Ricordo di Cesare Cases

[Discorso tenuto il 4 ottobre 2005 nell’Aula Magna dell’Università di Torino]

Anna Chiarloni

Prendo la parola con emozione ma anche, dopo questa mattinata d’intenso dibattito, con la sensazione che Cesare Cases sia ancora qui tra noi a discutere – devo anzi aggiungere che quando citavo il rifiuto di Primo Levi a equiparare nazismo e stalinismo, ebbene nella sua voce c’era anche quella di Cesare. Insomma, è proprio vero che i grandi maestri ce li portiamo dentro.

Per chi osserva il paesaggio della cultura italiana del dopoguerra Cesare Cases rappresenta una figura insostituibile, inquieta e magistrale al tempo stesso. Nato a Milano nel 1920, Cases vive un’infanzia di cui ritroviamo memoria nelle recenti Confessioni di un ottuagenario – con quei caldi interni familiari di una borghesia ebraica colta e perfettamente integrata nell’ Italia di quegli anni. Poi – la fine di quel mondo col dramma dell’esilio: nel 1939 le leggi razziali lo costringono a interrompere gli studi e a emigrare in Svizzera. A Losanna s’iscrive a chimica – ma nel 1943, a Zurigo, passa agli studi di filologia. È lo stesso Cases a rievocare le tappe della sua formazione umanistica: le prime letture di casa – Lessing, ma anche Goethe e Shakespeare – inscritte nel clima di un’Italia crociana, attenta alla cultura d’oltralpe. E poi nell’ateneo elvetico, accanto a Carlo Grünanger, lo studio della grande letteratura tedesca, dal Medioevo al Novecento. Fino a Karl Kraus, quel “faro” – si noti : il suo nome apre e chiude le Confessioni – che Cases sente come congeniale non solo per temperamento – spregiudicato, satirico – ma soprattutto in virtù di quell’esigenza etica che sorreggerà sempre il suo gusto per la polemica, per l’intervento diretto e immediato.

E ancora altre letture, altre radici: il giovane espatriato frequenta i seminari di Theofil Spoerri, docente di letteratura italiana e francese vicino a “Esprit”, e di Lucien Goldmann, filosofo romeno d’impianto marxista. E quanto viva – e in parte inedita – è nell’autobiografia la galleria di intellettuali esuli in Svizzera, colti da vicino, dentro le fibre culturali di quell’esilio: Jean Piaget, Jacob Jud e il nostro Fortini – tra gli altri. Mentre appartato nella Zurigo di quegli anni sappiamo esserci anche Robert Musil, autore al quale Cases dedicherà nel dopoguerra un ampio saggio critico.

Nella soffitta zurighese – è l’inverno del’44, superato grazie alle zuppe distribuite dalla Volksküche e dalla Comunità ebraica svizzera – Cases legge gli scritti di Lukács. Con le sue riflessioni sul marxismo e sul ruolo degli intellettuali il filosofo ungherese costituisce nel caos di quegli anni una sponda, propone un metodo di “rappresentazione globale della realtà” a fronte di un mondo ormai fuori dai cardini.

Non mi soffermo sulla complessa ricezione italiana dell’opera di Lukács nel dopoguerra, mi limito a ricordare che fu Bobbio a presentarlo qui a Torino – peraltro, rammentava Cases, agghiacciato dalla rigorosa ortodossia esibita quell’occasione dal pensatore ungherese. Mi preme invece qui sottolineare come anche con il superamento, sul finire degli anni Cinquanta, della visione lukacsiana – complice l’ esperienza di Cases come lettore d’italiano nella DDR, di cui abbiamo testimonianza nel carteggio con Timpanaro da poco pubblicato – resti viva in lui la tensione verso la totalità. Certo – una totalità problematica, continuamente ridiscussa, ma che rimarrà un tratto distintivo di Cases. E questo lo si percepiva sia nel suo agire intellettuale, sia nello stile.

Perché c’è sempre stato in lui, anche nella sua funzione di docente di letteratura tedesca un rifiuto dello specialista asserragliato nella sua dottrina, a favore invece della figura schilleriana del filosofo, dell’intellettuale cioè che varca i confini prestabiliti dall’accademia, nel segno di una ragione che collega i vari campi unificando i saperi. E infatti nei suoi scritti plana sovrano oltre gli steccati disciplinari della germanistica con incursioni, impennate, voli radenti nei campi più diversi, dalla filosofia alle “patrie lettere”, dall’etnologia alla psicanalisi e alla teoria politica. E già qui si capisce come gli sarebbe poi stato congeniale il taglio interdisciplinare dell’Indice. Ma di questo dirò dopo.

