Marcel Beyer, Forme originarie della paura

Jochen Lempert, The Skins of Alca Impennis, 2009 (via PROJECTESD)

Cecilia Bello Minciacchi

Con scelta lungimirante che purtroppo, in Italia, non sembrò avere la meritata risonanza, Einaudi già nel 1997 aveva fatto tradurre Pipistrelli (Flughunde, 1995), tra i primi romanzi di uno scrittore tedesco allora trentenne, Marcel Beyer. Si trattava di un libro terribile da leggere a da “ascoltare”, fondato, com’era, su un singolare e raccapricciante archivio fonografico, quello allestito dallo scrupoloso Hermann Karnau che aveva inciso marce, voci, lamenti e urla della Germania nazista, fino agli ultimissimi giorni del Führer e dei sei bambini di Goebbels uccisi nel sonno di un bunker all’orlo della capitolazione. Il personaggio Karnau era solitario e mite, e però dotato di freddezza e determinazione nel compiere i suoi esperimenti fonologici. Era mosso da curiosità incontenibile e da ambizioni catalogatorie: lavorava meticolosamente a un’enciclopedica «mappa» di materiali sonori, compresi gli accenti rochi di retorica dei discorsi hitleriani, le adunate, le voci già disumane degli agonizzanti, gli scoppi di granate, «il rantolo di gole ridotte a terreni stepposi». Già allora, attraverso quella finzione romanzesca, appariva in Marcel Beyer il desiderio di misurarsi con la storia e con le plaghe più oscure della Germania, e colpivano la lucidità e l’asciuttezza con cui un autore nato nel 1965, vent’anni dopo la fine del conflitto, assumeva il carico di memoria della generazione che l’aveva preceduto. L’importanza che in Pipistrelli aveva la «registrazione», il documento, non è venuta meno nel romanzo di Beyer apparso in Germania nel 2008 e pubblicato ora da Einaudi, Forme originarie della paura. Tra i due romanzi una ricca produzione narrativa, saggistica e poetica da noi non ancora tradotta.

La rievocazione storica si distende, qui, in un quadro non solo più vasto – dalla Germania degli anni ’40 a quella degli anni ’90 – ma anche più articolato, più ambiguo e sfuggente, a partire dalla stessa individuazione del protagonista. L’apparenza denotativa del titolo originale, Kaltenburg, sembrerebbe individuare proprio in Ludwig Kaltenburg, autore di un controverso trattato sulle Forme originarie della paura, il protagonista del romanzo, ma niente è semplice, qui, e neppure univoco. Sebbene Kaltenburg sia uno zoologo carismatico evocato quasi a ogni pagina, il romanzo è percorso da molte altre personalità interessanti e ben tratteggiate, fra cui quella del narratore, un ornitologo che è stato allievo di Kaltenburg, un altro Hermann, Hermann Funk, un “testimone” che racconta in prima persona scavando nell’ingannevole incompiutezza dei ricordi.

I documenti su cui studiano con gran rispetto Kaltenburg e Funk non sono registrazioni fonografiche, ma animali vivi, accuditi e osservati, oppure impagliati amorevolmente, «preparati in pelle» di uccelli comuni e rari. Rarissimo un esemplare che Hermann bambino e sua madre ipotizzarono distrutto insieme allo zoo e al museo di Dresda in un attacco aereo del 1944, pallida anticipazione dell’agghiacciante potenza di fuoco che gli alleati avrebbero riversato sulla città la notte del 13 febbraio 1945, quando Hermann perderà entrambi i genitori. L’«alca impenne» di Dresda, uccello estinto dalla metà dell’800, non visto da bambino e quasi cinquant’anni dopo scoperto in salvo in una collezione russa, resterà «inseparabilmente legato al ricordo dell’ultimo pranzo familiare». Vi si condenserà, per anni, l’ovattata malinconia dell’orfano e la curiosità scientifica dell’ornitologo.

Tutti gli uccelli imbalsamati hanno, in questo romanzo, un forte potere evocativo, emblematico: oltre all’alca, di cui si parla a più riprese, le «due aquile del mare» conservate a Vienna, due esemplari uccisi dall’arciduca Rodolfo, fanatico cacciatore, poco prima della sua buia fine a Mayerling, e diventate, sotto le mani del preparatore, due «uccelli prostrati dall’afflizione, con lo sguardo triste, le ali cascanti, come se presentissero che l’uomo che avrebbe inflitto loro il colpo mortale presto si sarebbe tolto la vita».

