Peter Handke, La montagna di sale


Immagine via istockphoto

Stefano Gallerani

«Forse Handke è un narratore un po’ aberrante, un lirico che perlopiù scrive romanzi perché nella lirica la parola uscirebbe troppo allo scoperto e dovrebbe essere abbastanza violenta da esorcizzare il vuoto che circonda il verso, e Handke nella parola teme, si sa, tanto l’inoffensività che la violenza. O al contrario: scrive perlopiù romanzi perché gli stati lirici dell’ovvio, sporadici, improvvisi – come sono certe ore fatate della donna mancina, in casa, la notte, un bicchiere d’acqua in mano, il silenzio e fuori le stelle – risaltano meglio nel continuo pacato della prosa». Con queste parole Anna Maria Carpi accompagnava, nel 1979, la versione a sua cura de La donna mancina (1975), uno dei testi centrali del secondo decennio creativo dello scrittore di Griffen (quello che seguiva il cubismo de I calabroni e si chiudeva col cromatismo stifteriano de Nei colori del giorno); e lo faceva schierandosi, tra i lettori di Handke, nel novero dei perplessi, abbagliata e, allo stesso modo, irritata dal carattere precipuo di una scrittura tersa e tesa ai limiti del sopportabile: «quell’ineffabile che appare ora soltanto un’emozione ora l’unica verità».

Pure, più di trent’anni dopo, e al di là della «polemica su Handke» (incomprensibile per l’attuale status quo della letteratura), questa appare ancora l’unica chiave d’accesso alla sua opera, col tempo rarefattasi nella densa fluidità dei procedimenti diaristici che già allora si modellavano (Il peso del mondo, del ’77) o nella fantastica enigmaticità di narrazioni sempre più solitarie ed irrelate (Il cinese del dolore, del 1983, o Il mio anno nella baia di nessuno, del 1994). Come a voler sparire nella pagina e in una parola che rifiutano la solennità delle immagini memorabili ma non si sottraggono alla cristallizzazione del paesaggio, Handke è andato inesorabilmente dissacrando nuclei di senso e equivoci contenutistici, rifugiandosi in una maniera paradossale (fideistica e primitiva) che non ha mancato d’esser letta, psicanaliticamente, come niente altro che la cattiva coscienza di ogni avanguardia.

E però, il giovane zazzeruto che sul finire degli anni Sessanta insultava il pubblico e s’augurava di vivere da scrittore piuttosto che esserlo, sembra sempre aver scartato qualsiasi attestazione critica, vigile e al contempo estraneo (o, meglio, straniato) rispetto agli esiti della sua indagine (che resta, per inciso, una delle più ricche di spunti degli ultimi decenni, quasi fosse la traccia d’una specie d’artista in via di estinzione). Impegnatosi da par suo, ovvero ellitticamente, in forme impreviste di vivere civico (per quanto, cioè, si evince dai suoi “reportage” politici), l’autore di Infelicità senza desideri e Falso movimento non ha smesso di scrivere romanzi: il penultimo, Don Giovanni (raccontato da lui stesso) data 2004, l’ultimo, appena tradotto in italiano, La montagna di sale (a cura di Claudio Groff, Garzanti, “Narratori moderni”, pp. 103), è di tre anni successivo. In entrambi, sebbene nella diversità di registro e riferimenti, a sorprendere è la presenza assente di una voce narrante che troppo banalmente potremmo identificare con quella del narratore in prima persona (una forma che lo stesso Handke sembra aver esautorato e depotenziato proprio dal momento che l’ha assunta come categoria dello spirito); non stupisce, invece, l’ambientazione fantastica, così pedissequamente oggettiva e reale da risultare più che artificiosa: simbolica, appunto. Ma allora, chi è davvero che parla ne La montagna di sale? E a cosa alludono i simboli che costellano ogni breve lassa di questa favola-romanzo?

A volerne ricostruire la trama – con l’aiuto, anche, del risvolto di copertina – potremmo accettare per buone queste righe riguardo l’avventura notturna della protagonista di Kali – Eine Vorwintergeschichte (così in originale): «La donna è tornata solo per rivedere un’ultima volta sua madre, ma appena comincia ad aggirarsi per le strette viuzze di pietra si rende che quello che non è più il luogo sereno e gioioso dei suoi ricordi. Perché tutti i bambini sono scomparsi, svaniti nel nulla inghiottiti dalla montagna di sale e dal triste destino che affligge coloro che vi si avvicinano». Per scrupolo di chiarezza, la donna è una famosa cantante lirica e le viuzze pietrose sono quelle del suo paese d’origine, ma come sempre in Handke (e a maggior ragione nei suoi titoli degli anni Novanta) ci si accorge presto che un’interpretazione simbolica palese (la scomparsa dei bambini come perdita dell’innocenza e la loro ricerca come itinerario per gradi verso la riappropriazione di sé) non è se non incongrua, e deve gioco forza lasciare il passo a una metafisica più profonda e tangente, in ossequio al ritmo pacato e lento che il romanzo-racconto di Handke impone trattando di pochissimo e di tutto.

Circonfuso di nebbia, popolato da personaggi fiabeschi e costellato di boschi, sentieri e declivi, l’ambiente de La montagna di sale non è meno realistico di quello borghese de La donna mancina e, come quello, di tale intensità e legatezza di realizzazione che ogni figura dismette infine i propri caratteri, come un attore che lavatosi il trucco diventi niente. Così il destino della cantante, che ha il dono di trovare ciò che si è perso meglio di chiunque altro, diventa il destino di nessuno e di ciascuno; e non bisogna aspettare molto perché si insinui il sospetto che la voce che narra la sua storia, come osservandola da una postazione riservata e prossima, sia proprio quella di colui che manca, l’assente, il bambino perduto – o quanto questo rappresenta – ma senza raggiri strutturali: così, semplicemente, perché dopotutto Peter Handke non parla che del nostro esistere circondati d’altri esistenti; perché «della sventura che arrechiamo con il nostro semplice essere qui non abbiamo colpa. Non sono più i tori cattivi, con intenzione, già nell’istinto, a calpestare, infilzare, squarciare, bensì i buoi odierni dallo sguardo fisso, irrisolti, inconsapevoli, peggio ancora: ignari».

Stefano Gallerani

da: Alias, n. 27, 9 luglio 2011

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