Arno Schmidt, “Dalla vita di un fauno”

Stefano Gallerani

Sino ad allora tradotto in italiano solo nella ormai classica antologia feltrinelliana curata da Hans Bender (Il dissenso: 19 nuovi scrittori tedeschi, 1962), non è un caso che nel 1965 fu proprio un libro di Arno Schmidt – Alessandro o Della verità – ad inaugurare per  Einaudi la serie straniera della collana “La ricerca letteraria” dove, di lì a poco,  sarebbero usciti, in sequenza, gli approdi più innovativi e sperimentali di molte delle maggiori letterature europee e non solo (da Simon a Weiss, per non contare un’amplia raccolta di racconti di Cortázar e il Beckett di Com’è). Si trattava, nel caso di Schmidt, di una scelta che presentava, finalmente, i contorni di uno dei più significativi ed influenti opus letterari della seconda metà del novecento attraverso quattro prose in cui la cronaca del presente passa al setaccio deformante, ma allo stesso esemplificativo, di filtri cúlti ed eruditi (bizantini e alessandrini per Cosma ovvero La montagna del nord e per l’eponimo Alessandro o Della verità, o greci e cartaginesi, come in Enthyesis ovvero Q.V.O. e Gadir ovvero Conosci te stesso). Quattro “racconti” in cui si dispiega tutta l’iperrazionale e furente iconoclastia di una scrittura che spariglia le coordinate – termine quanto mai appropriato per il “cartografo” Schmidt – di un geografia culturale data per rivolgerle nella contestualizzazione della Storia – o destoricizzazione del passato. Per effetto del paradosso diacronico, la proiezione del reale nei precordi della civiltà occidentale si traduce nell’analisi impietosa della coscienza contemporanea arresa alla “triste natura di un mondo, i cui esseri viventi in tanto esistono, in quanto si divorano a vicenda”. Tuttavia, salva la riproposta di Alessandro nei “Nuovi Coralli, nell’81, per rivedere stampato un libro di Schmidt s’è dovuto aspettare fino a quando, tirando le fila di un discorso troppo a lungo rimasto in sospeso, nel 1991 la milanese Linea d’ombra ha raccolto in volume (Il Leviatano o il migliore dei mondi) alcuni scritti (Il Leviatano appunto e Tina o della immortalità) già apparsi nel corso degli anni sul “Menabò” e su “Carte Segrete”. Questa breve ricognizione della “fortuna” editoriale di Arno Schmidt non è prescindibile in quanto testimonia non solo della difficoltà di volgere in lingua straniera l’opera di uno scrittore da molti sbrigativamente liquidato come il “Joyce tedesco”, ma perché, per lo stesso motivo, rende la giusta misura dell’impegno dell’editore Lavieri di Caserta che  ha appena dato alle stampe Dalla vita di un fauno.

Ottimamente curato da Domenico Pinto, che ha corredato il testo di un dovizioso apparato critico di note, cronologia e bibliografia – sebbene non sarebbe spiaciuta una introduzione pensata anche per un lettore che, verosimilmente, si imbatta per la prima volta nella cosmologia schmidtiana –, Aus dem Leben eines Fauns è una delle principali stazioni della carriera artistica ed esistenziale di Schmidt. Pubblicato nel 1953, a quattro anni dall’esordio con il Leviathan e durante il periodo della sua intensa collaborazione con le riviste Texte und Zeichen e studio frankfurt del coetaneo Alfred Andersch (come Schmidt nato nel 1914), la Vita di un fauno si presenta, prima facie, come il resoconto di cinque anni di storia tedesca – dal febbraio del ’39 al settembre del ’44 – vista attraverso gli occhi del cinquantenne impiegato Düring. Incaricato dal direttore del suo ufficio di allestire l’archivio storico del circondario di Fallingbostel, per Düring, uomo del regesto cui Schmidt presta molto di sé, il lavoro sui documenti e i sopralluoghi sono l’occasione per realizzare l’esilio spirituale a lungo meditato da un paese che disprezza e da una famiglia che sente estranea (quando gli arriva la notizia della caduta del figlio Paul sul fronte di Murmansk, “io non provavo nulla!”, si confessa Düring, “Paul mi era più distante di un estraneo; per Cooper”, lo scrittore americano, “potrei piangere oggi stesso. Ma conoscevo la vuotaggine e la terribile mediocrità del ‘mio ragazzo’: di sua madre!”).

