Hans Deichelmann, “Ho visto morire Königsberg”

Anna Chiarloni

DeichelmannHa fatto bene Mursia a tradurre questa agghiacciante cronaca (1945-1948) di una Königsberg occupata dai sovietici, edita in Germania da Sigfried Bublies, un editore specializzato in storia militare. Ma ha fatto male a pubblicarla in questo stato: con una prefazione di tal Friedrich Hoffmann non datata e rutilante di un revanscismo caratteristico della letteratura nazionalista anni Cinquanta: un testo – il linguaggio è esplicito – indirizzato non solo ai tedeschi della Prussia orientale, “derubati della loro patria”, non solo “ai dodici milioni di tedeschi orientali cacciati dalla loro terra, ma a tutti coloro che hanno interesse alla cultura dell’Occidente cristiano”. Quasi che la Merkel fosse in procinto di rivendicare la restituzione di Kaliningrad! Ci voleva insomma un’introduzione che chiarisse l’origine e le coordinate storiche di memorie redatte a posteriori in una forma, quella del diario, che si appella alla testimonianza diretta reclamando l’assoluta autenticità del hic et nunc. Qualcosa, è vero, ce la dice l’ottimo traduttore Artemio Focher in una nota a piè pagina. Da lui apprendiamo che l’autore, il medico Hans Schubert (1906-1951), ha scritto sotto pseudonimo per via della “traumatica paura dei russi”; che fu difficile trovare un editore che non avesse timore di ritorsioni sovietiche; che alla fine accettò il manoscritto la Bublies di Aachen, perché “sufficientemente lontana dai russi”. E vicina all’area dei Republikaner – aggiungiamo noi.
Il libro suscita insomma una certa diffidenza – e tuttavia è da leggere per diversi motivi. C’è la narrazione dettagliata delle sofferenze patite dai civili tedeschi di Königsberg – 80.000 morti tra il 1945 e l’evacuazione del 1948 – ma anche il confronto tra due mondi, quello tedesco – progredito, disciplinato e gerarchico – sotto il tallone di un vincitore ferito, povero e quindi spietato, illuso al tempo stesso di poter integrare i vinti in un pericolante sistema burocratico di denazificazione e ricostruzione postbellica. Sigillato il confine nel dicembre del 1945, Königsberg resta al di là della cortina di ferro, esclusa da ogni notizia occidentale. Stalin è ghiotto di quello sbocco sul Baltico ma la sua politica oscilla. L’Armata Rossa prima requisisce: orologi e microscopi, strumenti clinici e macchinari, apparecchi fotografici e radiofonici. Specchi e pianoforti. La spoliazione è però soprattutto umana. Hanno licenza di caccia e di grappa quei soldati sovietici che si avventano sulle donne e s’imbrattano nella cancrena scura di violenze irriferibili. Successivamente Mosca immette in città i civili russi. Arrivano giovani donne medico ma anche gente povera, una Russia contadina che l’autore ritrae costernato: “Gli uomini indossano un sudicio berretto blu con visiera, un cappotto con maniche sfilacciate, orli strappati, bottoni ciondolanti, stoffa lacerata, maniche lise”. I bambini “vestiti di stracci e a piedi nudi cercano tra le macerie qualche vecchio ciarpame”. È una lotta per la sopravvivenza. I tedeschi sono allo stremo, si arriva al baratto di tutto, anche di carne umana. Col disgelo riprendono i lavori nei campi. Vengono istituiti i Kolchoz e se mancano i trattori in data 10 maggio 1946 si legge: “semplicemente alcune dozzine di donne tedesche vengono attaccate davanti all’aratro e così con quel pesante aratro si va avanti e indietro sul campo dalla mattina finché si crolla. Questa è la pura verità, che Iddio mi aiuti”.

Poi le direttive cambiano e si tenta di arruolare nell’esercito russo i prigionieri tedeschi, stampigliati come cittadini di Kaliningrad. Ufficialmente vige la parità di diritti ma filtrano voci di “specialisti tedeschi deportati in Russia con la forza”. Per contro nell’autunno del 1947 inizia il lento rientro in Germania, ecclesiastici, suore e famiglie assiepate in “vagoni zuppi di pioggia”, sedute sui propri fagotti. Deichelmann è tra gli ultimi a essere evacuato. Lo vediamo ancora aggirarsi tra le macerie dell’antica università e invocare Kant davanti alla tomba profanata, richiamando il suo insegnamento “sulla dignità dell’uomo, sulla nobiltà del dovere, sull’ideale dell’autodisciplina”. Ma è un’invocazione che risuona astratta, avulsa dal contesto. Ed è proprio questo aspetto che fa riflettere: è l’occhio ‘innocente’ del medico ospedaliero che registra le sofferenze dei tedeschi e i soprusi cui vengono sottoposti – fame e freddo e maltrattamenti – senza che mai affiori la consapevolezza di una colpa pregressa, per non dire la percezione di una nemesi storica. Eppure al lettore non sfugge la simmetria del contrappasso: le immagini di quei corpi tedeschi denutriti, di prigionieri estenuati dalle marce forzate, quei vani pieni di ratti e di cimici, i tentativi di fuga e quelle scarpe rotte nel gelo dell’inverno le conosciamo dalla letteratura dei sopravvissuti alla persecuzione nazista. Sorge allora la domanda: cosa sapevano i tedeschi dei campi di concentramento hitleriani e della disumanità dei loro aguzzini? Deichelmann, che rivendica “l’eccellenza spirituale” del glorioso ateneo di Kant, dove lui stesso dal 1940 aveva insegnato Igiene e Batteriologia, non poteva ignorare che l’Albertina era stata una punta avanzata del razzismo nazionalsocialista. Ma proprio questo rivela il libro: ancora nel 1948, l’anno di stesura delle memorie, un medico tedesco colto e di buona penna, di fede cristiana e di liscia bravura professionale, diligente – e ammettiamo anche: veritiero nelle sue relazioni – sembra non sapere cosa sia successo nel Terzo Reich. “Noi abbiamo vissuto il destino dell’agnello nel recinto del lupo” – dirà in conclusione, prima di essere spinto una domenica di marzo del 1948 su un carro bestiame di ritorno verso occidente. L’agnello tedesco e il lupo sovietico? È la cecità del gregario che osserva la vita dalla sua specola, che scrive e ricorda in apnea, senza alzare lo sguardo sulle vicende del mondo. E tuttavia questa lettura va affrontata: la descrizione minuziosa della moria in quell’ospedale che è tana, ventre e sepolcro dei civili tedeschi costringe a scendere nell’obitorio della storia, a continuare a cercare una verità di ragione nell’ossario del passato europeo.

Anna Chiarloni

Hans Deichelmann, Ho visto morire Königsberg. 1945-1948: Memorie di un medico tedesco, edizione originale 2000, traduzione e note di Artemio Focher, Milano, Mursia, 2010, 321 p.

da: “L’Indice”, Giugno 2010

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