Diario berlinese 17: Marienfelde

Matteo Galli

Che Berlino sia una città sconfinata si sa; si tende ogni tanto a dimenticarlo, facendo vita di quartiere, anche se in realtà in questi giorni sono costantemente in giro in bicicletta e macino una valanga di chilometri al giorno. Oggi le dimensioni della città ho potuto toccarle con mano perché da Prenzlauer Berg sono andato a Marienfelde, dove non ero letteralmente mai stato. Da Alexanderplatz si piega verso Kreuzberg, all’altezza di Mehringdamm si gira a sinistra verso sud e da lì si va avanti, avanti, avanti, attraverso la zona meridionale di Kreuzberg, poi Tempelhof, costeggiando l’area del vecchio aeroporto, si passa tutta Tempelhof che non è neanche quella tanto minuscola, e poi dopo un’oretta buona si arriva a Marienfelde, dove le strade cominciano a ri-chiamarsi con i nomi che si incontrano nel centro di Berlino: Kurfürstenstraße, Großbeerenstraße, una specialità di questa città che ci siano nomi di strade ripetute non si sa quante volte, segno di una sorta di ineliminabile autarchia di una metropoli che mantiene la propria struttura di quartieri agglutinati. Da Prenzlauer Berg sono sedici chilometri, da casa mia a Firenze sarei già in Chianti oppure in Mugello, in bicicletta farei molta più fatica, perché qui, a parte l’ascesa verso il “Platz der Luftbrücke”, è tutto piatto.

La ragione dell’escursione a Marienfelde era la visita ad una “Erinnerungsstätte” (un luogo di memoria) che non avevo mai visitato, la “Erinnerungsstätte Notaufnahmelager Marienfelde” (“luogo di memoria: campo di accoglienza di Marienfelde”), il più famoso e capiente campo di accoglienza che ospitava i molti cittadini della DDR che – prima della costruzione del muro – erano scappati a Ovest e – dopo la costruzione – quei pochi che avevano ricevuto, magari dopo lunga attesa, il permesso di espatrio. A partire dal 1964 il campo divenne luogo di accoglienza anche di cittadini polacchi e provenienti dall’URSS, in particolare i cosiddetti “Aussiedler”, i cittadini con antenati tedeschi. Detestato dalla STASI come luogo dove gli espatriati raccontavano senza mezzi termini tutto ciò che in DDR non andava, Marienfelde era invece – soprattutto prima del 1961 ma anche dopo – una tappa obbligata dei politici occidentali che volevano vistosamente mostrare la propria solidarietà ai cittadini provenienti dalla parte più “sfortunata” della Germania.

Attivo dal 1953 al 1990 per i profughi dall’Europa Orientale, il campo è tornato di recente a diventare un centro di transito per profughi che hanno chiesto asilo politico. L’area dove un tempo c’erano le case – abitate talvolta anche per mesi e mesi, in attesa che la complicatissima procedura di accoglimento si concludesse – non è aperto al pubblico. Quel che il visitatore (gratuitamente) può vedere è un percorso museale molto ben fatto, ricco di informazioni, testimonianze e oggetti, volti a ricostruire con una certa qual imparzialità e rigore scientifico le ragioni che inducevano i cittadini orientali a lasciare la DDR senza peraltro tralasciare la menzione di quei cittadini che da ovest vollero per ragioni ideologiche trasferirsi nella Repubblica Democratica. Interessanti sono, oltre alle testimonianze audio e video di chi ha trascorso del tempo a Marienfelde anche i documenti ufficiali, un interessante spaccato di guerra fredda, a colpi di carta stampata, televisione, cinegiornali: per esempio, il “Neues Deutschland” pubblica una lista di profughi che vogliono tornarsene in DDR, adducendone brevemente i motivi, e la ZDF va a intervistare proprio quei presunti “pentiti” i quali smentiscono le informazioni riportate.

Le fasi della procedura di accoglienza – 12 in tutto – non possono che risultare agghiaccianti nel loro terrificante rigore e va detto che l’esposizione le rende ancor più agghiaccianti raffigurandole come porte, che in un qualche momento potrebbero anche non aprirsi. Al piano di sopra, poi, sono stati ricostruiti gli ambienti in cui vivevano i profughi: le camere con i letti a castello, la cucina, il soggiorno comune. Gli ambienti sono volutamente molto tristi e spogli, com’erano allora e come forse sono ancora adesso per i profughi che ancora alloggiano in quell’area. A un certo punto sono usciti dall’area off limits per i visitatori tre bambini, probabilmente anch’essi dell’Est Europa, con le loro biciclette. La mostra è fatta molto bene. Se ripenso alle associazioni che ho avuto durante la visita, associazioni con luoghi da me visitati in passato, al primo posto viene sicuramente Ellis Island, anche se lì le dimensioni erano enormemente maggiori, al secondo – per la presenza inquietante degli oggetti oltreché per la perfetta macchina burocratica che mandava avanti il campo, quasi mi vergogno a dirlo – Auschwitz.

In realtà, almeno in parte, questo campo lo conoscevo già; è qui che si svolge “Lagerfeuer”, il bel romanzo di Julia Franck, tradotto da Roberta Bergamaschi, in italiano si intitola “Il muro intorno”.

Per tornare, complice anche una giornata insopportabilmente afosa, abbiamo caricato le bici sulla S-Bahn.

Matteo Galli

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