Forget the man

[Vittorio Giacopini ha scritto un romanzo-saggio su B. Traven, scrittore la cui biografia ha in sé del romanzesco (basti leggere l’avvincente voce che gli dedica Wikipedia). Lo ha recensito Nicola Villa sull’Indice di luglio/agosto. Immagine via keaggy.com. M.S.]

Nicola Villa

Chi fosse B. Traven, autore dagli anni trenta ai cinquanta del Novecento di alcuni best-sellers mondiali come La nave morta, I ribelli, Il ponte nella giungla e Il tesoro della Sierra Madre (da cui John Houston trasse anche un film premiato con l’oscar), è ancora oggetto delle più diverse ipotesi: la più accreditata era che dietro questa firma si nascondesse Ret Marut, cabarettista anarchico tedesco amico di Erich Müsham, ma alcuni supponevano che Traven avesse origini di alto lignaggio prussiano, altri che fosse il prestanome di Trotsky in esilio in Messico e altri ancora che fosse il redivivo Jack London.  Sta di fatto che i suoi romanzi avventurosi e realistici piacevano a un pubblico mondiale di lettori proletari e vennero tradotti in tutto il mondo passando per il mercato americano – in Italia vennero pubblicati da Longanesi – per poi essere rapidamente dimenticati e non più ristampati. Buona parte del successo di Traven era dovuto alla sua abilità nell’ingannare i media, nel costruire l’immagine moderna di scrittore proteiforme senza volto e senza nome, di essere nella sostanza l’anticipatore di tutta una serie di scrittori fantasma o scrittori letterari che hanno fatto della messa in crisi identitaria una vera dichiarazione di poetica come Salinger, Pynchon, Pessoa, Jane Somers, Roland Camberton, il Kilgore Trout di Vonnegut e il Benno von Arcimboldi di Bolaño. “È stato il maestro segreto di tutta una generazione di reclusi. Scrittori latitanti, avventurieri da scrivania, improvvisati prestigiatori smarriti dentro un gioco di specchi tutto loro”, scrive Vittorio Giacopini nel suo ultimo L’arte dell’inganno, un romanzo dal titolo omerico tutto dedicato alla figura nebulosa e indecifrabile di B. Traven.

Giacopini racconta la vicenda di questo scrittore in tre parti – sempre mantenendo il beneficio del dubbio e tenendo vive le piste alternative – prendendo le mosse da una citazione di Joyce in esergo: “Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la chiesa; e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio, l’astuzia”. La prima parte è quella dell’“astuzia” in cui si accenna all’impenetrabile infanzia per poi addentrarsi nella prima guerra mondiale per raccontare l’attività di Ret Marut come giornalista e scrittore, per svegliare le coscienze, agitatore anarchico e cabarettista, per sconvolgere la morale pubblica, nei terribili anni politici della sconfitta Repubblica Bavarese dei Consigli e del movimento della Lega degli Spartachisti di Rosa Luxemburg. La seconda è quella dell’“esilio” in America centrale, quella dell’“uomo dai mille percorsi”, dell’avventuriero nella foresta del Chapas, degli incontri e del momento vero e proprio della scrittura dei romanzi. Ed infine la terza è quella del “silenzio”, quando già Traven non scrive più e si ritira a Città del Messico, rinunciando a qualsiasi coinvolgimento con l’impegno e con la storia che ha capito, come del resto per tutta la sua vita, in anticipo.

L’arte dell’inganno può essere letto, come i precedenti romanzi di Giacopini tutti dedicati a biografie di artisti irregolari, come un romanzo-saggio o romanzo-vita nel quale conta il messaggio politico di fondo che in questo caso è l’inganno della politica e della storia, ribaltando il titolo. Traven è infatti un uomo in fuga che cambia faccia come un novello Proteo perché ha capito prima di tutti come andranno a finire le cose, quando ad esempio scrive il suo ultimo articolo nel 1919 mettendo in guardia, in un modo che può sembrare paranoico, sulla nuova guerra permanente che sta per scoppiare. La sua è un’esistenza non accentante del sistema in cui è condannato a vivere, un’esistenza sintetizzata nel motto, o slogan, che si ripete come un mantra: “io non sono un contemporaneo”. Ma Giacopini ci dice, con un’altra formula che potrebbe sembrare un verso di Bob Dylan, “forget the man”, cioè che l’uomo, l’individuo, l’ego, l’io vanno tutti dimenticati, che questa rinuncia esistenziale alla fine non può diventare eroica, non ci può essere apologia per il disimpegno totale dalla propria epoca. Diversamente dalle sue opere passate Giacopini sembra allontanarsi più radicalmente dal suo protagonista, al lasciarlo più solo, evitando l’apologo soprattutto nell’ultima parte del “silenzio” e della rinuncia a qualsiasi coinvolgimento. Se nel precedente Re in fuga (Mondadori 2008), romanzo sulla vita dello scacchista Bobby Fisher, si avvertiva una vibrante adesione politica, in quest’ultimo si percepisce il distacco e la disillusione del tempo, attingendo anche a quel pozzo affascinante rappresentato dai romanzi e dalla cultura prodotti negli anni ’30.

Nicola Villa

Vittorio Giacopini, L’arte dell’inganno, Fandango, 2011, 281 p.

da: L’Indice, n. 7-8, 2011, p. 19

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *