L’anima buona della Stasi

Matteo Galli

Con un anno esatto di ritardo rispetto alla prima tedesca è finalmente uscito in Italia Le vite degli altri, opera prima pluri-premiata in patria, in Europa e a Hollywood del trentaquattrenne Florian Henckel von Donnersmarck. Il regista, nonché soggettista e sceneggiatore, originario di Colonia e diplomato alla scuola di cinema di Monaco, è quindi un Wessi, termine con cui si è soliti, dalla Riunificazione in poi, con tono lievemente spregiativo definire chi è nato e cresciuto nel territorio della vecchia Repubblica Federale, un Wessi, per giunta con quel “von” che tradisce evidenti ascendenze nobiliari. Insomma: un altro Wessi,  cinque anni dopo Wolfgang Becker che con Goodbye, Lenin! era riuscito ad ottenere un simile, vasto, anche se non unanime, successo di pubblico e di critica.

Anche in questo caso dunque a travalicare gli angusti confini di una distribuzione a malapena nazionale non è uno dei molti e talentuosi registi tedeschi cresciuti all’ombra di quella straordinaria bottega di valenti artigiani che fu la DEFA, non è un regista orientale, non è un Ossi, eppure al pari di Goodbye, Lenin! anche Le vite degli altri racconta di quella sorta di Atlantide scomparsa dalle carte geografiche europee, che rispondeva al nome di DDR.

Chi scrive ha avuto occasione di parlare a lungo con un famoso regista cresciuto in quel paese, pars pro toto di un’opinione pubblica orientale tutt’altro che entusiasta del film, e ha ascoltato espressioni di disgusto e indignazione per la falsificazione a cui il giovanotto coloniese avrebbe osato sottoporre l’altrui paese, l’altrui memoria: la DDR non era affatto così, arredamenti sbagliati, abbigliamento sbagliato, psicologia da quattro soldi, e il mondo teatrale ridotto a vieti cliché. Poco conta il fatto che Henckel von Donnersmarck abbia reiteratamente dichiarato di aver lavorato otto anni sul soggetto, poco conta che si sia lasciato affiancare da un pool di consulenti scientifici, poco conta che il film abbia nello straordinario Ulrich Mühe, l’attore anch’egli di origine orientale che interpreta il capitano della STASI Gerd Wiesler, una sorta di garante circa l’attendibilità documentale del progetto (in qualche modo aumentata dal fatto che lo stesso Mühe è stato protagonista di una tormentata vicenda con strascichi giudiziari, legata alla presunta attività svolta ai suoi danni dalla moglie in qualità di “collaboratrice informale” della STASI). Le critiche provenienti soprattutto da est rappresentano in fondo uno dei tanti capitoli di un conflitto evidentemente non solo estetico che ha attraversato e ancora attraverserà per molti anni la società tedesca non ancora del tutto riconciliata, riunificata: chi ha diritto di parlare? chi ha diritto di ricordare? di interpretare ciò che è successo nei quarant’anni in cui il paese è stato diviso? Chi può insomma legittimamente aspirare ad essere titolare di quel bene sfuggente ma preziosissimo che i tedeschi chiamano Deutungshoheit, la sovranità ermeneutica?

Il fatto sorprendente è che il regista riesce mirabilmente nella sua opera prima a negoziare un conflitto politico di fondo autenticamente targato DDR, in sostanza l’opposizione fra le istanze originarie se non di liberazione quanto meno di equità che stavano alla base del “mito di fondazione” della DDR e la degenerazione progressiva subita da quelle istanze, una degenerazione divenuta irreversibile nei primi anni ’80 e incarnata da una classe politica vecchia, corrotta e autoreferenziale. Il lento, tormentato e alla fine tragico itinerario di insubordinazione e di emancipazione politica del capitano Wiesler inizia non a caso allorché il proprio superiore, nella scena ambientata nella mensa aziendale della STASI, lo invita a prendere posto al tavolo degli ufficiali e il protagonista cocciuto resta seduto dov’è dichiarando che il socialismo da qualche parte dovrà pur cominciare. Un idealista, pervertito quanto si vuole (come mostra fin troppo bene la lunga sequenza iniziale che alterna l’interrogatorio nel quartier generale della STASI e la sua riproduzione su nastro magnetico nell’aula universitaria), ma pur sempre un idealista che mal digerisce l’ingiunzione del superiore, l’opportunista tenente colonnello Grubitz (Urich Tukur) di espungere dalle proprie documentatissime relazioni le scappatelle del ministro. Del resto Wiesler è l’unico, nella lunga e voyeuristica scena ambientata a teatro, posta all’inizio del film, a pronunciarsi in favore delle intercettazioni ai danni del drammaturgo Georg Dreyman (Sebastian Koch) per esclusivi fini politici: il superiore si ripromette soltanto vantaggi per la carriera, il ministro vuole distruggere il rivale, lui invece vuole snidare un potenziale nemico del socialismo. Ma l’insistenza (una quindicina di inquadrature nell’arco di pochi minuti) con cui la macchina da presa ci mostra Wiesler mentre osserva con il binocolo coloro che presto diventeranno gli oggetti di un pedinamento in prevalenza acustico fa capire allo spettatore che l’idealista pervertito è anche caduto preda di una fascinazione devastante per Christa Maria Sieland l’attrice protagonista  e compagna del drammaturgo (interpretata da Martina Gedeck) e, più in generale, per il mondo del teatro e dell’arte.

Se su un piano storico-politico-culturale lasciano qualche dubbio le ragioni che indurrebbero l’altra metamorfosi raccontata nel film, ossia quella dell’acclamato drammaturgo Dreyman, che si trasforma da uomo “che va a letto col regime”, come gli rimprovera la compagna, a tardivo dissidente, la grande credibilità del film nasce dalla molteplicità di fattori che giungono invece a produrre la trasformazione del protagonista. Socialista vero? Innamorato perso? Frutto dei miracoli di una seppur tardiva educazione estetica? Uomo buono? Alle innumerevoli inquadrature del volto scavato e austero di Ulrich Mühe il regista riserva il compito di avallare ora un’ipotesi ora l’altra, ora più ipotesi contemporaneamente. Prendiamo, fra le tante, il caso della sequenza in cui Wiesler, disteso sul divano del proprio tetro e anonimo appartamento, legge con la voice over del drammaturgo/rivale una poesia di Brecht (è il Ricordo di Marie A. inserito nel Libro di devozioni domestiche) dal volumetto trafugato a casa di Dreyman: il capitano della STASI, fin qui ridotto a servirsi delle convulse prestazioni di una prostituta, ritrova oggettivato il proprio amore nel testo di uno degli autori che più da vicino hanno accompagnato la fase iniziale dell’esperimento DDR, attraversa un itinerario di progressiva, quasi stupefatta educazione estetica che si trasforma schillerianamente in una maturazione etica, diventando l’uomo buono, o sempre per citare Brecht, l’anima buona, un itinerario virtuoso che nella scena finale, chiudendo il cerchio, torna ad essere trasfigurato nel romanzo di Dreyman (metalessi del film che stiamo finendo di vedere), torna dunque ad essere materiale estetico, anche se lungo questo itinerario è rimasta per strada (è il caso di dirlo) Christa Maria, vittima sacrificale (la piccola stella gialla sull’accappatoio ne è un fin troppo esplicito segnale) di una manipolazione, che osa senza scrupoli appropriarsi, appunto, della vita degli altri.

Il cerchio (l’uso di carrelli circolari) rappresenta anche la cifra stilistica più significativa del film: segno da un lato dell’accerchiamento oppressivo cui sono sottoposti gli individui e dall’altro della perversa inter-relazione fra vittima e carnefice, spiato e spiante, per esempio nella scena in cui il carrello circolare inizia quando Dreyman suona il pianoforte per ricordare l’amico morto suicida e si chiude sul volto commosso di Wiesler.

Da segnalare in conclusione il livello pessimo del doppiaggio italiano: toponimi sbagliati, la “Promotion” che in tedesco è la tesi di dottorato viene trasformata in promozione, il “paese del socialismo reale” che qui è la DDR diventa, con una incomprensibile aggiunta, inesistente nel testo tedesco, l’Unione Sovietica. Ma valgano per tutte le parole finali di Wiesler in libreria: alla domanda del commesso che gli chiede se deve fargli un pacchetto regalo l’uomo risponde nella versione originale: “Es ist für mich”, risposta laconica ma significativamente duplice, è per me, nel senso che non è un regalo, ma soprattutto è per me nel senso che il libro parla di me, è dedicato a me  (la macchina da presa ha appena inquadrato la dedica) i doppiatori hanno tradotto inspiegabilmente: “Lo prendo per me”. Ma non bastava, santo cielo, una traduzione letterale?

Matteo Galli

da: L’indice dei libri del mese

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