Heiner Müller: l’immagine del nemico

Heiner Müller (via DARE Magazin)

Anna Ruchat

Nell’uomo esiliato
è nascosto un bambino
che vuole morire.

Nato a Eppendorf, in Sassonia 19 gennaio 1929 e morto nella Berlino unificata il 30 dicembre 1995, Heiner Müller, discendente eretico di Brecht, multiforme interprete di quello “stato breve” che fu la DDR, è stato definito in un necrologio – con Samuel Beckett e Thomas Bernhard –“uno dei tre drammaturghi della morte”.

L’esperienza del tradimento e della colpa, l’umiliazione che genera la vendetta, sono il fondamento della vita e dell’opera di Heiner Müller, che è teatrale sempre, anche quando si tratta di poesia, di interviste o testi in prosa autobiografici. Solo così, distribuendo le macerie del proprio vissuto e del vissuto della Germania sui volti, nelle bocche e negli occhi dei suoi spettrali personaggi, Müller può procedere tra gli scenari devastati e spogli del lungo dopoguerra tedesco. Dando voce ai suoi sciagurati fantasmi, attraversando in sempre nuove declinazioni quella storia universale che è, nella sua visione ultima, un unico massacro senza fine, mettendo e togliendo le sue maschere, riesce infatti a dare forma a quel “sovraccarico di esperienza”, storica e personale, che ostruisce e nello stesso tempo alimenta il funzionamento della sua macchina artistica:

Il 31 gennaio del 1933 alle 4 del mattino, mio padre, funzionario del partito socialdemocratico tedesco, fu tirato giù letto e arrestato. Mi svegliai, oltre la finestra un cielo nero, rumore di voci e di passi. Nella stanza accanto, furono scaraventati a terra dei libri. Sentii la voce di mio padre, più chiara rispetto alle voci sconosciute. Mi alzai dal letto e andai alla porta. Attraverso la porta socchiusa vidi un uomo che colpiva mio padre in volto. Infreddolito, con la coperta tirata fin sul mento, ero di nuovo a letto quando la porta della mia stanza si aprì. Sulla porta c’era mio padre, dietro di lui degli sconosciuti, alti, con le uniformi marroni. Erano in tre. Uno di loro teneva la porta aperta con la mano. Mio padre aveva la luce alle spalle, non vedevo il suo volto. Lo sentii chiamare piano il mio nome. Non risposi e rimasi immobile. Poi mio padre disse: dorme.

L’episodio qui narrato risale al 1933, Heiner Müller ha quattro anni e questa è per lui la prima esperienza del tradimento. Suo padre verrà rilasciato un anno dopo e arrestato nuovamente, anche se per breve tempo, nel 1940 per cospirazione contro il popolo. Subito dopo la guerra il padre di Müller riprende la militanza nel partito socialdemocratico diventa sindaco di Frankenberg (in Sassonia) ma, contrario alla fusione dei partiti socialdemocratico e comunista, nonché all’esproprio delle terre, ha seri problemi con le autorità russe e nel 1951 decide di trasferirsi in Occidente. Il tema del tradimento continua dunque a essere fondante per il ragazzo che, alla partenza del padre, sceglie di rimanere nella DDR per «settarismo e desiderio di vendetta a causa delle umiliazioni subite» ma anche perché nella DDR c’è la letteratura migliore: «Brecht, Seghers, Šolochov, Majakovskij. Non ho mai pensato di andare via», scrive Heiner Müller nell’autobiografia pubblicata in Germania nel 1992 con il titolo Guerra senza battaglia. Una vita in due dittature – un testo che uscirà in italiano la primavera prossima presso l’editore Zandonai e che più di ogni altro illumina la sua esistenza, raccontando, in una sorta di tragicomica farsa, le ragioni dell’arte e delle scelte politiche, nonché l’appartenenza al destino della DDR: non drammatica, non passionale, semplicemente imprescindibile. Così Müller perde quasi completamente il contatto con i genitori, e quando nel 1961, poco prima della costruzione del muro, li rivede a Tubinga, prova «solo estraneità». Un’estraneità che ha radici antiche: «E in effetti è cosi, dopo la prima separazione, mio padre, quando poi è tornato dal KZ [1934], in un certo senso è diventato per me un morto vivente», scrive Müller sempre nell’autobiografia.