Il carattere emblematico degli animali, vivi o impagliati, riposa nel loro essere anello di congiunzione con un fatto storico e individuale – mirabile, in Forme originarie della paura, la compenetrazione tra dimensione privata e dimensione sociale e storica, anzi tra storia e riflessione intima. Così, le amate taccole di Kaltenburg, allevate libere nella sua villa, avvelenate forse da chi cospira contro di lui o forse, sciaguratamente, dai fitofarmaci, segnano in lui una svolta umana e politica. Così, gli uccelli carbonizzati che piovono dal cielo su Hermann durante il bombardamento di Dresda rappresenteranno, condenseranno, quello che poco prima la madre, ignara della fatalità delle proprie parole, gli aveva detto: «vedi, gli essere umani sono capaci di tutto, ti ricorderai di questa giornata per il resto della vita». E la descrizione di quei coaguli «di catrame», «grumi inquietanti» che colpiscono il bambino con suono «sordo e fermo», dei picchi che fuggono «dalle cavità degli alberi in fiamme», dei «fenicotteri nudi, grigio scuro» e delle anatre che «bruciavano tutte insieme sull’acqua» compete con la pagina in cui «un’orda di scimmie fuggite dallo zoo distrutto» si unisce agli uomini sopravvissuti che spostano i cadaveri cercando familiari deceduti.

Ma non è un romanzo descrittivo, Forme originarie della paura, è piuttosto felicemente e strutturalmente anticommerciale, al di là e per la sua severa bellezza, che richiede pazienza nell’annodare i fili e nel colmare – quanto possibile – le lacune. È scritto, infatti, come se non solo sulla letterarietà, ma anche sull’etica dominasse il pudore. Non quello che tace, ma quello che pronuncia senza strepito. Dissemina chiavi per aprire la macchina narrativa e il suo senso, ma le lascia il più delle volte sospese, magari riprese dopo decine di pagine, ma solo per accenni rapidi, solleciti. Bastano parole singole, anch’esse evocative: «Jerzyk» il primo termine polacco imparato da bambino, potente di un’oscurità affettiva, il traumatico scontro con un rondone entrato nel salotto di casa e la scomparsa della bambinaia polacca nemmeno ventenne (ebrea deportata? Non si saprà mai con certezza). «Vorkuta», lasciata senza commento a noi che dobbiamo sapere che fu città di gulag. O lo sguardo «fisso» che Stalin dispensava dai suoi onnipresenti ritratti facendo sentire «la coscienza sporca in partenza».

Malgrado la sua evocatività, Forme originarie della paura non è un libro lirico, piuttosto un romanzo in cui il sentimento è saldo, tenuto sotto controllo, educato come l’eleganza linguistica di un armonioso, «buon altotedesco».

I destini degli animali e quelli degli uomini si rispondono: l’«atmosfera di morte» diffusa nella casa di Hermann bambino dagli uccelli feriti che il padre botanico raccoglieva è analoga a quella respirata da Kaltenburg nell’ospedale militare in cui ha prestato servizio negli anni ’40. L’espressione del babbuino che capisce di non poter più sfuggire all’aggressore «non si differenzia in nulla, secondo Kaltenburg, da quella di un essere umano irrimediabilmente in balia del suo acerrimo nemico».

Il vaglio del passato vive di intermittenze – Klara, la moglie di Hermann, ha in Proust un’ancora di salvezza –; affiora quello che il passare del tempo non ha sopito: discusse appartenenze al Nazismo, l’ingombrante processo contro Philipp Auerbach, sospetti e collusioni nella DDR. E non c’è, in questo poderoso attraversamento, la speranza liberatoria che sia «possibile dichiararsi innocenti raccontando il passato».

 Cecilia Bello Minciacchi

Marcel Beyer, Forme originarie della paura, traduzione di Silvia Bortoli, Torino, Einaudi «Supercoralli», 2011, pp. 393

[da «alias» – supplemento a «il manifesto», XIV, n. 25, 25 giugno 2011, p. 19, col titolo redazionale Una zoologia della Germania]

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