Terézia Mora, “Tutti i giorni”

Anna Chiarloni

Col crollo del muro Berlino ha cambiato volto: i quartieri orientali hanno perso molti abitanti trasferitisi in occidente, lasciando spazio ai nuovi arrivati dall’est europeo – basti pensare alla cosiddetta “russische Szene” di Vladimir Kaminer. In letteratura si nota una spiccata varietà stilistica, ricca di nuovi innesti tematici. Prevale la tendenza a una scrittura visionaria, svincolata dai dettami narrativi più tradizionali, dal messaggio esplicito al lettore. Gogol, insomma, piuttosto che Brecht – come si vede bene in Tutti i giorni di Terézia Mora, soprattutto nell’ampio capitolo intitolato Delirium. Ma per questo acclamato romanzo si potrebbe richiamare anche il cinema di Kusturica, in particolare per la figura di Kinga e gli aspetti folklorici di cui diremo.

Nata nel 1971 a Sopron – un centro commerciale ungherese incuneato in territorio austriaco – la Mora è bilingue ma scrive in tedesco, la lingua della nonna. In Ungheria frequenta una scuola severa, normativa, che le suscita un forte un impulso libertario. In Tutti i giorni questo tratto lo si coglie nell’artificio della Korrektur che rivendica “la libertà di sbagliare” e di esporla sulla pagina, quasi bandiera di una nuova soggettività, contro quella scuola “troppo rigida nella punizione dell’errore”. Di qui anche la serie di accorgimenti grafici: una scrittura figurale, che tenta di riprodurre effetti fonici, si contrae in abbreviazioni, opera redazioni diverse dello stesso episodio, procede per scarti cronologici – tutti segnali di una complessità del reale che mirano al rifiuto di una verità assoluta. Trasferitasi nel 1990 a Berlino, Mora studia drammaturgia, sposa un informatico e pubblica nel 1997 i primi racconti che le varranno il Premio Bachmann.

Mettiamo a fuoco la sua visuale negli anni Novanta. Per chi sopraggiunge in Germania, la divisione tedesca è ormai acqua passata. Il dato che invece investe la scrittrice con tutta la sua improvvisa, inaspettata ferocia è la guerra in Jugoslavia. A colloquio con l’autrice subito riaffiorano i dati: a Srebrenica sono stati uccisi nel 1995 8000 bosniaci tra i 12 e i 77 anni. È dunque la guerra il nucleo originario del romanzo. La recente storia con le sue trappole etniche è un serbatoio narrativo tale che non necessita dell’intervento fantastico, annota Mora con evidente amarezza nel prologo: “Mentire non è necessario. La vita è densa di casi atroci e di eventi infiniti. Lei capisce”. Certo, capiamo, basti pensare alla guerra in Afghanistan.

Protagonista del romanzo è Abel Nema, un giovane profugo omosessuale, di padre ungherese e di madre tedesca. Un ragazzo che in fuga dalla guerra si è trasferito ventenne in Germania. Lo troviamo dopo tredici anni nel quartiere orientale di B. bastonato e appeso a testa in giù in uno squallido giardino pubblico.

Nell’ampio corpo del romanzo si legge la storia di un naufragio esistenziale – fin dal nome: cifra di un’identità cancellata. Abel come Abelardo, il monaco evirato della Nouvelle Héloise. Nema come un Nessuno destinato alla rimozione sociale. Ma anche “barbaro” – come dirà Kinga, voce sanguigna nella polifonia di Mora. Questa piccola filologia onomastica culmina da una parte nella negazione, dall’altra orienta la figura verso l’area germanica, ritagliandola nella definizione slava, Nemec appunto, di un’identità tedesca. Oscillazioni narrative caratteristiche della scrittura della Mora e funzionali alla dissolvenza dei solchi etnici.

L’omosessualità marca la diversità di Abel, innescando un’altra solitudine, quella di Mercedes, ed è strumento di denuncia di un’intolleranza. Quel corpo battuto, livido di colpi rimanda all’iconografia di un S. Sebastiano. Abel è segnato dalle ferite ma anche da vecchie cicatrici. Abbandonato dal padre, appena liceale vive lo scandalo della sua omosessualità, mentre del compagno si troveranno solo i resti dispersi nel mattatoio della guerra. Abel scampa a un reclutamento forzato e fugge in Germania. Il motivo della defezione evoca una poesia della Bachmann che ritroviamo anche nel titolo del romanzo: “Alle Tage”. Ma se in quei versi la fuga era ancora un atto eroico, una stella della speranza “appuntata sul cuore”, nella prosa della Mora questo pathos è svanito. Qui non c’è una résistance come in Sartre o in Amery. La diserzione di Abel è sì morale ma il protagonista non è immune dalla vergogna. Per il profugo non c’è ritorno perché corrotta è ormai la Heimat da quei “cadaveri nell’acqua, serrati l’uno contro l’altro come dorsi di maiale su un camion”. Abel ci dice lo spaesamento di una displaced person nell’Europa del XX secolo. È il cittadino di uno stato scomparso che articola – lui mite e innocente – un senso di colpa comunitaria, un’assunzione di responsabilità nei confronti del fratricidio balcanico, senza distinzioni tra serbi e bosniaci.

