie,
celibe, due figli

Nell’appartamento dove vivo adesso non c’è quasi niente di mio. Possiedo solo uno zaino con un po’ di biancheria e qualche libro. Il bisogno di sistemarmi “come si deve” non lo sento proprio. Mi bastano un posto per dormire, una sedia e un tavolo, i libri, la macchina da scrivere e la carta. Il tè e il vino li bevo nella stessa tazza. Non mi serve un bicchiere apposta.

Sono soprattutto le persone o i libri a darmi piacere, non tanto le cose. I libri in fondo sono anche persone, sono scrittori o eroi in cui posso identificarmi. Vivo con loro come con dei parenti stretti o con degli amici fidati che mi accettano e mi danno protezione. Per me i libri sono un aiuto indispensabile per vivere. Sottolineo le parti più importanti e spesso me le trascrivo.

Uso la maggior parte del mio tempo per studiare e per leggere. Lavorare otto-nove ore ogni giorno e non avere tempo per le cose che mi interessano sarebbe un peso insostenibile per me. Vado solo a fare le pulizie per guadagnarmi da vivere. Duecentottanta marchi al mese. Con quelli riesco a stare a galla.

Prima le mie giornate erano interamente occupate dalla scuola, dai compiti, dai seminari, dai pomeriggi coi Pionieri e con la FDJ[1], dai gruppi di lavoro, insomma ero sempre in movimento. E io ero proprio il tipo di bambino che genitori, maestre e insegnanti desiderano. Ero educato e diligente, avevo poche pretese e portavo a casa quasi esclusivamente buoni voti, fino alla maturità. Per fortuna lo studio non mi pesava, così mi restava almeno un po’ di tempo per giocare. Ormai i bambini non hanno quasi più il tempo di essere bambini, i genitori stressati non fanno che caricarli di altro studio e lavori a casa, come se la scuola non fosse un lavoro già di per sé.

Ma neanche gli adulti hanno tempo di essere adulti. Non abbiamo tempo, dicono, ma significa che non hanno la capacità di vedere, di percepire le piccole bellezze quotidiane della vita. Un’alba, per esempio, o i ciuffi di verde tra i muri decrepiti di una vecchia casa, lo sguardo furbetto sul viso di un bambino. Da tempo ormai sono diventati schiavi di abitudini vuote, meccaniche. Si accetta e si tollera solo ciò che ha un risultato tangibile, un’utilità quantificabile o almeno un obiettivo all’apparenza ragionevole. Quando mai c’è tempo per sognare, per cercare, per mettersi in viaggio?

La mia vita è piena di interessi frammentari e di inclinazioni passeggere. Voglio provare tutto almeno una volta, per imparare. Non mi importa se sul momento sono utile a qualcuno. Anche se spero di non far danno a nessuno. Avrò il mio posto nella società anche se non raggiungo la mia quota di produzione seduto a una macchina o a una scrivania. Del resto nemmeno lo so quali siano le mie inclinazioni. Spesso si crede che uno le conosca e basta. Ci si trova di fronte a certe situazioni o a certi avvenimenti e di colpo ci si accorge, a-ha, ecco come stanno le cose. Ecco la mia strada. Io so aspettare. Come il pescatore italiano nella storiella di Böll: «…me ne sto seduto tranquillo al porto e sonnecchio. I miei pesci non scapperanno». Sono molti gli esempi di scrittori o di scienziati che solo a quaranta o a cinquant’anni hanno capito qual era il loro compito. Non è detto che ci si debba arrivare a un’età precisa.

Secondo me molta gente riesce a fare più o meno come si deve il proprio lavoro, o qualunque cosa gli venga richiesta, anche se mentalmente sta tutta da un’altra parte, in un mondo fatto di nostalgia e di sogni perduti. Mio fratello, ad esempio, a volte vorrebbe vivere libero come me. Ha un buon posto da ingegnere, ma la tensione continua e l’obbligo di farsi una posizione lo distruggono. Sono sicuro che un giorno o l’altro diventerà uno di quei tipi che Romain Rolland descrive così: «Molti uomini muoiono a venti o a trent’anni, e quand’anche li superino non sono che l’ombra di se stessi; il resto della vita lo passano a scimmiottarsi in un modo che diventa ogni giorno più meccanico e più finto, ripetendo le cose che facevano, dicevano, pensavano e vivevano quando ancora erano».

Sono quelli che dicono: la scuola è finita, la laurea l’ho presa, moglie, figli e casa ormai ce li ho, sono a posto. Il mio compito è guadagnare dei soldi, provvedere ai bisogni della famiglia e preparare i figli alla vita, ovviamente secondo le mie idee. C’è addirittura chi pensa che sia un male mostrarsi imperfetti o incerti di fronte ai propri figli. Per me è tutto il contrario. Mio figlio deve sapere che anch’io ho i miei dubbi, i miei problemi, le mie paure. Anche perché quando noi adulti facciamo quelli che sanno sempre tutto e non ne sbagliano una non siamo credibili e prima o poi i nostri figli perdono fiducia in noi, perché ci mettono poco a capire che il mondo è tutt’altro che perfetto e che stiamo cercando di dargliela a bere. La delusione allora è enorme. Ma poi, che vorrebbe dire “preparare i figli alla vita”? L’infanzia non è già vita? E che vita, certe volte, per esempio se penso alla mia. È passata tutta tra i litigi e le riconciliazioni dei miei genitori. Mio padre tornava spesso a casa ubriaco e insultava mia madre dandole della poco di buono, della sgualdrina, della puttana. Ovviamente non sapevo cosa significassero quelle parole, ma intuivo che doveva essere qualcosa di brutto, di ingiusto. Per mia madre queste offese, queste torture psicologiche, erano più dure delle botte – che poi si prendeva comunque.

Spesso dopo le loro liti non riuscivo a prendere sonno. Dormivamo tutti nella stessa stanza e mi accorgevo che mio padre “faceva” qualcosa con mia madre, pur non capendo esattamente cosa. Mi veniva da odiare mia madre perché “dopo” ricominciava a volergli bene, nonostante le umiliazioni subite. Stare a tavola era una tortura, con lui. Una volta non eravamo seduti abbastanza composti, un’altra facevamo troppo rumore masticando, una volta tenevamo i gomiti sul tavolo, un’altra non ci eravamo lavati le mani prima di mangiare, e via di questo passo. Non si stancava mai di riprenderci. Il suo sguardo inquisitorio mi confindeva al punto che non potevo fare a meno di sbagliarne una dietro l’altra. Mia madre era così intimorita che neanche lei sapeva come tirarci fuori da quella situazione oppressiva. Se ci provava poteva anche accadere che lui sbattesse il pugno sul tavolo, le urlasse addosso o fracassasse qualcosa contro la parete. A volte non si parlavano per settimane. Questo era quasi peggio, e io non vedevo l’ora di poter scappare dal nonno. Lui aveva sempre tempo per me, non dava mai la precedenza a cose più importanti. Da lui trovavo calore, protezione e fiducia, ed evitavo rimproveri bacchettoni. Per di più il nonno non si è mai immischiato nei litigi dei miei genitori, mettendomi contro mio padre o contro mia madre. Ancora oggi è l’unico della famiglia che se non altro prova a capirmi.

Scappavo continuamente di casa perché avevo capito che questo gettava i miei in preda all’ansia e alla paura, costringendoli a dedicarmi la loro attenzione. Dentro di me speravo che mio padre se ne andasse, che morisse. Pretendeva di decidere cosa dovevo pensare, cosa dovevo fare o non fare. Jürgen, prendimi una birra! Jürgen, vai a svuotare il portacenere! Jürgen fai questo! Jürgen fai quello! Ogni volta che provavo a rispondere erano botte.

Mia madre cercava di compensare gli sfoghi del marito con una bontà esagerata. I miei genitori erano talmente opposti di natura che mia madre diventò per me il simbolo del Bene e mio padre la personificazione del Male.

Per anni questi litigi sono stati celati all’esterno. Se andavamo in vacanza con dei conoscenti o ricevevamo visite, recitavano la sceneggiata della famiglia felice, e questa ipocrisia mi rendeva ancora più insicuro e aggressivo. Avevo pensieri suicidi. Fino alla fine mia madre non ha voluto accettare che i suoi desideri non si fossero realizzati e che l’uomo che aveva sposato per amore potesse essere così odioso. O forse era semplicemente troppo debole per ammettere di fronte alla gente del paese che lei, la figlia dei famosi pasticcieri O., nonostante la dote, l’educazione ricevuta e la casa con tutti i crismi aveva “avuto sfortuna” col suo bel marito? Se noi ragazzi non l’avessimo pressoché costretta al divorzio probabilmente oggi sarebbe ancora lì a farsi mettere in riga da lui. Quando il divorzio finalmente è arrivato, dopo vent’anni, è stata una vera liberazione. In tribunale lui ha negato tutto o ha distorto i fatti. Io sono stato chiamato a deporre in qualità di testimone e ho detto come si comportava a casa e come tormentava mia madre e noi bambini. L’ho sconfitto, e questo è servito a ridarmi la pace. Ancora oggi quando mi capita di imbattermi in obblighi, imposizioni, ingiustizie, subito si riaffaccia l’immagine autoritaria di mio padre e mi sento in dovere di oppormi. Dopo la separazione furono costretti loro malgrado a condividere ancora per qualche tempo l’appartamento. In quel periodo facevo il militare e soffrivo molto al pensiero di non poter aiutare mia madre se lui avesse provato ancora a tiranneggiarla. E ancora di più soffrivo al pensiero che lui potesse farle “cambiare idea”.

Non sono stato bene nell’esercito. Da un lato perché, appena sfuggito all’oppressione di casa mia, ero finito in un’altra. Di nuovo dovevo sottomettermi senza fare obiezioni, sottostare agli ordini e adattarmi. E invece io volevo essere finalmente libero, fare o meno quello che mi andava, dunque l’esercito non era proprio il posto adatto a me.

Inoltre ero molto teso per via di mia madre, perché sapevo che è una donna che non sa stare a lungo da sola. Quando rientrai dal servizio militare si era trovata un altro uomo.

A quarantacinque anni ha capito per la prima volta cosa significa essere rispettata e amata.

Che né lei né il resto della famiglia capiscano il mio attuale stile di vita e non accettino le mie ragioni, guardando le cose dalla sua prospettiva posso anche capirlo, però è una cosa che mi rattrista e inevitabilmente ha reso più freddi i nostri rapporti. Nel loro sistema di valori – lavoro, benessere, riconoscimento sociale – non c’è posto per uno come me, e quindi il loro verdetto è irrevocabile: elemento asociale che sperpera le sue potenzialità e butta via la sua vita. Chiuso, stop, finita lì!

Dopo il servizio militare io e Lars, un mio compagno delle superiori, ci siamo iscritti a pedagogia. Fare gli insegnanti era, diciamo così, il lavoro dei nostri sogni. Ma non per sentirsi parte di una corporazione di privilegiati e ottenere di conseguenza l’ambito riconoscimento sociale, come spesso ancora succede. L’insegnante, cioè l’autorità che viene subito dopo il sindaco, il medico e il prete. No, i nostri ideali erano più alti. Per noi un buon insegnante era qualcuno in grado di capire “la lingua dei bambini”, uno che non ha rifiutato e dimenticato la propria infanzia chiudendola in cantina con il vecchio scatolone dei giocattoli. Non volevo diventare uno di quei saccenti impettiti per i quali l’educazione consiste soprattutto nell’inculcare questa o quella regola. Come la mia vecchia insegnante di tedesco. Lei non voleva “tenerci in pugno”. Chiamava i suoi allievi “i miei bambini”.

Potevo aspettarmelo, però: un tipo scomodo, con opinioni diverse, idee, dubbi, che non si accontenta della routine, non può che diventare la pecora nera del collegio docenti. Cominciano a trasferirlo da una scuola all’altra e la cosa va avanti finché un bel giorno non ce la fa più e decide che preferisce fare il cameriere da qualche parte. O fare le pulizie. Come me. Cerco di rassegnarmi al fatto di non poter lavorare nell’istruzione, anche se penso che ne sarei capace. Mia madre e il suo compagno ovviamente ritengono che l’interruzione degli studi sia solo colpa mia. Tipico caso di visione miope delle cose, non posso dire altro. La fanno semplice, quando mi rinfacciano: se tu avessi detto e fatto tutto quello che ti veniva richiesto, giusto o sbagliato che lo ritenessi, tutto questo non sarebbe successo: non puoi lanciarti a testa bassa contro un muro, devi adeguarti, come tutti! Questa è una cosa che non riesco ad accettare. Può darsi che sia stato cocciuto o poco diplomatico nel discutere con la gente durante gli studi. Ma dovrei accettare un’ingiustizia solo perché mi fa comodo, dire di sì a cose che sono in contrasto con le mie convinzioni e la mia esperienza? Questo continuo mentire a se stessi non è peggio, alla lunga, che essere espulsi dall’università? Ognuno deve valutare le situazioni per conto suo e decidere fin dove arriva la sua capacità di scendere a compromessi. Io ho una posizione critica nei confronti delle scuole troppo rigide e dei metodi didattici autoritari, che costringono i pensieri e le azioni dei bambini in uno schema predefinito e imbrigliano la loro fantasia. E siccome non sono di quelli che scindono le loro opinioni private da quelle pubbliche, non ne ho mai fatto mistero né durante i seminari all’università né alle riunioni della FDJ.

