Diario berlinese 20: Thalheim

Matteo Galli

Robert Thalheim in Italia è sconosciuto, forse è giusto così. E’ nato a Berlino Ovest nel 1974, ma ha studiato regia a Potsdam alla HFF “Konrad Wolf”, il suo mentore: Rosa von Praunheim, una vecchia gloria del cinema off tedesco. Finora ha girato tre film. Il primo, del 2005, s’intitolava “Netto”, un “Wendefilm” da manuale, una coppia orientale si separa: lui, il classico loser, alcolizzato, lei bravissima a riposizionarsi nel nuovo contesto e a legarsi ad un nuovo compagno occidentale, vincente. In ballo c’è l’affetto del figlio. E la storia racconta il tentativo del padre (interpretato dall’eccellente Milan Peschel, un attore storico della “Volksbühne” e del “Gorki”, i due teatri che anche dopo il 1990 mantengono una spiccata fisionomia orientale) di riconquistare credibilità e rispetto presso il figlio. La vicenda è tutta ambientata a poche centinaia di metri da qua, il padre, che sogna di metter su una ditta di vigilantes, gestisce un negozio di hardware usato sulla Eberswalderstraße, a due passi dalla stazione della sopraelevata del film di Klein e Kohlhaase. Un film scanzonato, divertente, con qualche idea carina, tipo quella di recuperare Peter Tschernig, il Johnny Cash della DDR, di cui il protagonista era una grande fan. “Netto” ha raccolto un bel po’ di premi, e li meritava.

Il secondo film di Thalheim esce due anni dopo nel 2007 e ha anche una maggiore circolazione internazionale; s’intitola “Am Ende kommen Touristen” (“Alla fine arrivano i turisti”), in realtà sarebbe il suo primo film, o comunque il film con cui si è diplomato a Potsdam. Un film ambientato niente meno che a Auschwitz dove il regista ha prestato il proprio servizio civile, come anche il protagonista del suo film sospeso fra la propria missione sociale, il complicato rapporto con un burbero sopravvissuto e una storia d’amore con una giovane interprete polacca. Il film è molto corretto, qua e là un po’ faticoso, ripetitivo nella sua struttura a “Kammerspiel”; Thalheim ha dichiarato che il suo modello era “Hiroshima mon amour” di Resnais. Ce ne corre.

Dopo quattro anni, lunedì sera, al Filmtheater a Friedrichshain è stato presentato in anteprima il suo ultimo film, intitolato “Westwind” (“Vento dell’ovest”). Come il secondo film anche questo è basato su una vicenda realmente accaduta, stavolta non al regista ma alla produttrice. Anno 1988: due gemelle, future promesse del canottaggio agonistico DDR, vanno a fare un campo scuola in Ungheria, sul Balaton, per poi essere a tutti gli effetti assunte in Nazionale, e qui conoscono due giovanotti amburghesi, con cui ha inizio una relazione clandestina, fortemente osteggiata dai responsabili del campo. Le strade delle due gemelle fin qui unite e solidali si separano perché una si innamora e l’altra no, una decide di fuggire all’ovest e l’altra no. E infatti con strazio si separano. La separazione, contrariamente alle attese, durerà un anno soltanto perché poi cade il muro. E’ quella che si definisce una storia di “coming of age”, di adolescenti, le prime esperienze lontano da casa, i primi amori, falò sulla spiaggia, chitarra, tutto abbastanza già visto, tutto però all’insegna del pathos della cortina di ferro, che qui è proprio di ferro, la recinzione del campo, magari più facile da scavalcare di quella che separava l’est dall’ovest, anche se non meno simbolica. Un dignitoso, onesto mélo (Thalheim in tutti e tre i film tende al mélo), senza grandissima originalità, se non per il fatto che l’impossibilità dell’amore stavolta non è data dalla differenza di ceto, dal matrimonio già contratto dagli amanti o da altre cause, ma dalla Storia, cui viene comunque ad aggiungersi, come si conviene ad ogni mélo, il conflitto fra due diversi amori, qui la sorella fuggiasca, che lascerà clandestinamente chiusa nel bagagliaio l’Ungheria per approdare a Ovest, vive sospesa fra l’amore per il ragazzo amburghese e quello per la sorella gemella. Pur non privo di buoni dialoghi, il film è abbastanza ricco di cliché: soprattutto i ragazzi occidentali sono talmente insopportabili che pare davvero improbabile che anche una ragazza sprovveduta come la canottiera olimpionica in spe possa sentirsene attratta.

Prodotto, fra gli altri, dalla ZDF, il film dura i classici 90 minuti di “Das kleine Fernsehspiel” (la storica serie del secondo canale tedesco che in passato è stato un territorio di sperimentazione cinematografica). Da un po’ di anni a questa parte non è più così; la ZDF – al pari degli altri canali televisivi – non è più un terreno di promozione di nuovi talenti ma un grande luogo di normalizzazione estetica, di omologazione, il gradiente di autorialità di Thalheim, dopo i primi due film, mi pareva più alto, qui, decisamente un po’ meno. Ennesimo film con protagonisti DDR girato da un regista occidentale “Westwind” è un prodotto dignitosamente mediocre come molto cinema tedesco di questi anni, non a caso – salvo a Berlino – quasi completamente assente dalle sezioni principali dei principali festival: niente Cannes, niente Venezia. Sarebbe interessante trovare una specie di equivalente nel cinema italiano: forse Muccino, forse Verdone, no, via così male non è, diciamo Mazzacurati – quel che alla fine salva Thalheim è il fatto che la sua vicenda ha comunque un ancoraggio politico-sociale un po’ più solido rispetto alle vicende minimali e privatissime di tanto cinema italiano. Alla fine della proiezione tutta la troupe sul palcoscenico, compresa la sorella gemella della produttrice, emigrata a ovest per amore. Dopo tre anni, però, la storia era finita, col ragazzo amburghese si sono persi di vista.

Oggi il cinema (la TV, il teatro, il fumetto) tedesco ha perso un grande protagonista, a 88 anni è morto Vicco von Bülow, alias Loriot, forse il più grande umorista tedesco, in Italia non lo conosce nessuno, un libro di fumetti è appena uscito da Donzelli.

Matteo Galli

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