Herta Müller: la patria è il linguaggio

Horatiu Sava, Irgendwo in Banat, April 2009

Paola Quadrelli

“La patria non è la lingua, ma il linguaggio” afferma Herta Müller in un saggio del 2001 in esplicito dissenso con una celebre frase di Thomas Mann, il quale, dall’esilio, asseriva che “la patria di uno scrittore è la sua lingua”. La scrittrice rumena di lingua tedesca, emigrata a Berlino Ovest nel 1987 dopo anni di persecuzioni sotto il regime di Ceaușescu, invita a usare con cautela la massima di Thomas Mann, e accoglie, piuttosto, le riflessioni dello scrittore ispano-francese, reduce di Buchenwald, Jorge Semprun, il quale contrappone all’identificazione dello scrittore nella “langue” un ancoramento al “langage”, alludendo con ciò alla necessità di comunicazione propria degli esseri umani: “il linguaggio – dice Semprun – comprende tutte le lingue. Dice la necessità di comunicare che è nella nostra natura umana. È attraverso il linguaggio che avviene uno scambio, che si impara, che si detesta, che si ama”. Le deformazioni e le violenze a cui è stata sottoposta la lingua nelle dittature del Novecento rendono peraltro l’asserzione di Thomas Mann, agli occhi della Müller, illusoria e semplicistica: “Quando nella vita nulla è più al suo posto, anche le parole precipitano. E tutte le dittature, sia di destra che di sinistra, sia quelle atee che quelle religiose, maltrattano la lingua. Bendano gli occhi alla lingua e cercano di cancellare la facoltà di raziocinio della lingua. La lingua prescritta risulta altrettanto ostile della degradazione stessa. Di patria non più è possibile parlare in condizioni simili” commenta la Müller nel saggio citato (Heimat ist was gesprochen wird, Gollenstein 2001). Di fronte al travisamento della verità e alla sleale deformazione delle più semplici evidenze, in una condizione di sovvertimento e rovesciamento degli elementari valori umani, la Müller riafferma con la sua prosa nitida l’esigenza di nominare e descrivere, di ripristinare l’ovvietà di “cose familiari” divenute estranee a causa della perversione della dittatura, di riacquisire una realtà che si è frantumata in un gioco fantasmatico di sdoppiamenti e ambigue allusioni.

Lo sguardo estraneo s’intitola appunto un saggio della Müller del 1999, che come tutti i suoi testi saggistici, intreccia alla riflessione estetica e poetologica la narrazione autobiografica. Qui l’autrice riconduce una supposta specificità dello stile letterario, lo “straniamento”, a una precisa condizione autobiografica, ovvero allo scardinamento delle abitudini quotidiane provocato dalla violenza di un potere invasivo e prevaricatore. L’intrusione della Securitate nella vita dell’autrice, le minacce velate o esplicite, le insinuazioni, le calunnie, gli avvertimenti subdoli, le perquisizioni domestiche sono i veri responsabili di quell’atteggiamento di alienazione da se stessi e diffidenza verso i dati oggettivi che confina con la follia: “Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” conclude dunque la Müller, in aperta polemica con l’arroganza civettuola di quegli scrittori che si compiacciono dei propri artifici letterari. La letteratura nasce dal dolore, dall’esperienza vissuta, è sofferta testimonianza e strumento di sopravvivenza, atto di denuncia nei confronti della “vita amputata” dalle dittature e prova d’integrità morale dell’autore.

Poesia e vita s’intrecciano e si raggrumano in un’unità indistinta nelle opere della Müller, così come rappresentano un nesso inscindibile nelle opere degli autori da lei prediletti. Il notevole saggio In trappola, appena pubblicato in traduzione italiana da Sellerio, ruota appunto attorno all’opera di tre scrittori variamente coinvolti nelle tragedie del Novecento: il poeta austriaco di origine ebraica Theodor Kramer, la scrittrice viennese di nascita e statunitense d’adozione, Ruth Klüger, autrice di Vivere ancora (Einaudi 1995), e la poetessa Inge Müller, morta suicida nel 1966. Per le loro opere, osserva la nostra autrice, la definizione abituale di letteratura, intesa come “lavorare con la lingua” è riduttiva e impropria: i loro libri “sono più di questo perché sono contemporaneamente la prova dell’integrità personale di persone che scrivono. Essi portano in evidenza (…) parametri morali che pur sotto una drastica pressione politica, in situazioni di minaccia di vita, non sono stati abbandonati” (In trappola, ed. Sellerio, p. 20).

In Germania la Müller, da noi ancora pressoché sconosciuta sino al conferimento del Nobel, è nota e apprezzata sin dai tempi della sua prima pubblicazione: il volume di racconti Niederungen, uscito a Bucarest nel 1982 e accolto dalla critica letteraria tedesca, al momento della sua pubblicazione presso l’editore berlinese Rotbuch nel 1984, da un coro unanime di consensi entusiasti. Da allora, l’interesse dei critici e dei germanisti per la produzione di Herta Müller non è mai venuto meno. In verità, già nel 1987 era possibile accedere qui da noi all’opera prima della scrittrice rumena, proposta dagli Editori Riuniti nella traduzione di Fabrizio Rondolino con il titolo Bassure. Quella versione, riveduta da Margherita Carbonaro e integrata dei quattro capitoli espunti dalla prima edizione, è ora disponibile da Feltrinelli che ripubblica il libro d’esordio della scrittrice.

Il titolo Niederungen, traducibile anche con “Bassopiani”, allude innanzitutto alla conformazione geomorfologica dei territori in cui sono ambientati i racconti, ovvero i villaggi del Banato, una regione della Romania occidentale al confine con Ungheria e Serbia, da cui proviene l’autrice stessa, nata a Nitzkydorf nel 1953. Si tratta di una regione multietnica, abitata, sino alle migrazioni imposte dal regime comunista tra gli anni Sessanta e Ottanta, da una folta minoranza tedescofona, i cosiddetti “svevi del Banato”, tedeschi provenienti dalla Svevia, ma anche dall’Assia, dalla Baviera e persino da regioni dell’Austria, trasferitisi in territorio rumeno nel Settecento in diverse ondate migratorie, dapprima per volontà dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo e poi dei suoi discendenti Maria Teresa e Giuseppe II. Ma il termine “Niederungen” ha ovviamente anche un risvolto figurato, poiché allude all’ignoranza, alla povertà intellettuale, al conformismo, all’atteggiamento retrivo e reazionario e al gretto nazionalismo con cui la Müller descrive le comunità degli Svevi del Banato.

Nella raffigurazione dura e impietosa della vita rurale la critica ha ravvisato un controcanto ironico e amaro della letteratura del realismo socialista, con i suoi eroi positivi, e ha riscontrato pure forti analogie con quella narrativa austriaca impostasi negli anni Sessanta-Settanta che potremmo definire dell’“anti-idillio agreste”, rappresentata da autori come Thomas Bernhard e Franz Innerhofer, con cui la nostra autrice condivide la denuncia degli aspetti più retrivi e violenti della comunità natale. Sulle affinità tra la narrativa di Herta Müller e quella di Bernhard è intervenuta una studiosa italiana, Paola Bozzi, che ha individuato e indagato la comune insistenza sui motivi della malattia, del freddo e della morte (cfr. P. Bozzi, Der fremde Blick. Zum Werk Herta Müllers, Königshausen & Neumann 2005, cap. I.2.). Ogni confronto tra la prosa della Müller e quella di altri scrittori è però riduttivo e inadeguato poiché la Müller è scrittrice originalissima, dotata di una lingua plastica e al contempo poetica ed evocativa, qualità riconosciutale dagli stessi giurati di Stoccolma che hanno appunto motivato il conferimento del Nobel per aver saputo “descrivere il panorama dei diseredati con la forza della poesia e la franchezza della prosa”.

Già nei racconti di Bassure è possibile riconoscere i tratti peculiari dello stile di Herta Müller: la presenza di una forte componente descrittiva, che si esprime nella costante e ossessiva attenzione alle cose e ai dettagli della realtà esterna, la ripetizione di espressioni e sintagmi con una tecnica iterativa che crea un effetto ipnotico e surreale e, dal punto di vista sintattico, la predilezione per la paratassi, impostata su brevi frasi coordinate, nonché un utilizzo particolare della punteggiatura che prevede l’assenza dei due punti e del punto e virgola, la rara presenza di punti esclamativi e interrogativi e l’inserimento del discorso diretto nel flusso del testo senza l’uso delle virgolette. La Müller è, del resto, assai abile, nel superare il piano puramente concreto e fattuale attraverso una raffinata tecnica compositiva che prevede l’uso di immagini, dotate di una potente capacità associativa, che vengono isolate e poi abilmente riproposte e ricomposte nel corso della narrazione con una strategia semantica talora affine ai meccanismi onirici dello “spostamento” e della “condensazione” di matrice freudiana.

L’assenza di azione nel senso tradizionale del termine e la lingua poetica e immaginifica che si apre a risonanze simboliche e visionarie avvicinano i racconti e i romanzi della Müller al genere del “poema in prosa”. I racconti di Bassure, narrati dal punto di vista di una bambina della comunità sveva, raccontano la vita nel villaggio. Vi sono anzitutto le tradizioni familiari, come il rituale collettivo del bagno al sabato sera quando tutti i membri della famiglia si lavano immergendosi, uno dopo l’altro, nella stessa acqua calda: si veda Il bagno svevo, in cui grazie all’uso sapiente della ripetizione e dei parallelismi, il bagno caldo in cui si immergono i componenti della famiglia si rivela metafora del soffocante conformismo, dell’adesione torpida e acritica a una tradizione che si perpetua immutata da generazioni. La narratrice illustra anche le funzioni religiose (si veda la messa di commemorazione dei defunti nel breve e splendido Tango soffocante), i lavori nei campi, le feste nel villaggio (un piccolo capolavoro è il ballo di paese ne La finestra, un capitolo perfetto nei suoi ritmi, nella composizione coloristica, nel sottile contrasto tra erotismo represso e controllo morale da parte della bigotta comunità locale).