Questa, in sintesi, la vicenda, ma, mentre nel resto d’Europa si andavano lentamente consumando i fuochi appiccati dalle faville del maglio modernista, nelle mani dello scrittore amburghese la linearità della trama si polverizza in lampi di sintassi particellare e fotografica, minando alla base il concetto stesso di romanzo-mondo. All’estensione potenzialmente infinita dello sguardo del narratore onnisciente, Schmidt sostituisce la prospettiva individuale di un protagonista che è tutto in ciò che legge e pensa, così doppiando, ma non ricalcando, la logica che governa il Monsieur Teste di Valéry: dove la scrittura del francese deve necessariamente sottrarsi, depotenziarsi per attuare il progetto che la muove, nel praticare il suo realismo soggettivo Arno Schmidt sciorina un’inedita ricchezza espressiva nutrita di riferimenti eterogenei (la cultura classica e quella scientifica della sua formazione giovanile) e rimandi interstuali (lo stesso titolo è un’evidente crasi tra il Fauno di Mallarmé e il Dalla vita di un perdigiorno di von Eichendorff) adulterati da neologismi, ibridi linguistici e idiotismi.

La sua, come in Italia per Pizzuto, è una declinazione autobiografica in cui non è più dato scindere il reale dal percepito. Siamo al limite di una complessità che sarebbe paralizzante se non fosse sostenuta da una struttura, anche tipograficamente, agile – frammenti densissimi ma di breve respiro che si susseguono introdotti in corsivo ad ogni capoverso – che valorizza quell’elemento “visivo” della composizione che nella scrittura di Schmidt assumerà un aspetto sempre più preminente (basti pensare che nel 1970 le oltre milletrecento pagine della sua opera definitiva, Zettels Traum [Il sogno di Zettel ma anche Il sogno della scheda], dovettero essere stampate in fac-simile per la difficoltà di riprodurre la selva di annotazioni, disegni e glosse di cui le aveva costellate in più di sei anni di lavoro).

Dopo la pubblicazione della Vita di un fauno ed aver scampato un processo per oscenità intentatogli per il racconto Paesaggio lacustre con Pocahontas, le difficoltà economiche e il sempre maggiore disagio sociale spinsero Schmidt a ritirarsi nella amata Brughiera di Luneburgo. Nella clausura monacale di Bargfeld, il raffinato esegeta joyciano e “miglior fabbro” della lingua di Schiller e Goethe, si impose ritmi di lavoro così estenuanti da compromettere irreparabilmente le proprie condizioni di salute: il lavoro di scrittore è mortale, aveva detto una volta all’amico Andersch.  Nel giugno del 1979 un ictus cerebrale ne stroncò la resistenza ma il suo lascito fu tale che, sia pure a vario titolo, tutta la letteratura tedesca successiva (Heissenbüttel, Grass o i più giovani Johnson e Handke) non ha potuto che attingere all’opera vastissima e tormentata di uno scrittore che, tra alti e bassi, non tralasciò alcun registro formale – dal romanzo al radiodramma, dalla deformazione grottesca allo stilema illuministico – e non ebbe, in fondo, altro fine che “scomporre l’inintellegibile in parti più intelligibili”.

Stefano Gallerani

Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno, a cura di Domenico Pinto, Caserta, Lavieri, 2006, 144 p.

da: Alias, 27 maggio 2006

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *