Matteo Galli
La leggerete spesso questa settimana la parola muro. Ieri è cominciata la serie di iniziative che ricordano il cinquantesimo della costruzione del muro, il clou sarà sabato 13 agosto. Già venerdì 5 si è inaugurata una mostra intitolata “Aus anderer Sicht. Die frühe Berliner Mauer” (“L’altra vista. Il muro di Berlino dei primi anni”). I curatori sono due personaggi piuttosto noti in Germania (soprattutto a Berlino), il fotografo Arwed Messmer e la scrittrice Annett Gröschner. Avevo visto due anni fa una mostra ideata da Messmer a uno dei musei di Berlino che preferisco, la “Berlinische Galerie”. La mostra si intitolava “So weit kein Auge reicht” (qualcosa come “A (s)perdita d’occhio”) e raccoglieva immagini di paesaggi urbani berlinesi dei primi anni ’50, scattate dal fotografo Fritz Tiedemann, giuntate, rielaborate e digitalizzate in forma di enormi “Panoramabilder” (fino ad una lunghezza di 25 metri) appunto da Messmer. Annett Gröschner è autrice di un notevole romanzo di debutto intitolato “Moskauer Eis” (“Ghiaccio moscovita”) risalente ormai al 2000 e da allora si è dedicata a ricerche di carattere (micro)-storico oltreché ad una nobile e leggermente ostalgica forma di “feuilleton” soprattutto relativa ai quartieri orientali di Berlino dove tuttora abita (ha un sito bellissimo: http://www.annettgroeschner.de/).
Sono andato a vedere la mostra ieri sera. In realtà l’idea da cui ero partito era di andare a sentire una “Podiumsdiskussion”, la prima di una serie di iniziative collaterali alla mostra, alla quale prendevano parte, oltre ai due curatori, quattro studiosi a vario titolo esperti di muro, ma dopo un’oretta la cosa è diventata un po’ noiosa e allora mi sono alzato e ho visitato la mostra che invece è notevolissima. Innanzitutto lo spazio espositivo. La mostra è allestita in un edificio all’indirizzo Unter den Linden 40 (la cassiera mi ha detto che qui all’epoca della DDR aveva sede l’istituto di cultura italiano della DDR, devo dire che – stamani – in rete non ho trovato nessuna traccia di ciò, uno studioso dei rapporti Francia-DDR sostiene che solo la Francia, fra i paesi occidentali, ebbe un istituto di cultura a Berlino Est), che è la parte più turistica del viale, quella che va dalla Friedrichstraße verso la Porta di Brandeburgo, piena di negozi di souvenir, con la sede berlinese della ZDF e il negozio della “Nivea”. Si sale al secondo piano per uno scalone piuttosto squallido e buio. E si entra in uno spazio appositamente pensato per questa mostra (è in assoluto la prima mostra allestita qua dentro): luci al neon, un percorso tortuoso fatto di muri grigi, odore di vernice, pavimento sconnesso, è chiaro l’intento di immergere il fruitore in una dimensione marcatamente sgradevole, unheimlich. Messmer ha approntato un numero spaventoso di foto panoramiche, secondo la stessa tecnica della mostra del 2008/2009, che percorrono dal centro verso nord e dal sud verso il centro l’intero perimetro del muro, foto di qualità molto varia, alcune straordinarie, altre brutte, sfocate e sovraesposte. La qualità varia è dovuta all’origine dei materiali qui esposti; si tratta di fotografie che Gröschner e Messmer scoprirono casualmente 16 anni fa in una cassa conservata presso il “Militärisches Zwischenarchiv” di Potsdam, foto scattate fra il 1965 e il 1966 da soldati di frontiera della DDR. Di qui il titolo: l’altra vista, perché il muro da Est era vietato fotografarlo.
Oltre ai soggetti relativamente noti – seppur evidentemente fotografati da ovest – dei posti di frontiera (da Checkpoint Charlie, a quello della Chausseestraße, della Invalidenstraße, della Sonnenallee) vediamo immagini straordinarie riprese dalla Sprea, ponti non più ponti, cimiteri di confine (ne ho contati almeno 4, fra i quali lo “Invalidenfriedhof” dove si svolge “Halbschatten” di Uwe Timm), ma anche zone adesso fortemente urbanizzate, a partire da Potsdamerplatz, oppure tutte le strade di Kreuzberg/Friedrichshain intorno al Landwehrkanal, oppure l’angolo Oderberger/Bernauer/Schwedterstraße, uno dei punti in cui il muro compiva una di quelle giravolte che ti spiazzavano, più si va verso nord (Pankow e oltre) o verso sud (nella zona verso l’aeroporto di Schönefeld) e più le fotografie si fanno quasi astratte, anche quelle bellissime. In una della stanzette di un percorso espositivo volutamente labirintico sono riprodotti anche alcuni esempi di torri di avvistamento; in un’altra è possibile accedere alla documentazione (protocolli e schizzi) sui tentativi di fuga: gli agenti della polizia di frontiera erano tenuti a fornire relazione dettagliata su tutti gli episodi di fuga, riusciti o falliti che fossero; in una stanzetta ulteriore ci sono anche le foto di alcuni agenti di frontiera, con una striscia bianca sugli occhi affinché non sia possibile riconoscerli, immagini inquietanti, se mai ve ne furono. Il catalogo, in carta riciclata volutamente sporca che mima lo squallore degli atti d’archivio, è molto bello e un po’ troppo caro. L’unica cosa che nella mostra non funziona sono le didascalie delle foto, di cui si è occupata Annett Gröschner: sulla base dei protocolli dei soldati di frontiera, che erano tenuti a riportare tutti i “Vorkommnisse” (“accadimenti”) durante i loro turni, la scrittrice ha ripreso e letterarizzato alcuni scambi di battuta fra i soldati e le persone che casualmente passavano dall’altra parte del muro, scenette simili a quelle che vediamo nel film di Leander Haußmann “Sonnenallee” con i “Wessis” che dalle piattaforme prospicienti il muro prendono in giro gli orientali. Questa isotopia ironica mi pare che non funzioni granché. Ma a parte questo la mostra è bellissima.
Matteo Galli
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