Diario berlinese 11: Storyboards & Kertesz

Matteo Galli

Torno su quanto ho scritto ieri a proposito di Berlino e il turismo. Ho fatto un giro virtuale sulle mostre che è possibile visitare nelle grandi capitali europee nel periodo delle grandi ferie. A Madrid, al Prado, c’è una grande mostra sul paesaggio a Roma, ad Amsterdam, al Rjiksmuseum, ce n’è una su Rembrandt e Degas, a Londra pale d’altare italiane alla National Gallery e Mirò alla Tate, a Vienna una mostra su Hans Makart. E a Berlino?Al Martin Gropius Bau il corpo centrale dell’edificio, che nel 2009 ha ospitato la grande mostra sul Bauhaus, appare adesso desolatamente vuoto, alla “Gemäldegalerie” sono esposti disegnatori fiorentini del ‘500, al “Pergamon” c’è una mostra sulle feste islamiche alla corte indiana, allo “Hamburger Bahnhof”, per lo meno, si documentano le nuove tendenze dell’arte contemporanea con due mostre una su Horst Ademeit e una su Cory Arcangel, a me sconosciuti, ma forse da non trascurare. Bisogna aspettare ancora dieci giorni per assistere ad una mostra-evento, perché il 25 agosto al Bodemuseum verrà inaugurata quella che si annuncia come l’esposizione più importante dei prossimi mesi a Berlino: “Gesichter der Renaissance. Meisterwerke italienischer Portrait-Kunst” (“Volti del Rinascimento. Capolavori della ritrattistica italiana”) nel corso della quale – seppur non per tutto il periodo di durata – sarà possibile ammirare la “Dama con l’ermellino” di Leonardo da Vinci, in prestito da Cracovia – frutto di una complicatissima trattativa cultural-diplomatica che ha visto coinvolta anche Angela Merkel.

Fino ad allora non c’è moltissimo altro in giro. Da quando sono qua ho visto tre mostre, quella sul muro fotografato da est, di cui ho già parlato. E poi altre due: una di André Kertesz, di cui facevo cenno ieri, approdata a Berlino dopo un primo passaggio a Parigi, al Jeu de Paume. E un’altra al museo del cinema di Potsdamer Platz dedicata agli storyboards, che sono – per chi non lo sapesse – dei disegni, talora anche molto ambiziosi, che prefigurano le inquadrature di un film, una mostra che si intitola appunto: “Storyboards von Hitchcock bis Spielberg”, ma che in realtà parte dalle origini, alcuni pochi esempi del cinema muto ma soprattutto Disney che è da considerarsi l’inventore di questo “genere” artigianale e/o artistico. La mostra mette a confronto le tavole che riproducono, in sequenza, le inquadrature e i movimenti della macchina da presa e la successiva realizzazione cinematografica, il prodotto finito. Pur facendo ricorso a sequenze famosissime di film ultranoti, tanto per fare qualche esempio, sequenze tratte da “Biancaneve”, “Via col vento”, “Scarpette rosse”, “Io ti salverò”, “Spartacus”, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, “Taxi driver” “I predatori dell’arca perduta”, “Apocalypse now” etc, la mostra risulta un po’ meccanica, gli storyboards, quantunque elaboratissimi, sono e restano a mio avviso prodotti nobilmente ancillari, il solo Scorsese, fra i registi, peraltro, ha provveduto a disegnarli in prima persona, altrimenti l’esecuzione era affidata a ottimi artigiani, noti tuttavia solamente agli addetti ai lavori, studiosi di questo “genere”. L’esposizione è stata l’occasione per tornare a fare un giro nella mostra permanente del museo del cinema e di rilevarne i forti limiti museografici, ideologici e anche estetici: poverissima sul piano dell’interattività (ricordo il piccolo museo del cinema collocato presso gli studi Astoria nel Queens a New York, dove andai quando i miei figli erano piccoli e ci divertimmo un mondo a ri-doppiare De Niro/Travis Bickle che fa le prove di serial killer: “You talkin’ to me?” o Audrey Hepburn svampita in “My fair Lady”), troppo germanocentrica, troppo piatta e superficiale sul piano storiografico (la storia del cinema tedesco dal manifesto di Oberhausen in avanti è francamente impresentabile).

Meglio, molto meglio la mostra di Kertesz, seppur confinata al secondo piano del Martin Gropius Bau. Mostra solida, tradizionale, rigorosamente cronologica, in cui vengono ripercorse le tre grandi fasi della biografia e della produzione di Kertesz: Budapest, Parigi e New York. Soprattutto le foto di Parigi e di New York assolutamente fondative, imprescindibili nella storia della fotografia novecentesca: per l’uso espressionista delle ombre (l’esempio più famoso è la fotografia di una forchetta), per la rappresentazione nel frattempo divenuta “normale” ma all’epoca fortemente innovativa degli arredi urbani (dai lampioni ai comignoli ai manifesti pubblicitari), per l’uso intelligente della metonimia (la foto degli occhiali e della pipa di Mondrian, il circo fotografato solo attraverso due persone che di spalle sbirciano attraverso il buco di un tendone), fino alle distorsioni dei corpi che mi sono parse le cose più datate che ha fatto nel corso degli anni. Dopo la morte della moglie, depresso e immalinconito (forse la sua foto più famosa si chiama “Tulipano melanconico”, di nuovo una metonimia) sul finire degli anni ’70, ha cominciato a servirsi della polaroid, nell’ultima sala ce n’è una serie, piuttosto straniante.

Matteo Galli

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