LTI

[In occasione dell’uscita della nuova edizione di LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer ripubblico volentieri una recensione apparsa sull’Indice nel 1998. A.F.]

Alessandro Fambrini

“La lingua è più del sangue”. Con questa frase di Franz Rosenzweig si apre lo straordinario documento costituito da LTI di Victor Klemperer, un classico della letteratura tedesca che, in attesa dei Diari (clamoroso caso editoriale in Germania alla loro pubblicazione nel 1995-96, di cui “L’Indice” si era occupato a suo tempo in un articolo di Carl-Wilhelm Macke), viene finalmente presentato in edizione italiana a più di cinquant’anni dalla sua prima uscita. Un’opera che affascina e atterrisce, quella di Klemperer. In sintesi: a guerra finita, a sterminio concluso, essa ha la forza di rivendicare con orgoglio il primato del logos sulla barbarie, il momento unificante della parola come fondante di un’unità vera rispetto al coacervo di pulsioni oscure e di tragici inganni che nel nazismo si raggrupparono intorno al termine “sangue” e che l’autore scontò sulla propria pelle, in una calata progressiva e ineluttabile in quell’inferno in cui la lingua, ogni lingua, aveva rischiato di ammutolire per sempre.

Klemperer, ottavo figlio di un rabbino di Landsberg, dal 1915 docente di letteratura francese all’università di Dresda, compì una parabola comune a tanta borghesia ebraica che aveva creduto nell’integrazione, finendo per sentirsi più tedesca dei tedeschi in un paese che, uscendo dalla prima guerra mondiale, era percorso da fremiti sempre più spasmodici di inquietudine e di intolleranza. L’avvento del nazionalsocialismo dimostrò come fosse illusoria ogni sicurezza di quella borghesia mutandone orribilmente i destini. Klemperer fu privato della sua cattedra nel 1935 in seguito alle leggi razziali e poté scampare ai campi di sterminio solo grazie alla moglie, Eva Schlemmer (alla quale LTI è dedicato), un’”ariana” di famiglia altolocata. Nella prospettiva aperta su Auschwitz e sulle camere a gas, il destino di Klemperer può sembrare addirittura quello di un privilegiato: allontanato da casa nel 1940, fu internato a Dresda in uno degli “Judenhäuser”, edifici destinati alla reclusione degli ebrei, che costituivano una forma più attenuata di discriminazione rispetto alla violenza dei lager, e dal 1942 fu costretto al lavoro forzato. Nel febbraio del 1945, in seguito al bombardamento di Dresda, Klemperer riuscì a fuggire e, abbandonata la città, condusse una vita da profugo, nascondendosi dove capitava, fino alla fine della guerra. Solo all’indomani del conflitto poté riprendere la sua identità e, in seguito, anche l’insegnamento, prima a Greifswald, poi a Halle, iscrivendosi al partito comunista e optando per la Ddr nella Germania divisa.

Klemperer fu filologo e studioso di rango, ma invano si cercherebbe in LTI (“Lingua tertii imperii”, crittogramma che nella sua lapidaria ed enigmatica aridità segna il distacco della lingua del nazionalsocialismo dalla misura umana) l’impostazione del saggio erudito, o tantomeno il tentativo di disporre le osservazioni sul progressivo capitolare e disfarsi della lingua tedesca nella sintesi di una teoria unificante. Nato in parallelo ai Diari e da essi estrapolato quasi come loro cristallizzazione tematica, LTI segue piuttosto un andamento casuale, registra episodi e annota riflessioni che ruotano intorno al perno della lingua, ma che intorno a esso formano come un diagramma di vicende umane, di esperienze, di emozioni. È questo perno, tuttavia, a dare non soltanto unità, ma anche un tono di vibrata partecipazione all’opera di Klemperer, come se la lingua acquistasse la sostanza di coloro che se ne servono – quella partecipazione che invece è paradossalmente più assente nei Diari, laddove la centralità del testimone sembra volontariamente ritrarsi di fronte all’orrore degli eventi osservati, fino a provocare un curioso senso di straniamento, come se l’individuo che osserva e registra, per salvaguardare la propria integrità, non potesse più manifestare alcun coinvolgimento emotivo e finisse per riferire con la stessa intensità distaccata, come scrive Michele Ranchetti nella sua breve ma densissima introduzione, della “riduzione della razione di tabacco” e “della cugina che si impicca”.

Occupando il linguaggio, la macchina nazionalsocialista occupa le menti e la realtà. Così, la lingua diviene lo sfondo mobile sul quale di volta in volta si svolgono i drammi privati degli affetti (come in molti dei capitoli che scandiscono il libro, da Io credo in lui a Le prime tre parole naziste, in cui il tradimento di un’amicizia viene misurato con l’irrompere nella conversazione di un vocabolario mutato e stravolto che la deforma e la involgarisce, rendendo impossibile ogni comunicazione autentica e in fondo ogni rapporto) o quelli pubblici della retorica di regime, come nel breve, memorabile capitolo Segni di interpunzione, in cui il carattere ortografico fondante dell’apparato persuasivo nazionalsocialista non è individuato, come si sarebbe istintivamente portati a credere, nel punto esclamativo, bensì nelle virgolette, ribattezzate “virgolette ironiche”, come strumento capace di una duplice azione: innanzitutto di “mettere da parte”, di emarginare, di rendere diverso ciò che racchiudono e di creare così una barriera tra quanto si vuole omologare e quanto vi si oppone; e in secondo luogo, in espressioni quali “‘vittoria’ rossa”, “‘maresciallo’ Tito”, “poeta ‘tedesco’” (in relazione a Heine), di gettare un’ombra di incertezza, di dubbio, di innescare una tendenziosità tutta rivolta a “trascinare nella polvere l’avversario”.

Ma se nelle parole si era misurata e consumata la repressione e l’annichilimento, nelle parole si registra anche l’opposizione, la ripresa, la speranza. Nella postfazione, spiegando perché, dal magma indifferenziato dei diari avesse stabilito infine di enucleare le sue riflessioni sul linguaggio, Klemperer racconta di come, finito in un campo profughi in Baviera, si chiedesse di che cosa riempirla, quella nuova vita che si schiudeva davanti a lui, a guerra finita, finché, discutendo con un’operaia berlinese, non le domandò per quale motivo ella fosse stata in prigione. “Beh, per delle parole…”, è la risposta della donna, che aveva offeso Hitler e le istituzioni del Terzo Reich. “Fu per me un’illuminazione”, scrive Klemperer, “grazie a quella frase vidi chiaro. ‘Per delle parole…’, per questo e su questo avrei ripreso il mio lavoro sui diari. Intendevo enucleare la mia asta di equilibrio da tutto il resto e accennare soltanto, contemporaneamente, alle mani che la reggevano. Così è nato questo libro, non tanto per vanità, spero, quanto ‘per delle parole’”.

Alessandro Fambrini

Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Firenze, Giutina, 1998 – nuova edizione riveduta e annotata a cura di Elke Fröhlich, traduzione di Paola Buscaglione Candela, prefazione di Michele Ranchetti, ivi, 2011

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