Diario berlinese 21: Kleist-Jahr

Matteo Galli

Confesso che ignoravo la storia dello “Ephraim Palais”, me la sono letta su Wikipedia: palazzo di rappresentanza di un banchiere ebreo, il principale finanziatore delle campagne belliche di Federico II, passa in mani pubbliche verso metà ‘800, albergando per qualche tempo persino l’Ufficio Anagrafe, per quindi subire danni in seguito all’ampliamento della carreggiata del Mühlendamm dapprima e alla costruzione di un ponte in seguito, siamo già in epoca nazista, alla fine il palazzo viene proprio demolito. La facciata e altre parti dell’edificio finiscono a Berlino Ovest, in uno scantinato di Wedding. Addirittura per un certo periodo si gioca con l’idea di ricostruirlo in un altro luogo, di farne un Museo Ebraico, proprio dalle parti di quello che oggi è il Museo Ebraico di Liebeskind. Poi si pensa di soprassedere, soprattutto per ragioni di soldi. Sta per arrivare il 1987, 750esimo anniversario della fondazione di Berlino e, nel quadro della ristrutturazione del Nikolaiviertel, a Berlino est si decide di procedere alla riedificazione del palazzo, Berlino Ovest mette a disposizione i pezzi. Prove di disgelo. E puntuale per l’anniversario ecco il palazzo tirato a lucido, per i miei gusti troppo a lucido, il Nikolaiviertel a me è sempre parso un enorme fake. Adesso l’edificio “rococò” è sotto la tutela dei Beni Architettonici, “denkmalgeschützt”, e fa parte del sistema museale cittadino, sede di mostre temporanee.

E’ qui che è stata sistemata la grande mostra su Heinrich von Kleist, frutto di una cooperazione tra Berlino e Francoforte sull’Oder dove ha sede il Kleist-Museum, diretto dal figlio dello scrittore Günter de Bruyn. L’esposizione è solo una delle numerosissime iniziative per il bicentenario della morte di Kleist – un articolato panorama lo fornisce il sito apposito: http://www.heinrich-von-kleist.org/kleist-jahr-2011/. A Berlino, in novembre, il Gorki Theater presenterà nell’arco di tre settimane tutto il Kleist drammaturgo. Nell’anno in cui sono stato a Berlino lì vidi un “Anfitrione”, molto divertente (e un’ ottima “Brocca rotta” al BE, con la regia molto molto classica di Peter Stein e un sensazionale Brandauer nella parte del giudice Adam; e “Il Principe di Homburg”al Deutsches Theater con la regia di Andreas Kriegenburg, che non mi è rimasto particolarmente in testa, vedo nel sito del DT che è già uscito dal repertorio). In quasi tutti i paesi europei ci sarà un convegno kleistiano. In Italia ce ne sarà uno a Udine, dove Cesare Lievi metterà in scena “Il principe di Homburg”. In autunno, poi, uscirà anche un Meridiano, curato da Stefania Sbarra.

La mostra, intanto. Le mostre letterarie corrono sempre due rischi, contrapposti: noia mortale data la scarsezza e lo scarso appeal degli “Exponate” oppure campo aperto alle libere associazioni, all’arbitrio dei curatori, voglia di stupire tramite installazioni fighette. Diciamo che in questo caso sul primo fronte è andata abbastanza bene, salvo forse dei pannelli illustrativi un po’ logorroici e non privi qua e là di qualche erroraccio (l’Università di Francoforte sull’Oder chiamata Viadriana invece che Viadrina, “grazie” come equivalente italiano del latino “gratia” etc.). Sul secondo fronte i curatori si sono veramente dati da fare e il risultato a me è piaciuto, malgrado l’insopportabile gergo pseudo kulturwissenschaftlich in cui si espongono i (cinque) principi espositivi che stanno alla base della mostra; si veda questo esempio, al limite dell’intraducibile: “Jedes Diskursexperiment wird in einem Raumbild aufgeführt, einer Bühne, die im Kontrast zum strengen Exponatarrangements in den Vitrinen freie Ausdrucksformen der Raumbildung und der Medieninszenierung sucht. Diese Inszenierungen schlagen häufig eine Brücke in gegenwärtige Lebens- und Medienwelten und spannen den Bogen von Kleists Umbruchs- und Krisenzeit zu unserer heutigen Krisen- und Risikogesellschaft” (“Ogni esperimento discorsivo viene messo in scena in un quadro spaziale, uno spazio scenico che a contrasto col severo arangiamento espositivo all’interno della vetrine cerca nuove forme espressive nella creazione dello spazio e dell’allestimento mediatico. Questi allestimenti spesso creano un ponte fra l’epoca kleistiana segnata da trasformazione e crisi e l’odierna società della crisi e del rischio”). Ma vi pare?

La mostra è alla fine nettamente migliore di chi l’ha teorizzata. Ecco le tre sale che mi sono piaciute di più: una sala con una montagna di libri bianchi, la prima pagina soltanto coperta di caratteri ad illustrare il Kleist “Briefschreiber”, scrittore di lettere; una sala con scaffali pieni di pratiche e una voce che sussurra per il Kleist che cerca riparo alle lacerazioni della propria psiche nella burocrazia prussiana; la sala dell’ultimo piano con gli annunci mortuari di una serie impressionante di scrittori morti suicidi: da Kleist, appunto, fino ad arrivare a David Foster Wallace. Meno convincente la sala dedicata al saggio sulle marionette, qui una telecamera vuole testare la “Anmut” del visitatore che sa di essere guardato, spiato. O altre ancora che giocano con un’accezione meramente suggestiva di multimedialità: una stanza con le figure femminili, reali o fictional, della vita e dell’opera di Kleist in abiti d’epoca, ci passi davanti e si animano recitando brani del personaggi o frammenti di lettere scritte all’autore, un collage di citazioni e immagini filmiche tratte dal Kohlhaas.

Al termine della mostra resta, inevitabile, il quesito sul target di esposizioni siffatte e sulla loro funzione educativa. Chi conosce già abbastanza informazioni sullo scrittore che cosa apprende di nuovo? Poco o niente. Chi invece sa poco o nulla (mio figlio, per esempio; sa solo che è un importante autore tedesco, perché in luglio mi ha aiutato a rimettere a posto la biblioteca e me l’ha schedata tutta col geniale Bookpedia, metti il libro davanti alla telecamera del MAC e lui riconosce l’ISBN), ne esce tutto sommato piuttosto disorientato.

Matteo Galli

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