La Müller rivela anche doti satiriche in Cronaca di paese dove disvela con sottile ironia le logore abitudini linguistiche della comunità del villaggio, che tradiscono la ristrettezza mentale e culturale dei suoi abitanti, in La scriminatura tedesca e i baffi tedeschi dove la narratrice irride il nazionalismo becero e vuoto degli svevi del Banato, e nei racconti censurati nella prima edizione e ripristinati nell’edizione tedesca del 2009 e nella traduzione ora edita da Feltrinelli, connotati da una più marcata denuncia politica e sociale, come L’opinione, Inge e Il signor Wultschmann. Quest’ultimo, che è il ritratto di un vecchio di paese, militarista e violento, rimasto fedele al nazismo, riprende un tema spesso presente nell’opera della Müller, ovvero il passato fascista della comunità sveva, l’occultata e rimossa adesione di molti suoi membri al nazismo (lo stesso padre della Müller militò nelle SS) con le conseguenti responsabilità nei crimini di guerra.

Il primo racconto del volume, L’orazione funebre, è una sequenza onirica di ascendenza kafkiana, impostata su un doppio tribunale: la comunità del paese, convenuta alle esequie del padre della bambina, denuncia le violenze di cui si è macchiato il padre sul fronte russo, così come i suoi adulteri e le sue immoralità, e, al contempo, espelle dal suo seno la bambina e la condanna a morte in nome della difesa dei valori della comunità: “Siamo orgogliosi della nostra comunità. (…) Non ci lasciamo insultare, disse. Non ci lasciamo denigrare. Nel nome della nostra comunità tedesca, sei condannata a morte” (Bassure, ed. Feltrinelli, p. 12).

La realtà sociale della vita paesana, con l’intolleranza aggressiva dei suoi ottusi abitanti, la pressione conformistica, la paura e la demonizzazione del diverso, costituisce un potente motore narrativo nell’opera della Müller che del resto apparenta la ristrettezza della vita nel villaggio con il controllo repressivo della dittatura: ne Il paese delle prugne verdi, ambientato nella Romania affamata, immiserita e terrorizzata degli anni Ottanta, il “villaggio” diventa, infatti, metafora della dittatura: “Qui [benché non nominata, la città universitaria è Timişoara, NdR] tutti rimangono paesani. Ce ne siamo andati di casa con la testa, ma coi piedi stiamo in un altro paese. In una dittatura non ci possono essere città, perché tutto rimane piccolo, quando viene sorvegliato”, sostiene Georg, che come gli altri giovani protagonisti viene dalla provincia (ed. Keller 2008, p. 55).

Ed è l’illusoria speranza di sfuggire all’angustia del villaggio natio che spinge il diciassettenne Leopold Auberg, il protagonista dell’ultimo romanzo della Müller, L’altalena del respiro, a partire nel gennaio 1945 per un Lager in Ucraina da cui farà ritorno cinque anni più tardi, annichilito dall’esperienza della fame selvaggia, del gelo, del lavoro estenuante e dallo spettacolo della morte quotidiana. Ne L’altalena del respiro l’autrice si confronta con un altro capitolo a lungo rimosso della comunità tedesca del Banato, ovvero le deportazioni nei campi di lavoro sovietici della minoranza rumeno-tedesca, chiamata nel 1945 a contribuire alla “ricostruzione” dell’Unione sovietica distrutta dalla guerra. La deportazione, di cui fu vittima anche la madre dell’autrice (la circostanza è allusa anche nel finale del già citato L’orazione funebre), restò un tabù nella Romania comunista perché ricordava l’innominabile passato fascista del Paese.

Leopold Auberg, ricalcato sulla figura del poeta Oskar Pastior, appartiene al novero dei “dispossessed”, dei “diseredati”, la cui raffigurazione lucida e partecipe ha valso alla Müller il Nobel e in cui rientra anche la tragica figura di Lola con cui si apre Il paese delle prugne verdi (ed. tedesca, Herztier, 1994). La giovane Lola si è trasferita da un villaggio della Romania meridionale in città per studiare russo all’università; nel tentativo di sottrarsi all’atavica miseria dell’ambiente natale, Lola si prostituisce in un parco incolto nei pressi dello studentato e, al contempo, si iscrive al Partito, desiderosa di riconoscimento e ascesa sociale.

Lo stupro che Lola subisce da parte dell’insegnante di ginnastica, seguito dal ricatto e dalla denuncia alla sezione centrale del Partito, gettano la giovane nella disperazione e la spingono al suicidio. Al suicidio di Lola, sanzionato come gesto disdicevole in un Paese che proclamava l’obbligo alla felicità e all’ottimismo, segue l’espulsione postuma dal partito, promossa proprio da quell’insegnante che con il suo stupro si era reso corresponsabile del suicidio della ragazza. Nel destino degli altri protagonisti del romanzo, Georg, Edgar, Kurt e l’anonima narratrice, tutti studenti universitari appartenenti alla minoranza tedesca e uniti nel dissenso al regime e nelle persecuzioni della polizia, confluiscono, seppure parzialmente postdatate, le esperienze personali della scrittrice e dei suoi amici aderenti all’Aktionsgruppe Banat, un’associazione letteraria fondata nel 1972 e sciolta per mano della Securitate nel 1975, di cui fu membro attivo lo stesso marito della scrittrice, Richard Wagner.

Le vessazioni cui è sottoposta la narratrice, licenziata dalla fabbrica in cui lavora come traduttrice, sorvegliata, minacciata e pedinata dai servizi segreti persino dopo il suo trasferimento in Germania, ricalcano le vicende biografiche della stessa Herta Müller, raccontate dalla scrittrice nel recente saggio Cristina e il suo doppio. La Teresa del romanzo, che va a trovare in Germania la narratrice per conto del capitano Pjele, rispecchia il personaggio di Jenny, l’amica di Herta Müller rivelatasi spia della Securitate; il suicidio di Kurt ricorda la morte di Roland Kirsch, amico della scrittrice, anch’egli ingegnere nel mattatoio, come il suo omologo romanzesco, che fu trovato impiccato, in circostanze rivelatesi poi sospette, nel maggio del 1989 (cfr. Cristina e il suo doppio, p. 40), mentre il pestaggio di Georg, picchiato per strada da aggressori rimasti impuniti, e il suo suicidio sono evidenti reminiscenze dalla biografia di Rolf Bossert, scrittore dell’Aktionsguppe Banat.

Accanto alla pressione omologatrice della comunità natia e alla violenza dei totalitarismi, la Müller ha anche indagato con acume e sensibilità il senso di estraneità e lo sradicamento che attanagliano l’emigrante. È questo il tema di fondo di In viaggio su una gamba sola, scritto dalla Müller subito sopo il suo passaggio all’Ovest, romanzo connotato da uno stile più prettamente dialogico e narrativo rispetto alle sue altre opere e, pertanto, di più agevole lettura. Ambientato in luoghi freddi ed estranei – uffici per l’immigrazione, alloggi per rifugiati politici – o in “non luoghi”, come aeroporti, stazioni della metropolitana, treni, alberghi, supermercati, il romanzo mette in scena la figura di una donna trentacinquenne, Irene, che emigra “dall’altro Paese”, con i suoi soldati di frontiera e gli “schermi radar”, nella Germania occidentale seguendo Franz, l’uomo di cui è innamorata. La relazione con Franz finisce e Irene si stabilisce a Berlino Ovest dove ottiene, infine, la cittadinanza. Il senso di solitudine e di esclusione in una metropoli piena di persone sconosciute che “non svelavano niente di sé”, il disorientamento e lo stupore dinanzi a negozi pieni di merci sono i sentimenti che avvincono dolorosamente Irene, la quale sintetizza la propria esperienza con la formula “Kaltes Land, kalte Herzen” (“Paese freddo, cuori freddi”).

La “patria è il linguaggio”, aveva dichiarato appunto la scrittrice nel saggio citato, a riprova che vi è “patria” solamente là dove è possibile una comunicazione libera tra eguali, dove la parola è strumento di verità e condivisione della dolorosa esperienza umana.

Paola Quadrelli

Bibliografia italiana delle opere di Herta Müller

Bassure, trad. di Margherita Carbonaro e Fabrizio Rondolino, Feltrinelli, Milano 2010
In trappola,
a cura di Federica Venier, Sellerio, Palermo 2010
L’altalena del respiro
, trad. di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, 2010
Cristina e il suo doppio ovvero Ciò che (non) risulta nei fascicoli della Securitate
, trad. di Mario Rubino, Sellerio, 2010
Lo sguardo estraneo ovvero La vita è una scorreggia in un lampione
, trad. di Mario Rubino, con una nota di Adriano Sofri, Sellerio 2009
Il paese delle prugne verdi
, trad. di Alessandra Henke, Keller, Rovereto 2008
In viaggio su una gamba sola
, trad. di Lidia Castellani, Marsilio 2009 (prima ed. 1992)

da: Pulp Libri

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