Diario berlinese 23: Pankow

                                                                                                                             Matteo Galli

La prima volta che sono stato a Pankow sarà stato sei o sette anni fa. Avevo appena tradotto “Der Zimmerspringbrunnen” (“Il venditore di fontane”) di Jens Sparschuh. E loro ci invitarono a cena, Jens, con la moglie Vera e le due figlie, Olga, bellissima, e Laura. Sparschuh abita in uno “Altbau” della Eintrachtstraße, a cui ha dedicato anche uno dei suoi deliziosi feuilleton pubblicati nella raccolta “Ich dachte, sie finden uns nicht” (“Pensavo non ci trovassero”). La casa odora di tabacco da pipa, ha un’aria piacevolmente bohémien e la serata fu molto gradevole, persone semplicissime, senza tanti fronzoli e Jens, con quell’aria stralunata, dotato di un’ironia fulminante. Credo di esserci tornato almeno altre due volte in quella casa (una sera ci incontrai Michael Kumpfmüller e Eva Menasse che mi dettero uno strappo verso casa, sotto una pioggia scrosciante), la cui facciata nel frattempo è stata ristrutturata e dove le figlie non abitano più. Già quella prima sera Jens mi raccontò – quel che avrei dovuto già sapere ossia: – che nel quartiere abitavano molti scrittori, fra i più noti Christa Wolf e Volker Braun; a lui capitava spesso, ancora ai tempi della DDR, di contendersi la (poca) migliore frutta e la migliore verdura del mercato rionale con Gerhard Wolf, il marito di Christa, e Annelie Braun, la moglie di Volker. Da non molto ci abita anche Christoph Hein.

Poi a Pankow ci sono tornato l’anno scorso a trovare proprio Volker Braun che abita forse a distanza di 300 metri dalla casa di Sparschuh. Avevo finito di tradurre la “Unvollendete Geschichte” (“Storia incompiuta”) e avevo da sottoporgli un paio di questioni aperte. La casa di Braun è molto più ampia, molto più borghese di quella di Sparschuh, basta vedere come sono ordinati i libri: ammassati dappertutto a casa Sparschuh, perfettamente ordinati negli scaffali a casa Braun. Ci mettemmo a un tavolo a ragionare sulle questioni che gli ponevo, Braun tendeva un po’ a divagare ma fu straordinariamente gentile e ospitale, alla fine mi regalò l’edizione delle sue liriche uscite da Donzelli e curate da Anna Chiarloni e Giorgio Luzzi, il “Machwerk” e un volumetto della “edition Suhrkamp” che contiene il discorso pronunciato per il premio Büchner e un altro saggio büchneriano. Anneli mi fece assaggiare una torta alla ciliegia, l’aveva fatta con le sue mani il giorno prima, le ciliegie erano un po’ aspre ma l’impasto era molto buono. Come a casa Sparschuh, anche qua gentilezza e ospitalità profuse a piene mani; d’accordo ti sono grati perché stai “lavorando” per loro, ma si capisce bene che c’è una disponibilità particolare. Che sia l’aria di Pankow?

Quest’anno a Pankow ci sono tornato due volte e ci tornerò ancora lunedì, quando andrò all’Ufficio Elettorale a prendere i documenti per poter votare dall’Italia con la “Briefwahl” (“voto epistolare”). La prima volta a cena da amici italiani che hanno preso una casa in affitto nella parte nord di Pankow, dove Berlino lentamente digrada verso Blankenfelde – potere della “gentirification” che spinge verso i suburbia chi non può spendere troppo per l’affitto.

La seconda volta ci sono tornato ieri sera. Volevamo festeggiare l’uscita della “Storia incompiuta” con Volker e alla cena si è unito anche Uwe Timm, di ritorno a Berlino. Timm, Braun e consorti. L’appuntamento era in un ristorante all’aperto chiamato “Majakowski” situato nel famoso o famigerato Majakowskiring, la strada semicircolare dove negli anni ’50 – prima di esiliarsi a Wandlitz – abitavano i vertici politici della DDR: Ulbricht, Pieck, Grotewohl, Honecker, Johannes R. Becher. Ma fra gli abitanti illustri della zona c’era anche, fino al 1947, anno della morte, Rudolf Ditzen aka Hans Fallada, ormai alcolizzato e morfinomane, e Becher lo proteggeva; adesso gli hanno dedicato una lapide e una strada che va a finire proprio sul Majakowskiring: il Rudolf-Ditzen-Weg e l’edizione critica di “Jeder stirbt für sich allein”(“Ognuno muore solo”)  è in cima alle vendite, in Germania.

Il ristorante è stato fondato da una coppia di attori nel 1992. Prima qui di ristoranti non ce n’erano, la zona era decisamente off-limits. La strada confinava e confina  con il castello di Schönhausen, un castello barocco, con uno splendido parco, che è uno di quegli edifici tipici di Berlino che trasudano storia da ogni poro: storia prussiana, storia del Nazismo, storia della DDR. Ho attraversato il parco in bicicletta ma dentro il castello non sono mai stato. Sarà per la prossima volta. All’epoca della DDR era la sede del presidente della repubblica, di Wilhelm Pieck, l’equivalente orientale del castello di Bellevue, e infatti, dopo l’Unificazione, quando si è reso necessario il restauro di Bellevue si era pensato di spostare qui temporaneamente il presidente della Germania unita. Poi si è soprasseduto per ragioni di soldi, anche perché pure Schönhausen aveva bisogno di un restyling (però ci hanno lasciato dentro, come era allora, la stanza da lavoro di Pieck). Da Schönhausen sono passati ospiti illustri: Indira Gandhi, Fidel Castro e Gorbaciov. Annelie Braun raccontava ieri sera che durante la visita di Gorbaciov i soldati della sicurezza non volevano farla passare dal Majakowskiring per andare in sauna, dove si era regolarmente prenotata con largo anticipo. Solo grazie alla sua caparbietà alla fine ce l’aveva fatta a convincerli, ma poi la sauna non se l’era per niente goduta.

Abbiamo cenato in giardino infestati dalle temibili zanzare di Pankow e, in parte, dagli aerei che ti passano sopra la testa decollando da (o atterrando verso) Tegel. L’anno prossimo, quando inaugureranno il mega aeroporto ancor più distante di Schönefeld, lo chiuderanno e gli abitanti si sentiranno riavere, penso. La qualità del cibo non mi è parsa memorabile (molto meglio il “Mädchen ohne Abitur”, il genere è lo stesso, lo chiamano: “neu-berliner Küche”, anche se il cuoco, a quanto leggo, è bavarese). Uwe e Volker si conoscono non da molto tempo, si stimano e si stanno simpatici, frequentano regolarmente le due principali accademie tedesche, la “Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung” di Darmstadt e la “Akademie der Künste” di Berlino, della cui sezione letteraria Braun per quattro anni è stato presidente prima di cedere il testimone a Ingo Schulze. Entrambi amano ridere e raccontare e, anche a tavola, ciascuno di loro narra proprio come lo fa sulla pagina scritta: Timm in modo sapido e pastoso, con una marcata accentuazione dell’aspetto sensoriale, fisico; Braun in modo più contorto, franto, sconnesso, verrebbe da dire: brechtiano. Le mogli, due vere compagne di vita; si avverte in entrambi i casi una profonda e reciproca stima intellettuale; del resto una è fra le più note traduttrici tedesche dallo spagnolo e l’altra, germanista e romanista, ha lavorato come formatrice di insegnanti e nell’editoria. Due belle coppie di valorosi settantenni, nulla da dire. I Timm sono andati via presto, dovevano tornare a Friedenau, ci avranno messo non meno di un’ora. Con i Braun siamo rimasti (c’era anche Francesco che fa il dottorato con me e conosce la coppia da più tempo di me) fino alle undici e mezzo a chiacchierare di libri e di politica (bisognerebbe un giorno scrivere sul mito Berlinguer nella politica e nella cultura della sinistra europea, o forse ci ha già pensato qualcuno).

Alla fine Braun mi ha regalato i “Werktage”, il diario di lavoro, 995 pagine, impossibile trasportarlo in bicicletta. Lo abbiamo avvolto in un tovagliolo rubato e in carta stagnola, poi Francesco lo ha caricato nel cestino della sua bici.

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