Lutz Seiler, Il peso del tempo

Anna Chiarloni

Rispetto ai grandi narratori tedeschi emersi nel  dopoguerra, come  Günter Grass o Christa Wolf, con Lutz Seiler siamo ormai alla terza generazione. Nato nel 1963 a Gera, nella Ddr, l’autore si è affermato sulla scena nazionale dopo la caduta del muro, profilandosi dapprima nel drappello di giovani poeti meritoriamente pubblicati dalla prestigiosa Suhrkamp,  per poi entusiasmare i lettori di prosa con questa pluripremiata raccolta di racconti, egregiamente tradotta da Paola del Zoppo. Diciamo subito che se dopo la ‘svolta’ una delle esigenze dei tedeschi era quella di una reciproca narrazione dei quarant’anni di storia divisa, Il peso del tempo va proprio in questa direzione:  la maggior parte dei racconti, di taglio prevalentemente autobiografico, si colloca infatti nella Ddr tra il 1945 e il 1990. La scrittura di Seiler avanza registrando le  sollecitazioni della memoria, un procedimento esplicitato fin dall’esergo di Coleridge al primo testo (Frank), che riprende l’incipit di The rime of the ancient mariner:  “Around, around flew each sweet sound…”. Abbiamo dunque a che fare con un percorso à rebours. Lo stesso titolo originale, Die Zeitwaage (il cronocomparatore ma, letteralmente, la bilancia del tempo) indica lo strumento che regola il battito dell’orologio e implicitamente allude a un’indagine che entra nella gabbia segreta del tempo individuale, misurandone, come nel racconto eponimo, gli andirivieni della coscienza, le oscillazioni tra l’inciampo del passato e un presente spalancato sulla  pagina bianca del futuro. Intersecano  questa struttura narrativa alcuni motivi ricorrenti, in particolare il gioco degli scacchi, che assume nella cronologia interiore dei singoli personaggi una funzione esistenziale. Un tratto originale della prosa di Seiler deriva poi  da un’attenzione antropomorfizzante per gli oggetti della memoria, l’orologio, la “cassettina” degli arnesi da lavoro, il contatore Geiger, tutte cose parlanti,  pronte a virare   in una scrittura surreale, non priva tuttavia di uno spiccato connotato materico.

Seiler è cresciuto in provincia, ci narra quindi di una Ddr minore, lontana dalla occhiuta tensione ideologica della capitale. S’intravede una vita di campagna in cui ci si arrangia, un mondo quasi tattile nella sua sobria, artigianale quotidianità.  Centrale appare la zona protetta del tepore familiare, ben resa attraverso la figura del padre, solido e asciutto minatore con cui l’io narrante condivide il gioco degli scacchi e quello dei motori negli anni dell’adolescenza  (Il balbuziente), dei primi trasalimenti amorosi (Il bacio sul cappuccio), e del sogno di orizzonti lontani, percepiti la notte ascoltando la radio. Ma non sono solo ‘dolci’ i suoni che affiorano dal passato. Culmitzsch, ad esempio: un paese con la biblioteca, il coro e il suo bravo (e proletario) club degli scacchi; nello stagno d’estate si fanno i bagni, d’inverno si pattina – ma il paesaggio è travolto dai detriti radioattivi della Wismut, l’impresa sovietica per l’estrazione dell’uranio in  Turingia, che alla fine degli anni Sessanta  rade al suolo  il villaggio “lasciando intatte solo le tombe dei morti”,  e una falla nel cuore degli abitanti evacuati (Il buon figliolo). E ancora: l’inquinamento della Buna e della Leuna, il “triangolo chimico” che ammorba l’aria; o la penuria edilizia, eterno problema irrisolto del socialismo reale. Tutti segnali  di mesto congedo da quella società, in cui tuttavia l’autore ha vissuto l’urgenza di  una continua ricerca di senso. Urgenza che pulsa e freme nella gioventù degli anni Ottanta.

Seiler ha la stoffa del narratore – e lo si vede nella sua capacità di ritrarre  i personaggi, non comune in chi scrive poesia. Si prenda Gavroche, la protagonista del racconto eponimo che c’introduce nell’ambiente universitario di Halle. Vivono in periferia, nelle baracche militari un tempo della Wehrmacht, gli studenti, ma le serate tra alcol e tabacco si accendono quando entra in scena lei, la gorgheggiante “regina degli scacchi”, la monella bionda riccia e ridanciana, capace di  giocare  contemporaneamente su tre scacchiere. E con Gavroche nasce una storia d’amore che Angelika Overath definisce  fra le più toccanti del nuovo secolo (“NZZ”, 12.10.2009).

Altri  racconti sono ambientati negli anni successivi alla caduta del muro. Turksib, di taglio surreale, narra  il viaggio con la transiberiana di un giovane autore verso il Kazakistan. Sono, questi, due indizi significativi: la grande opera ferroviaria staliniana e la regione del centro spaziale dal quale nel 1961 decollò Gagarin. Ma le glorie passate appaiono oggi come spettrali relitti della storia e il vagone arrugginito che avanza sferragliante nella steppa diventa lo spazio simbolico del tracollo dell’Urss. Nella notte l’incontro con il fuochista, russo e con la divisa in malarnese: un povero diavolo che di fronte al tedesco ormai aggregato all’occidente si mette sull’attenti. Passaggio  bruciante che segnala la  sconfitta dell’antico “fratello d’arme” e tuttavia il gesto, con un andamento ossimorico caro a Seiler, si ribalta in un contrappunto poetico: avvinghiato al corpo del narratore atterrito, il fuochista gli rantola addosso la Loreley di Heine. Per un attimo le due figure si saldano in uno spasmo  rammemorante.  Il racconto diventa allora elegia postuma di una “comunanza”  scomparsa e  insieme cicatrice della morsa sovietica, “sensazione di una perdita” ma anche ripulsa dell’ubbidienza a Mosca –  fino alla parola del narratore che come una sentenza chiude la notte: nie wieder: “mai più”.

Il Cronocamparatore registra in prima persona le mutazioni di Berlino Est nei primi mesi del 1990. Le case deserte di  chi è migrato verso ovest vengono ora occupate da chi proviene dalla provincia, in cerca di fortuna nella nuova economia (terziaria) della capitale. Come il giovane narratore, un tempo muratore e ora cameriere in un caffè seminterrato a Mitte. Una buona paga per una vita qualunque. Fino a che tra gli avventori non compare un operaio del cantiere attiguo. Nei tratti, nella sovrana sicurezza  dei gesti, nello sguardo “rivolto al mattino”, l’uomo sembra uscito da un romanzo di Anna Seghers. Seiler, muratore e falegname prima degli studi universitari, ha parole commosse  per “il tempo delle promesse” socialiste. Scatta nell’io narrante il ricordo  di una “totalità perduta”, di una “incrollabile” solidarietà di classe.  E insieme l’impulso a scrivere. Nella Berlino riunificata l’operaio muore fulminato in un incidente sul lavoro. Muore solo, ridotto a fantasma eterodiretto, agito da fili invisibili, di fronte a una folla che assiste muta. Ma i rapidi, convulsi appunti del protagonista si fanno testimonianza, indizio di una voce comune che cerca l’uscita nella trama della scrittura, incorporando nel testo l’effigie di un mondo scomparso.

Anna Chiarloni

Lutz Seiler, Il peso del tempo, edizione originale 2009, traduzione dal tedesco di Paola Del Zoppo, Roma, Del Vecchio, 2011, 222 p.

di prossima pubblicazione su: L’Indice

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