Quale futuro per la filologia germanica?

Fulvio Ferrari

(Intervento tenuto alla tavola rotonda Il futuro delle discipline umanistiche, organizzato dall’Associazione Italiana di Germanistica, Roma, 25 giugno 2011)

La crisi che l’insegnamento delle discipline umanistiche sta attraversando nel nostro paese ha indubbiamente specifiche cause nazionali e dipende in larga misura da inaccettabili scelte politiche contro cui è fondamentale che tutto il mondo dell’insegnamento e della cultura manifesti la sua più netta opposizione. Al di là degli interventi politici locali, tuttavia, è innegabile che sia in corso un profondo mutamento nel rapporto tra cultura, società e università su scala molto più ampia, sicuramente europea, forse mondiale. E’ dunque indispensabile che la nostra riflessione si articoli su più livelli: da un lato dobbiamo far fronte, nell’immediatezza, a politiche che rendono difficile assicurare la sopravvivenza stessa dei nostri ambiti di studio, dall’altro dobbiamo sviluppare una discussione che affronti con la massima lucidità la questione del ruolo della cultura umanistica nella società del XXI secolo, tenendo conto dei cambiamenti in corso nel modo di acquisire informazioni e formazione, di comunicare, di interagire. Solo in questo modo, infatti, saremo in grado di riconoscere una strada da percorrere, obiettivi da raggiungere, e su questi obiettivi chiamare a un confronto chi sembra opporre alle nostre richieste e alle nostre proposte la pura e semplice certezza della nostra totale inutilità.

Proprio da qui, dalla questione dell’utilità o dell’inutilità del sapere umanistico, e in particolare dello studio delle letterature e delle filologie, vorrei prendere l’avvio per la mia riflessione. Non intendo qui approfondire la questione (importantissima, anzi, forse la più importante di tutte) dell’utilità delle discipline umanistiche per la formazione del cittadino, per la sua educazione a un ruolo attivo e consapevole nella comunità. Mi limiterò invece alla questione, più ristretta, forse, ma di grande attualità, relativa all’utilità delle discipline umanistiche per un inserimento attivo e gratificante nel mondo del lavoro. Paradossalmente proprio la sempre maggiore diffusione dell’apprendimento linguistico rischia di mettere in discussione l’opportunità di seguire corsi di studio specificamente dedicati a questo tipo di insegnamento. Se infatti la conoscenza delle lingue straniere è requisito indispensabile per il successo di un ingegnere, di un economista o di qualsiasi altro laureato, e se dunque le lingue straniere vengono insegnate anche a ingegneria, economia e in qualsiasi altra facoltà, perché mai un giovane dovrebbe scegliere di frequentare corsi di studio in lingue e letterature? E perché questi corsi di studio dovrebbero lasciare spazio a una disciplina così poco ‘spendibile’ sul mercato del lavoro come la filologia (germanica, romanza, slava, da questo punto di vista non c’è differenza)?

Siamo tutti abituati, credo, a questo genere di argomentazioni, argomentazioni che ci vengono proposte da parti diverse, sicuramente in buona fede, preoccupate di assicurare un futuro agli studenti e impegnate nella ricerca di un’organizzazione della didattica che risponda all’evoluzione della cultura e della società. E tuttavia mi sembra che queste argomentazioni siano caratterizzate da una sorprendente miopia, dall’incapacità di guardare alla società nella sua complessità e nel suo dinamismo. Basta infatti rivolgere uno sguardo non offuscato da pregiudizi alla realtà contemporanea per rendersi conto di quanto anche la nostra società italiana di oggi sia percorsa da passioni culturali, umanistiche, specificamente letterarie. Festival della letteratura (e della filosofia, e dell’arte) si organizzano in tutta Italia, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, disposte a muoversi, a pagare, a sostenere lunghe file per sentire scrittori e intellettuali impegnati in dibattiti certo non immediatamente finalizzati a ‘ricadute’ economiche. Fenomeni di fandom di specifici autori e di interi generi si manifestano in tutta evidenza se solo ci si avventura nel labirinto del web, addentrandosi in blog e in siti dedicati. Nonostante i periodici allarmi (peraltro non privi di fondamento) lanciati sulla scarsa alfabetizzazione del nostro paese e sulla sua arretratezza al riguardo rispetto agli altri paesi europei, il bisogno di cultura umanistica è presente e quasi prepotente tutt’intorno a noi. Perché dunque se ne ha così poca consapevolezza?

La risposta credo sia da ricercarsi in due diversi e opposti ordini di pregiudizi: da un lato i nostri pregiudizi, i pregiudizi di noi studiosi accademici. Formati in un mondo culturale che nel frattempo si è radicalmente mutato, troviamo un’indubbia difficoltà nell’includere nel nostro campo visivo fenomeni che hanno origine e si sviluppano all’infuori dei canali tradizionali. Abituati a canali di informazione e di formazione quali la scuola, l’università, l’editoria, e – perché no – la televisione, fatichiamo a renderci conto che gli strati più dinamici della nostra società traggono ormai la maggior parte delle informazioni da altri canali, e così ci dilunghiamo a volte a lamentarci dell’effetto diseducativo dei palinsensti televisivi senza prendere atto del fatto che i nostri studenti la televisione non la guardano quasi più. Spesso, inoltre, tendiamo a confondere passione per la letteratura e passione per quello che noi riteniamo essere il canone letterario, sovrapponendo un immediato giudizio di valore e una gerarchia di qualità ai bisogni di letteratura socialmente diffusi. Dall’altro lato abbiamo i pregiudizi squisitamente ideologici di chi, ormai da decenni, ha deciso che la cultura umanistica è noiosa e superata, inadeguata ai bisogni di creatività e di comunicazione del mondo contemporaneo, e che dunque continua a riproporre come terreno avanzato su cui investire energie e risorse tutto il campo delle comunicazioni video, dell’entertainment e del mondo pubblicitario, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che la cultura umanistica, fuori dalle televisioni e dai corsi di scienze delle comunicazioni, non ha affatto perso la sua vitalità.

Ora, sempre tendendosi su un livello generale di riflessione, mi chiedo se sia pensabile che tutta questa vasta rete di passioni, bisogni, organizzazioni ed eventi possa organizzarsi e svilupparsi senza l’apporto professionale di persone che hanno avuto una specifica formazione umanistica e letteraria. E’ possibile organizzare un festival della letteratura senza sapere nulla di letteratura? Scegliere chi invitare, scegliere chi farà da intervistatore, fare da intervistatore, preparare materiale informativo senza sapere a fondo di cosa si sta parlando? E la stessa cosa, naturalmente, vale per la gestione dei siti web, delle riviste (cartacee e soprattutto, ormai, on-line), di ogni genere di eventi legati a interessi umanistici. E davanti a tutto questo dobbiamo continuare a sentirci dire – e spesso ad ascoltare senza reagire – che l’unica possibilità di inserimento professionale per i nostri laureati è rappresentato dall’insegnamento?

Mi sia concesso ora spendere qualche parola sull’ambito disciplinare che qui rappresento, la filologia germanica (e vorrei sottolineare che sto per proporre delle riflessioni del tutto personali, non una posizione espressa dall’insieme dei miei colleghi filologi germanici). Da sempre questa disciplina trae la legittimità della sua collocazione nei diversi percorsi formativi delle facoltà umanistiche proprio dal suo carattere complesso e, per certi versi, ibrido. Quando si usa l’etichetta disciplinare ‘Filologia germanica’ si fa riferimento a una serie di competenze e aree di interesse diverse, capaci nel loro insieme di fornire uno specifico approccio metodologico, mentre, se prese separatamente, queste competenze e aree di interesse interagiscono con altre discipline che contribuiscono alla formazione complessiva degli studenti. In estrema sintesi: si suppone che un corso di filologia germanica introduca lo studente allo studio dei documenti scritti del medioevo germanico, fornendogli gli strumenti metodologici necessari per ricostruirne i contesti linguistici e culturali, ma nel farlo gli permette anche di vedere le sue lingue di studio in una prospettiva storica e, al contempo, gli fornisce almeno le informazioni di base sul periodo letterario medievale.

E’ dunque legittimo chiedersi se questi ‘pacchetti di formazione’ forniti dalla filologia germanica vengano o meno toccati dai fenomeni di cui si è discusso sopra. Anche in questo caso, gettare uno sguardo al di fuori dell’università e avventurarsi nel web può fornire qualche informazione interessante. Può risultare sorprendente, infatti, rendersi conto di quanta cultura medievale – reinterpretata, reinventata o addirittura falsificata – circoli socialmente. Il web pullula di siti sui vichinghi, sulla cultura anglosassone, sui Nibelunghi, sulla mitologia nordica. Anche mezzi di comunicazione che ormai dobbiamo considerare più tradizionali, come il cinema o i fumetti, si appropriano dei testi del medioevo germanico e li ripropongono a un pubblico vasto e non specialistico: sono almeno cinque i film che dal 1995 al 2008 riscrivono nei modi più diversi il Beowulf anglosassone; due film del 2004 e del 2005 rinarrano la leggenda nibelungica e numerosissimi sono i romanzi e i racconti fantasy che a questi due classici medievali si sono ispirati nel corso dell’ultimo decennio.