La mia esperienza universitaria non è durata neanche sei mesi, comunque abbastanza per farmi considerare un piantagrane, uno da tenere d’occhio. Le mie uscite avrebbero messo in dubbio la mia capacità di adempiere ai compiti di un insegnante – così si espresse il prorettore durante un colloquio. E non è tutto. Durante le vacanze ci mandarono a dare una mano in un campo estivo per bambini. Il responsabile del campo era uno di questi tipi a cui io sono allergico. Trattava i bambini come se fossero stati in una piazza d’armi invece che in vacanza. Era proibito rimanere nel campo quando il tempo era bello, anche se c’erano molte possibilità di fare attività sportive, era proibito entrare nelle baracche degli altri, era proibito far asciugare i vestiti bagnati alla spalliera del letto, era proibito non partecipare alle serate di ballo per bambini, lasciare qualcosa nel piatto, fare confusione eccetera eccetera. Niente divertimento, mai una parola scherzosa: dovevano regnare l’ordine e la disciplina. La cosa non mi andava e più di una volta ci siamo presi a male parole per questo motivo. Durante una riunione poi è venuta fuori la questione delle sue “passeggiate mattutine” nelle camerate, e io gli ho proibito di farle nel mio gruppo. Questo lo ha fatto uscire di testa e mi ha buttato fuori. Non ne aveva assolutamente il diritto, com’è venuto fuori dopo, perché il mio responsabile disciplinare continuava ad essere l’università. Né io né lui in quel momento eravamo consapevoli dell’abuso, in seguito al quale però si è messa in moto una valanga che alcune settimane dopo mi ha sepolto sotto un provvedimento disciplinare. Aveva scritto all’università una lettera rabbiosa e denigratoria in cui esigeva che mi scusassi con lui. Io mi ero rifiutato. Allora mi ha fatto rapporto e io ho dovuto rendere conto del mio comportamento. Quella lettera conteneva tutto l’odio che aveva accumulato contro di me e io, con i miei argomenti sinceri ed elementari, semplicemente non ero in grado di controbattere. Dopo un’ora di consiglio la commissione disciplinare ha decretato: espulso per un anno. Motivo: ero politicamente e umanamente immaturo per poter educare dei bambini. Mi è stato molto difficile mantenere la calma, non dare a vedere quello che provavo. Come in trance sono tornato allo studentato e ho fatto le valigie.

Dopo questa pietra d’inciampo dell’espulsione, ovvio, ero piuttosto depresso. Da allora ci ho pensato molto e mi sono reso conto di quanto fossi ingenuo. Ero fiducioso e bendisposto verso tutto e tutti soltanto per ingenuità. Mi consolo pensando che oggi sono più consapevole e critico, ho ottenuto molto e molto posso ancora fare, e le cose non starebbero così se avessi continuato a fare il bravo studente. Oggi so che il lavoro dell’insegnante non avrebbe mai potuto realizzarsi come me l’ero immaginato. Ma in quel momento ero ancora convinto che dopo un anno di lavoro avrei ripreso gli studi.

Così mi si è aperto davanti un enorme vuoto. Dovevo trovare un nuovo equilibrio. In momenti del genere, quando sembra di non avere più terra sotto i piedi, i rapporti umani assumono un peso molto maggiore. Possono diventare un’ancora di salvezza o darti il colpo di grazia. Tutti gli amici mi hanno piantato in asso. Ma avevo ancora Annett. Per me è importante sapere che mi capisce e approva le mie scelte.

Mi godo il piacere della protezione, perché so quanto mi ama. E con la certezza che qualcuno mi vuole bene riesco a vivere meglio. Se non fosse così perderei molta della mia sicurezza.

Eppure mi chiedo: perché non la amo più come prima? Di questo non posso che rimproverare me stesso. D’altra parte però non posso neanche impormi qualcosa che non ha riscontro nei miei sentimenti.

All’inizio avevo veramente perso la testa per lei. Amore a prima vista, se esiste. Era seduta di fronte a me sul treno per Dresda e per quattro ore non ho fatto altro che osservarla. Ne ero così attratto che non riuscivo più a concentrarmi sul libro che stavo leggendo. Era la sua grazia spontanea, la bellezza della sua figura, il modo di portare i capelli, il suono della voce? Probabilmente tutto insieme. Mi dipingevo nella fantasia meravigliose immagini di intimità con lei. Quando è scesa, sono sceso anch’io. Ho preso il coraggio a due mani e le ho parlato. Devo aver balbettato così tanto che all’inizio neanche ha capito cosa volevo da lei. A forza di insistere sono riuscito a farmi dare il suo numero. Il lunedì subito dopo le ho telefonato. Mi ha risposto il teatro dell’Opera, cosa che mi ha reso ancora più curioso e insicuro. Quest’insicurezza è durata abbastanza a lungo. Mi sentivo impacciato e aspettavo che fosse lei a darmi un segno, perché avevo la sensazione che i miei tentativi di avvicinarla le dessero fastidio anziché farle piacere. Avevo paura di fare un passo falso e di perderla per la mia stupidità. Voleva venire a letto con me o no? Se sì, da che parte dovevo cominciare? È che io preferisco lasciarmi guidare piuttosto che prendere l’iniziativa. La maggior parte delle donne però aspetta che sia lui a farsi avanti e stanno a vedere che cosa s’inventa. Quando mi accorgo che una donna si aspetta questo da me mi blocco e non riesco più a far niente. Parlando con altri ragazzi, però, sembra che succeda solo a me. A quanto pare a loro basta che una donna si spogli per andarci a letto. Io non potrei mai! Per me ci deve essere di più, del sentimento, un’affinità spirituale. Mi piace essere tenero. Per me non ha senso fare l’amore con una donna solo perché ci si ritrova a letto insieme. Non mi riesce di entrare in intimità così in fretta, perché si arriva troppo presto al punto, al segreto verso cui tendono tutti i pensieri e le energie. Se ne parlo con altri passo per anormale. Un uomo ci mette poco a essere preso per uno smidollato solo perché è sensibile, se oltre a dare tenerezza vuole anche riceverne. Per le ragazze è più facile. Lo spazio che hanno a disposizione per esprimere i loro sentimenti è più grande. Addirittura le si educa a manifestare ciò che provano, ad ammettere le debolezze, perché si ritiene sia giusto così. Quello che in loro è apprezzato, nei ragazzi è malvisto. I ragazzi vengono addestrati fin da piccoli a nascondere il più possibile i loro sentimenti. E questo, una volta inculcato, non cambia. Credo abbia a che vedere con questo il fatto che molti uomini o non vogliono ammettere i loro sentimenti o li reprimono per una vita intera. Io comunque non voglio recitare la parte assegnata agli uomini. Non voglio essere l’uomo forte, il grande vincitore o il conquistatore. Posso sopravvivere al rimprovero che ho ricevuto una volta da una ragazza con cui stavo, per la quale sarei una femminuccia che va a piangere “tra le braccia della mamma”. Con Annett ho discusso di questo mio modo di vedere le cose, e lei mi ha aiutato ad accettarmi.

Che cosa ci trovasse in me, non gliel’ho ancora mai chiesto apertamente. Anche se muoio dalla voglia di saperlo. Viene da una famiglia di intellettuali, ma di mentalità molto ristretta. I suoi genitori avevano enormi aspettative su di lei, e quando Annett è stata ammessa alla Palucca Schule[2] sembravano impazziti dalla soddisfazione. La crescita di Annett procedeva con successo, come si dice, e senza mai una caduta. Era ambiziosissima. All’epoca ammiravo molto la sua autodisciplina: si allenava ogni giorno e si controllava molto nel mangiare. Anche con la febbre faceva i suoi esercizi alla sbarra. Quando ci siamo conosciuti lei era già da alcuni anni all’Opera e aveva qualche illusione di meno. Non so se i suoi genitori le abbiano mai chiesto se era felice. Il mio modo di vivere in ogni caso era molto lontano dal suo. Credo di averla colpita per la spensieratezza con cui me ne andavo a vagabondare qua e là, e per il coraggio di uscire dai binari stabiliti.

Adesso ci conosciamo da due anni e mezzo. Il mio innamoramento ha seguito il classico decorso delle malattie: è arrivato in sei mesi, è durato sei mesi, se n’è andato in sei mesi. E mi chiedo, dev’essere per forza così? Succede anche agli altri? Ma forse è una domanda a cui non c’è risposta, perché molti si ingannano sui propri sentimenti. Non credo a quelli che stanno insieme da dieci anni e dicono che è sempre come il primo giorno. L’amore è qualcosa di mutevole, e secondo me il matrimonio esclude la passione, nel senso più stretto della parola. E sembra essere il caso di molti, altrimenti non andrebbero a cercarsi degli amanti. Non mi piace usare questa parola, perché avere un amante per me vuol dire soltanto che si è assecondato un sentimento sincero. Stando continuamente insieme, occupandosi della casa, dei bambini, andando al lavoro, l’amore poco a poco si sfarina, finché anche l’ultimo briciolo non finisce soffocato dall’odore di pantofole e patate al forno. Probabilmente si può rallentare questo processo, ma è possibile arrestarlo del tutto? In una “relazione” credo che la convivenza possa essere sopportabile, sempre che entrambi siano d’accordo. Le esperienze e le gioie che ne nascono hanno l’effetto di rasserenare e ravvivare il rapporto di coppia, no? Del resto, anche se so bene che è una sciocchezza e che non ne ho alcun diritto, considero Annett una mia proprietà. Un rivale non potrei sopportarlo. Sono scontento solo perché tra noi non è più come prima. Non faccio altro che tormentarmi con questo pensiero, resto con lei o me ne vado? Cosa perderei, cosa me ne verrebbe?

Abitiamo ancora insieme, ma ci vediamo abbastanza di rado. Negli ultimi tempi, quando ci incrociamo, sembriamo due estranei. Ognuno ha la sua stanza in cui rifugiarsi, e una porta dietro cui barricarsi. Al mattino Annett si alza prima di me, perché Martin deve fare colazione. Io di solito dormo fino alle otto e mezza, faccio colazione con latte e cornflakes e poi vado a fare le pulizie in parrocchia[3] o dalla professoressa K. Nel frattempo Annett porta Martin a fare una passeggiata, va a trovare qualche amico, fa qualcosa in casa o legge. Due sere alla settimana faccio il guardiano in piscina e le altre tre sere seguo un corso di francese e italiano. Quando torno a casa lei di solito è già addormentata.

Annett vorrebbe passare più tempo con me, ma per me va bene così. Ho bisogno del mio spazio per poter fare quello che voglio. Stare molto tempo insieme del resto non è più possibile. A volte leggiamo gli stessi libri e ne parliamo. Su molti argomenti e problemi abbiamo le stesse opinioni, soprattutto per quanto riguarda l’educazione dei bambini. Non potrei immaginare di vivere con una donna che ha un figlio da me ma vuole crescerlo in modo diverso da come vorrei io. Annett è una madre fantastica, dolcissima. Dopo nove mesi allatta ancora Martin. Quanti altri bambini hanno una questa fortuna? E nonostante la gravidanza e l’allattamento è ancora bella. Non che lo consideri importante, anzi – ho anche più rispetto per le donne che rinunciano alla propria bellezza per i figli. Se non mi attrae più come prima, non è certo per questo.

Allora bastava uno sguardo, uno sfioramento a provocarci. Ci siamo amati anima e corpo con tutte le forze che avevamo. Ci avevo talmente preso gusto che non riuscivo a staccarmene neanche un’ora, neanche un minuto. Per un bel pezzo ci siamo esplorati in ogni particolare, ma poi l’attrazione è andata sempre più appiattendosi. Tutti i miei desideri si erano realizzati. Potevo averla in qualsiasi momento, il rischio di perderla non esisteva più. Un’estate, tornato da lei dopo quattro settimane passate a fare l’autostop in Bulgaria, ho avvertito di nuovo l’emozione dei primi tempi.

Forse abbiamo ancora qualche possibilità, se riusciamo davvero a parlarne apertamente. Quando ripenso al passato ho la sensazione che dopo quei primi sei mesi in cui praticamente non siamo mai scesi dal letto si sia creato come un vuoto che fino ad ora, per qualche ragione, non siamo riusciti a colmare. Poi è arrivato Martin e tutte le nostre attenzioni si sono concentrate su di lui.

Il periodo della “nostra” gravidanza è stato il più bello. Avevamo letto tutti i libri possibili e immaginabili sulla vita prenatale, sui metodi di parto naturale, sull’educazione, sull’alimentazione, di tutto. Volevamo fare tutto alla perfezione. Io avrei anche voluto assistere alla nascita di Martin, ma all’epoca in quella clinica non lo permettevano ancora. Mentre Annett era in clinica, io ero veramente a pezzi. Un po’ era l’attesa del bambino, un po’ la paura che potesse non essere sano o che succedesse qualcosa ad Annett. Mentre me ne stavo lì in casa volevo averne un po’ anch’io, di doglie, volevo fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di non restarmene lì con le mani in mano. Annett mi ha poi raccontato cosa ha provato quando le hanno posato sul grembo quella creaturina tutta imbrattata di sangue e liquidi. Ancora oggi le invidio questa esperienza.

Nelle prime settimane dopo la nascita di Martin mi sono occupato sempre io della casa, in modo che Annett potesse dedicarsi a lui a tempo pieno. Lo allattava ogni volta che chiedeva la poppata, anche di notte. Dopo un po’ ho cominciato io a dargli il latte tirato, scaldandolo, in modo che almeno ogni tanto Annett potesse dormire tutta una notte. Non volevamo costringerlo, per comodità nostra, a seguire i nostri ritmi; volevamo essere noi a regolarci sui suoi bisogni. Lasciarlo piangere era fuori discussione. Un bambino non piange senza motivo ma perché non si sente bene o perché ha bisogno di qualcosa, sia anche “solo” la vicinanza dei genitori.

Non riesco a fare a meno di chiedermi perché i miei sentimenti nei confronti di Annett si siano così raffreddati, nonostante abbiamo condiviso queste splendide esperienze. Annett dice che mi ama ancora. Anche io le voglio bene, ma in modo diverso, più cameratesco. Chi viene a trovarci non si accorge neanche che tra noi qualcosa non va. Raramente litighiamo sul serio o alziamo la voce. Eppure manca qualcosa. Non so neanche dire cosa. Tutte le cose e le esperienze che prima erano animate dal soffio dell’eccezionalità sono ormai schiacciate dall’abitudine. E anche se non abbiamo smesso di emozionarci sappiamo a malapena cosa l’altro sente e cosa lo tocca.

Se solo lei sapesse quanto mi sento perso a volte. Ma non ha senso farle carico anche delle mie difficoltà. Lei è già molto più debole di me. Quando le si fa un torto lei manda giù, mi si sottomette senza obiezioni. Qualche tempo fa ha detto al mio amico Patric che a volte le sembra di essere uno di quei cani che stanno sempre a uggiolare per un pezzo di pane e ricevono solo pedate. Ma perché a me non lo dice? Io mi aspetto da lei anche resistenze, non sempre solo Va bene e Così sia. Si comporta come se il suo benessere dipendesse solo dalle mie attenzioni. Con i nostri conoscenti invece fa la parte di quella sicura di sé, si vanta di questo e di quello e sbandiera le sue opinioni in modo così affettato da mettermi in imbarazzo.

Probabilmente con una donna non si può parlare come con un amico. Quando c’è di mezzo l’amore entrano sempre in gioco anche la gelosia e il desiderio di possesso e questo basta già a impedire che i partner parlino apertamente di tutto. Si vuole piacere, si scende a compromessi per non ferire l’altro e per non scoprirsi del tutto. E quindi in ultima analisi non resta altro che questo superficiale atteggiamento difensivo.

Quello che mi dice Patric lo prendo in modo molto diverso da quello che dice Annett, perché sono sicuro che non ha altra intenzione se non aiutarmi o farmi una critica sincera. Quando tra me e Patric c’è una divergenza, o addirittura un litigio, ci stiamo male, ma non si rischia di mandare tutto in pezzi da un momento all’altro come potrebbe accadere con Annett. Senza di lui – ci conosciamo dai tempi dalla parrocchia – mi sentirei ancora più perso. In effetti io sono molto prudente nello stringere nuove conoscenze o amicizie. In realtà vorrei legare con altre persone, ma ogni volta mi sorprendo a tirarmi indietro e a guardarle con diffidenza. Eppure ho un gran bisogno di confrontarmi con persone diverse sulle questioni che mi interessano: la politica, la tutela dell’ambiente, i rapporti di coppia eccetera eccetera. Voglio aprirmi e non riesco a farlo. Sono come bloccato. Probabilmente deriva dal fatto che io stesso mi piaccio troppo poco. Ho paura che le persone, notando la mia insicurezza e il mio imbarazzo, mi rifiutino. Per questo rinuncio a stringere le amicizie che vorrei, perché comunque preferisco convivere con l’insicurezza che con un possibile fallimento.

Patric mi ha consigliato di arrivare a un compromesso nella mia relazione con Annett. Dovrei cercare di andare d’accordo con lei evitando il più possibile le tensioni e poco a poco trasformare tutto in un’amicizia. E di fatto già adesso viviamo come fratello e sorella.

Solo che non riesco a immaginarmi come possa funzionare sul lungo periodo. Per me l’amicizia è qualcosa di razionale, mentre l’amore è esclusivamente una questione di cuore. Due faccende molto diverse, insomma. Forse potrebbe aiutarci una separazione provvisoria, in cui ognuno di noi abbia il tempo di pensare un po’ a se stesso? Ma separarmi da Annett vorrebbe dire anche separarmi da Martin, perché è ovvio che il figlio viene affidato alla madre. Lo so perché ho già un altro figlio. Richard, frutto dell’amore di una coppia di sventati in una notte d’estate. A tirarlo su è sua madre, il mio primo grande amore, da sola. Lui sì è un peso sulla coscienza per me, perché con lui sono venuto meno a tutti i doveri che io stesso ritengo  imprescindibili per un padre. Non avendo vissuto da bambino con due genitori che si amavano, mi ero imposto di far meglio con i miei figli. Così sto seduto di fronte alle rovine dei miei ideali e mi tormento di rimproveri. Forse la sto facendo fin troppo drammatica, dato che comunque per un bambino è sempre meglio crescere solo con la madre o solo con il padre, piuttosto che con due genitori che litigano tutto il tempo.

I miei figli, nonostante tutta la gioia che ha portato Martin, mi provocano un senso di insoddisfazione che non riesco a scrollarmi di dosso. Appunto perché riesco solo in parte a ottemperare ai miei doveri di padre e la questione degli alimenti non è stata ancora chiarita. Per ora né Annett né Heike hanno preso nessuna iniziativa riguardo al riconoscimento della paternità e agli alimenti. Io vorrei mettermi d’accordo per arrivare a una soluzione condivisa per la casa e l’educazione dei figli, aggirando le istituzioni deputate. Mi fa così orrore l’atteggiamento burocratico delle autorità. Fanno di tutta l’erba un fascio, l’unica cosa che gli interessa è che la faccenda venga sbrigata in modo pulito. E a questa gente dovrei parlare del mio amore? In fin dei conti Martin l’abbiamo voluto tutti e due.

Con Richard invece non ho contatti. Heike non vuole. Ma credo che soprattutto non lo vogliano i suoi genitori. Probabilmente si vergognano del padre del loro nipotino. Uno sballato che se ne va in giro in sandali, jeans strappati e camicie a righe e non ha nemmeno un lavoro come si deve. Mia madre è venuta a sapere dell’esistenza di Richard grazie ai “cari” vicini. Una volta ero sul punto di parlargliene, ma poi avevo lasciato perdere perché non volevo che si preoccupasse anche di questo. Le do già abbastanza grattacapi io. Prima i miei genitori non si erano mai interessati particolarmente alle mie ragazze, né avevano mai cercato di spiegarmi come funzionano certe cose.

Come avrebbero potuto, del resto: lui prende lei, lei si dà a lui? L’essere nudi e tutto il resto, proibito parlarne. Questa reticenza mi aveva reso molto curioso e ogni volta che potevo guardavo dai buchi della serratura. Mi interessavano soprattutto le donne. Per un sacco di tempo erano state per me creature sconosciute, misteriose. Di loro vorrei sapere tutto, come sono fatte, cosa sentono, cosa pensano. Mi piacciono le ragazze semplici, che non si truccano e vanno in giro senza reggiseno in abiti che si sono cucite da sole. Con le donne, poi, ho più facilità a fare amicizia. Negli uomini ho sempre paura di scoprire la durezza e la violenza di mio padre – tranne in Patric, ovviamente. A causa del “modello” di mio padre anche l’amore ha avuto per molto tempo un retrogusto sgradevole. Era avvelenato dalla violenza e dall’ipocrisia. Probabilmente è da lì che deriva anche il rapporto distaccato che ho col mio corpo. È chiaro che non ho motivo di andar fiero della mia magrezza, ma non ho neanche il culto del fallo, della maschilità vista come potenza. Ad appagarmi sono altre cose, imparare qualcosa di nuovo, poter essere d’aiuto a un’altra persona.

Come è successo qualche tempo fa con la professoressa K. Lei è una studiosa di letteratura. Per caso ci siamo ritrovati a parlare di Camus. Per un periodo mi ero appassionato molto alle sue opere ed ero contento di poter tirar fuori con qualcuno le mie considerazioni. Più tardi mi ha detto che l’avevo portata a riflettere su una certa questione e questo ovviamente mi ha fatto molto piacere. La invidio un po’, perché lei è riuscita a trasformare il suo amore per la letteratura in un mestiere, un mestiere che la soddisfa, a quanto dice, e che le permette anche di vivere bene.

A volte sono un po’ preoccupato per il mio futuro. Per quanto riguarda il mio lavoro ho raggiunto una tale sicurezza che gli sguardi storti e l’incomprensione della gente non mi sfiorano più. Questa attività mi aiuta a non disprezzare e a non squalificare come stupide le persone che hanno lavori cosiddetti di basso profilo.

Quando avremo trovato qualcuno che si occupi di Martin, Annett vorrebbe fare  l’infermiera. Vorrebbe aiutare concretamente altre persone e anche mettersi alla prova in un lavoro diverso. Per ottenere quel posto negli ultimi tempi ci sta mettendo un impegno che mi dà da pensare. Forse indirettamente vuole attribuire a me la responsabilità di aver lasciato l’Opera, nonostante dichiari di continuo che è stata una scelta sua. L’idea di lavorare in ospedale mi sembra buona. Per lo meno è un lavoro sensato, nel quale la dedizione e l’umanità contano qualcosa. Però continuo a chiedermi come pensi di farcela, con le faccende domestiche e con Martin.

I suoi genitori, ovviamente, sono contrari. A nostra insaputa ci hanno segnalato alla polizia come socialmente pericolosi. Evidentemente l’hanno fatto per costringere Annett a liberarsi di me e per costringere me ad abbandonare quella che chiamano una vita da parassita, ma non hanno nessun diritto di farlo. Io continuerò a vivere la mia vita, a imparare il francese e l’italiano e così magari mi troverò un altro lavoro interessante che mi permetta di rimanere fedele a me stesso.

Christine Müller

[da: Christine Müller, Männerprotokolle, Berlin, Buchverlag der Morgen, 1985, pp. 37-55, traduzione di Daria Biagi]



[1]     Acronimo per Freie Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile del Partito di unità socialista della DDR.

[2]     Nota scuola di danza fondata a Dresda nel 1925 dal ballerino e coreografo Gret Palucca.

[3]     Nella DDR la chiesa evangelica, per la sua relativa autonomia, poteva offrire piccole nicchie di lavoro ai margini del sistema controllato dallo Stato. Soprattutto negli anni ‘80 divenne inoltre, com’è noto, uno dei principali luoghi di aggregazione della protesta politica.

 

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