Un linguaggio cancellato, la mancanza di senso di orientamento – queste le cifre dello sradicamento di Abel. Né la padronanza di altre lingue straniere costituisce una sponda perché imparate la notte in un laboratorio linguistico, e assunte quindi come maschere acustiche avulse dal pulsare della realtà. Abel resterà un estraneo, un essere che nel ritratto materico di Mercedes sa “di sala d’aspetto, panche di legno, stufa a carbone, binari dismessi – come un sacco coi resti di cemento buttato tra i cespugli, come sale e cenere su una strada gelata”. Con Mercedes entriamo nel complesso rapporto tra l’immigrato e la Germania degli anni Novanta. Figura di ragazza madre tedesca – ha un bambino menomato, Omar: unico barlume di paternità concesso al protagonista – Mercedes ha i generosi tratti di una bontà trasognata. Non esita a sposare Abel per redimerlo dal suo stato di sans papier, dandogli così una nicchia, quasi una storia d’amore.

Grazie alla scrittura indiziaria di Mora il lettore riconduce la città di B. alla Berlino successiva al crollo del muro: la desolazione di certi quartieri orientali, i magazzini deserti e i ricoveri stracolmi di immigrati, le strade battute da gruppi di giovani sbandati, tutto questo rimanda alle periferie orientali della capitale. La folla straniera è composita. C’è Gabor, il docente inserito nella società tedesca che procurerà una borsa di studio ad Abel. Ma sintomatico di un certo sprezzo di fondo è la sua espressione riferita alla Germania: “Questa è gente che ha denaro!” E nella scala sociale, giù a scendere: dai clandestini che alloggiano nel casermone dalle finestre piombate fino ai barboni del giardino pubblico, un olimpo di straccioni con i loro cani, inermi di fronte alla banda dei Rom che ridurranno Abel in fin di vita.

Al centro s’incastona il ritratto di Kinga. Con lei il lettore penetra nella ‘Szene’ notturna della Berlino orientale. Di origine armena, Kinga è una sorta di lupa felliniana. Riccia e procace, bocca e sguardo accesi dallo Sliwowitz, è la “Marschallin” del regno di Kingania, un’enclave di musicisti slavi che campano suonando la notte nei locali tedeschi. In un misto di istinto protettivo e sapienza erotica, Kinga manovra il corpo di “quel seminarista” accendendogli i sensi. E lotterà fino al suicidio per quella virilità mite, per quell’ affetto obliquo.

Mora tratteggia una Germania che parla una sola lingua, quella del controllo dei documenti. Per questo paese del richiamo all’ordine, la scrittrice trova accenti ironici. Si veda il prelato che in carcere si appella a “quello che da noi è eccelso: legge e ordine”. Scintille di sarcasmo sono riservate a quell’equipe di scienziati che prima cartografano il cervello di Abel – genio dell’apprendimento linguistico – per poi avventarsi sul suo corpo crocifisso registrandone gli esiti negativi a livello neuropsichiatrico. Se qui Mora opera secondo un cliché che fa coincidere il tedesco con una ratio fredda e ossessivamente catalogatrice, più incisiva è la sua analisi della criminalità metropolitana: è nella guerra dei Balcani che la scrittrice vede la causa dello sfacelo sociale. Il dato di fondo è la frantumazione della rete familiare: figure travolte dalla piena che corre verso il benessere occidentale. Come Eka, la ladruncola georgiana col neonato al collo, o il pasoliniano Danko, figlio di padre violento e pronto a prostituirsi in cambio di protezione. Sono comparse dell’illegalità che hanno la pietas dell’autrice. Diversa è la funzione dei Rom – portatori, questi, di un grumo di ferocia ormai irredimibile. Mora incide nella giovane carne di una comunità che è stata perseguitata dal nazismo. Suppongo che sia proprio la provenienza della Mora, esterna alla Germania, a consentirle una maggior spregiudicatezza. C’è un crescendo negativo nella rappresentazione dei giovani nomadi: dalla beffa all’incendio del vecchio agguantato nel parco, Mora mette in scena il transito da un’adolescenza sbandata ad una vita violenta. Kosma soprattutto – con quel suo corpo da bestia – sarà lui a capitanare la crocifissione di Abel, riducendolo ad un balbettante relitto senza memoria.

Tutti i giorni non ha un andamento lineare, tocca al lettore ricomporre il filo degli eventi, celati o allusi, di episodi ripiegati tra analessi e prolessi, oppure disdetti dai repentini cambi di prospettiva. C’è tuttavia una sorta di sintesi dei vari motivi che attraversano il testo: è il capitolo intitolato Delirium. Come in una seduta psicanalitica emerge il disagio della non appartenenza, l’inciampo linguistico di chi è bollato come alieno, processato lungo un percorso kafkiano di accusa e rivalsa di fronte ad un pubblico sguaiato e irridente. Il motivo, centrale nel romanzo, dell’apatride si articola nella struggente domanda: Posso restare? È la richiesta del clandestino cha sa di venir tollerato solo se disposto a ridursi ad “ameba”, inappariscente e residuale come una foglia secca tra i sassi.

Esclusione e isolamento sono cifre esistenziali del Novecento. Ma in Abel si ravvisano i tratti di quell’esilio che molta letteratura, da Arendt a Said, ha descritto nelle sue pieghe di orfanità, d’insopportabile costo psichico della non appartenenza. Se da una parte la non-identità si rifrange nella scelta consueta della trama spezzata e nella negazione di un momento pacificato, dall’altra il contesto specifico in cui si ambienta Tutti i giorni ci parla dell’oggi, dell’avara solitudine in cui vivono tanti immigrati. Dalla periferia della lingua tedesca ci arrivano da tempo diversi segnali. Riguardano tutto l’occidente.

Anna Chiarloni

Terézia Mora, Tutti i giorni, ed. orig. 2004, traduzione dal tedesco di Margherita Carbonaro, Milano, Mondadori, 2009, pp. 441 p.

Tratto da “L’Indice”, Dicembre 2009.

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