Davanti a questi fenomeni possiamo chiuderci in un atteggiamento sdegnoso e infastidito, possiamo rilevare quanto venga frainteso o volgarizzato degli originali, possiamo sottolineare come solo una preparazione specifica possa mettere in grado di intenderne il senso profondo. Eppure, proprio a partire da quest’ultima considerazione, credo che dovremmo cogliere una opportunità per aprirci a un dialogo con fenomeni culturali diffusi e che coinvolgono ampiamente i nostri stessi studenti. Abbiamo a che fare con una cultura che si impossessa dell’immaginario medievale, che lo utilizza e lo investe di significati nuovi: non dovremmo essere noi in grado di dialogare con questa cultura, di mettere i nostri strumenti a disposizione di una visione più ampia e più profonda? Il sapere che noi abbiamo e che possiamo trasmettere è un sapere che può ampliare la conoscenza dei testi medievali, può arricchire l’immagine del passato (quanti testi medievali affascinanti, stimolanti, divertenti sono ancora ignoti al grande pubblico?) e, al contempo, può fornire gli strumenti di analisi sia per capire le radici medievali della nostra cultura, sia per assumere coscienza di quanto il ‘medievalismo’ corrente – e perfettamente legittimo come fenomeno della contemporaneità – sia cosa diversa dalla cultura medievale. L’interesse per questo discorso è già presente nella società che ci interroga e – per quanto più strettamente ci riguarda – nei nostri studenti. Sta a noi trovare il modo giusto per aprire un dialogo davvero produttivo.

Se, per concludere, prendiamo in esame la questione dal punto di vista dell’organizzazione della didattica, credo che sia opportuno elaborare delle specifiche strategie formative per ognuno dei livelli in cui il nostro sistema di formazione si articola. Al primo livello (quello delle lauree triennali) credo che i due obiettivi da perseguire prioritariamente siano: 1. quello di far maturare negli studenti una presa di coscienza del contributo della cultura medievale all’immaginario moderno, favorendo lo sviluppo di un atteggiamento critico e la capacità di mettere a confronto la cultura medievale con la sua immagine corrente; 2. quello di operare una stretta connessione tra le informazioni di base sulle lingue e le letterature delle genti germaniche nel medioevo e le successive evoluzioni. Per intenderci, non credo che a questo livello si possa raggiungere una conoscenza approfondita né di una lingua né di testi letterari germanici antichi, ma si può ottenere una visione generale e tuttavia non banale delle linee di sviluppo sia linguistiche che culturali. Al secondo livello (quello delle lauree specialistiche) mi sembra realistico porsi l’obiettivo della conoscenza di almeno una lingua germanica medievale e dello studio approfondito di un testo. Un testo, naturalmente, è una piccola isola – anche se magari si tratta di un testo di importanza capitale, come potrebbe essere il caso di Parzival, del Nibelungenlied, di Beowulf o dell’Edda – nell’oceano delle letterature medievali, e tuttavia quel che ci importa credo sia l’impadronirsi di un metodo di lettura, di un atteggiamento critico che metta poi in grado lo studente di seguire in futuro in modo autonomo la strada dei suoi interessi medievistici. Solo al terzo livello (quello del dottorato) credo infine si possa programmare la formazione di un vero e proprio filologo germanico, le cui competenze devono comprendere sia la linguistica, sia la scienza della letteratura, sia l’ecdotica. Questo non significa tuttavia che la presenza di filologi germanici nei collegi docenti di dottorato debba essere limitata alla formazione dei loro ‘successori’. Come un dottorando aspirante filologo germanico trarrà infatti un indubbio beneficio dalla frequenza di corsi di linguistica teorica, di scienza della letteratura, di filologia digitale e di tutte quelle discipline che contribuiscono alla sua formazione complessiva, anche un dottorando aspirante germanista moderno non potrà che trarre beneficio da un corso sul Nibelungenlied, così come un dottorando aspirante anglista moderno trarrà sicuramente importanti informazioni e suggerimenti metodologici da un corso sull’analisi di Beowulf. La strada che abbiamo di fronte è tutt’altro che semplice, ma l’unico modo per percorrerla contribuendo a un rinnovamento e a un rafforzamento delle nostre discipline e della cultura umanistica in generale richiede un confronto costante e aperto, sia tra di noi che tra di noi e l’insieme dei fermenti culturali che permeano e caratterizzano la società contemporanea. E’ una sfida difficile e non abbiamo alcuna garanzia di successo, ma credo che fare il possibile per raggiungere questi obiettivi sia nostro compito e dovere.

Fulvio Ferrari

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