Il padre diventa l’archetipo di quell’esercito di ombre che popola il suo teatro, dove la colpa intollerabile del tradimento viene reinterpretata all’infinito e trasfigurata in innumerevoli parabole della crudeltà che ricordano più Antonin Artaud che non il Santo patrono della DDR, Bertolt Brecht.

Eppure il faticoso inizio sulla scena è proprio nel segno di Brecht e dell’utopia socialista: nel 1951 Müller si trasferisce dalla Sassonia a Berlino, dove vive per diversi anni senza fissa dimora. Lì spera invano di essere preso nel Berliner Ensemble, la compagnia di Brecht, e scrive i drammi didascalici dal mondo della produzione, Lo stakanovista (1956) La correzione I e II (1957 e 1958, sulla costruzione del Kombinat Schwarze Pumpe).

Ma Müller non è un epigono di Brecht e la dinamite che avrebbe fatto saltare l’ordine disciplinato del realismo socialista , era già presente in quei primi drammi: la tipica figura mülleriana del morto vivente che si solleva dai campi di battaglia per aggirarsi con una «cicatrice al posto del cervello» nella terra desolata dell’Europa postbellica è lo stesso «ordinario paranoide» che troviamo nei romanzi del primo Böll o nelle più recenti analisi di Sebald.

Subito dopo la prima e unica rappresentazione di Die Umsiedlerin (1961, da un racconto di Anna Seghers, che tra le altre cose riportava alla luce il tabù delle donne violentate dai russi nell’immediato dopoguerra), viene sottoposto a una sorta di tribunale degli scrittori; costretto a fare autocritica viene espulso dall’Associazione degli Scrittori, e per qualche anno non potrà più pubblicare. Müller, che nel frattempo ha sposato la scrittrice e giornalista Ingeborg Schwenkner (i cui genitori sono morti negli attacchi aerei su Berlino mentre lei stessa è rimasta per giorni e giorni sotto le macerie), si trova di nuovo a dover vivere nella precarietà, ai margini della comunità intellettuale, relegato, con la moglie, a scrivere sotto pseudonimo. Se per lui questa situazione è più o meno naturale, non lo è invece per Inge che cerca rifugio in innumerevoli relazioni extraconiugali e ripetuti tentativi di suicidio. «Nella stanza accanto tua moglie sogna il suo primo amore. / Ieri ha cercato di impiccarsi. Domani / Si taglierà le vene dei polsi o chissà cosa / Se non altro ha un obbiettivo davanti a sé», scrive Müller nella poesia Autoritratto alle due di notte il 20 agosto 1959. Inge Müller si uccide nel giugno del 1966.

«Abbasso la gioia della sottomissione.» Dice Ofelia in Hamletmaschine. «Viva l’odio, il disprezzo, la rivolta, la morte»: una forma di realismo che sconfina nel surreale. Tradimento e colpa diventano una cifra di sopravvivenza.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo la svolta verso il teatro classico e la rielaborazione dei miti in chiave contemporanea (con il Filottete 1964-65 e il Prometeo, 1967-68), il nome di Heiner Müller comincia a circolare sempre di più all’estero, anche fuori dai confini della Germania Federale. Così il volto ufficiale del drammaturgo, che è diventato emblema di un’insolubile contraddizione della storia, che si erge provocatoriamente a interprete del fallimento dell’utopia, riemerge tra mille incompatibilità anche nella DDR: nel 1970 Müller viene assunto al Berliner Ensemble, nel 1977 passa alla Volksbühne, nel 1986 riceve il Premio Nazionale di I Classe della DDR, nel 1988 viene riaccolto nell’Associazione degli Scrittori.

Dopo i miti è la volta di Shakespeare e del capolavoro, la Hamletmaschine (1977), un requiem per la DDR e per l’Occidente: «Io non sono più Amleto. Non recito più alcuna parte. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano il sangue alle immagini. […] Pietrificazione di una speranza.»

Ma in realtà niente si fossilizza, niente rimane fermo in Müller, straordinario riciclatore di materiali, genio dell’assemblaggio: i suoi scritti sono in costante movimento – sia le pièce teatrali che le poesie vengono riprese e rimaneggiate sull’arco di tutta l’esistenza – persino le interviste (in parte pubblicate anche in italiano nel bel volume della Ubulibri Tutti gli errori) non sono testi statici, seppure allineati su una «cronologia brutale». In qualunque punto la si colga, la sua produzione ci mostra l’inestricabile groviglio tematico e il gioco contrappuntistico tra i testi che si adatta a qualunque forma. Indagare i rapporti tra storia, mito, e biografia permette di scoprire il gioco delle trasfigurazioni tra la temerarietà di Medea e quella della brechtiana Anna Flint, tra la purezza dell’angelo senza fortuna e quella della bambina, alla quale il padre vorrebbe augurare «per amore, una morte precoce», o ancora tra la moglie morta suicida e i pensieri di Ofelia o di Seneca mentre troppo lentamente «il sangue abbandonava il suo vecchio corpo».

La fine della DDR nel 1989 significa per Müller una profonda crisi artistica. Il suo lavoro da quel momento in poi sarà segnato dalle regie e dal ruolo direttivo al Berliner Ensemble e alla Volksbühne. Sempre nel 1992 pubblica l’autobiografia: immediatamente attaccato per non aver detto di essere stato un informatore della Stasi, Müller risponde pochi anni dopo pubblicando, nella seconda edizione, i documenti che riguardano i suoi rapporti con la Stasi nonché un’intervista dal titolo C’è un diritto dell’uomo alla codardia. Il giornalista gli chiede degli incontri con un uomo dell’apparato, Müller racconta che si vedevano tre o quattro volte l’anno e parlavano di politica internazionale, racconta di aver chiesto una volta al funzionario: «perché Lei parla con me?» e che il funzionario gli aveva risposto «perché Lei rimanga qui». Poi il giornalista approfondisce e Müller racconta che su richiesta del funzionario aveva espresso il suo parere sulle misure da prendere nei confronti di un certo scrittore. «Carcere o estradizione». Müller aveva votato per l’estradizione. Allora il giornalista gli chiede: «E questa non era collaborazione?» «Cosa significa collaborazione?» risponde Müller «io non ero dell’idea di rinunciare alla DDR, non ero per la riunificazione. Non mi sarebbe mai venuto in mente. Sapevo che non sarebbe durata a lungo ma c’era questa illusione di Gorbaciov, la speranza che il sistema si potesse ancora riformare.» Müller ha sempre potuto viaggiare molto, anche negli Stati Uniti, anche in Italia e il grande ciclo della sua produzione artistica, è un percorso a zig zag, a cavallo di quello che lui stesso ha definito il «muro del tempo», il muro metaforico che ancora oggi nessuno ha abbattuto.

Negli ultimi anni, che sono anche quelli dell’affermazione pubblica e di un’insperata gioia domestica (la relazione con la fotografa Brigitte Maria Mayer e la nascita della figlia Anna) Müller si trova a fare i conti con un «teatro senza dittatura» che non si sa più a cosa possa servire. Nella nuova Germania unita il teatro è “mercato” come tutto il resto, come lo stesso accanimento dei giornali sulla sua “collaborazione” con gli apparati della DDR. Nel 1995 scrive l’ultimo dramma Germania 3. Spettri sull’uomo morto, «una pièce testamento», un collage di citazioni e autocitazioni, come scrive Jean Jourdheuil nell’introduzione all’edizione italiana del libro, «una pièce che non ha più destinatari».

Del resto già nel 1979 Müller aveva registrato così la propria fulminante parabola:

Sono l’angelo della disperazione. Con le mie mani distribuisco l’euforia, lo stordimento, la dimenticanza, piacere e dolore dei corpi. Le mie parole sono il tacere, il mio canto il grido. All’ombra delle mie ali abita lo spavento. La mia speranza è l’ultimo respiro. La mia speranza è la prima battaglia. Sono il coltello con cui il morto spalanca la sua bara. Sono colui che sarà. Il mio volo è la rivolta, il mio cielo l’abisso di domani.

Anna Ruchat

Testi tradotti in italiano: Teatro I (Filottete, L’Orazio, Mauser, La missione, Quartetto), Ubulibri 1984 (rist. 1991, volume esaurito); Teatro II (Hamletmaschine, Vita di Gundling, Germania morte a Berlino, Riva abbandonata Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti, La strada dei panzer), Ubulibri 1991; Teatro III (Lo stakanovista, Cemento, La battaglia. Scene dalla Germania, Pezzo di cuore, Descrizione di un quadro) Ubulibri 1998; Teatro IV (Germania 3 Spettri sull’uomo morto) Ubulibri 2001; L’invenzione del silenzio. Poesie, testi, materiali dopo l’Ottantanove, Ubulibri 1996 (fuori catalogo); Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989, Ubulubri 1994; Non scriverai più a mano, Libri Scheiwiller 2006

da: Pulp Libri, novembre-dicembre 2009.

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