Lasciatemi prima ricordare come quel suo sguardo ampio, che evitava il discettare separato, frammentario, incideva sulla scrittura che inclina spesso, anche negli interventi più militanti, verso l’apologo, il racconto compiuto, conchiuso: una forma in cui il lettore, pur nello smarrimento dei nostri anni, rintraccia un insegnamento, un progetto insomma. Guardiamo allo stile. Un registro ironico e sferzante, ma talvolta affettuosamente memoriale o addirittura poetico – pochi sanno infatti che Cases scriveva anche in versi; una scrittura che si serve della parola arcaica per spezzare le maglie convenzionali del linguaggio, per irridere l’omologazione dilagante indotta dall’industria culturale: ebbene, tutto questo non incrina mai quel pathos, quella ricerca di senso e di verità che faceva di Cases un vero maitre à penser dei nostri giorni. Ma andiamo con ordine.

Rientrato in Italia, nel 1946 Cases si laurea a Milano in estetica con una tesi – recentemente pubblicata – su Ernst Jünger, correlatori Antonio Banfi e Enzo Paci. Il ritorno in patria segna l’inizio di una militanza impegnata a tutto campo nella discussione culturale, con una presenza nel PCI dei primi anni Cinquanta – mi ero calato “nelle fauci” del partito, ricordava – e successivamente, dopo il 1956 con Franco Fortini, Renato Solmi, Renato Panzieri e Grazia Cherchi nell’area della “nuova sinistra” e dei “Quaderni piacentini”.

L’attività scientifica è da subito intensa e interagisce con l’attività di consulente per la casa editrice Einaudi. E qui non posso non rammentare le sue descrizioni di quei gloriosi mercoledì, governati dal “feudale” ma intelligentissimo Giulio. Nonché le pagine su Calvino, l’amicizia, le scorribande in comune che gli detteranno poi nel 1985 quello splendido ritratto dell’amico scomparso pubblicato su “L’Indice”. Da rileggere. Perché il rievocare la mimica e la voce di Calvino – “gli alti e i bassi, le pause, i soprassalti” – diventa memoria costruttiva di vita, appunto contro la morte.

Torno agli anni Cinquanta. Accanto alla traduzione dei testi più importanti di Lukács, ecco i numerosi interventi su Lessing, Th. Mann e Dürrenmatt, e ancora sul teatro di Brecht, il drammaturgo che Cases definisce “uno dei grandi fabbri del parlare tedesco del Novecento”. Interventi raccolti nel 1963 in Saggi e note di Letteratura Tedesca, pubblicati anche in Germania, a lungo introvabili ma recentemente ristampati grazie a un’iniziativa dell’Università di Trento. Del 1965 sono le prestigiose introduzioni al Faust e a L’uomo senza qualità, veri e propri studi critici, continuamente ripubblicati nelle edizioni successive.

Ecco poi negli anni Settanta i saggi su Adorno e Benjamin che promuovono l’attenzione della cultura italiana per la Scuola di Francoforte. E ancora: gli scritti sulla letteratura italiana, tra cui il famoso saggio sul Metello di Pratolini, vengono raccolti da Einaudi nel volume Patrie Lettere (1987) assieme ad interventi pubblicati nel frattempo sull'”Indice”, mentre quelli politico-filosofici confluiranno nel Testimone secondario. Il Boom di Roscellino riprenderà invece le satire e le polemiche di un trentennio, a cominciare da quel – quanto profetico! – racconto del 1958 sull’insidia dei mass media che dà il titolo al volume.

E poi c’è il Cases professore universitario, maestro indimenticabile – attentissimo alle urgenze della didattica, al paziente lavoro di formazione dei giovani. Sorretto da una felice natura pedagogica, insegna prima a Padova e a Cagliari. In pieno Sessantotto, tiene la sua prolusione di ordinario a Pavia, per proseguire poi a Torino, la città che allora richiamava gli intellettuali di sinistra in quanto punta avanzata del movimento operaio. E sintomatico è che, arrivando qui nel 1972, Cases abbia scelto la Facoltà “rossa” di Magistero, capitanata allora da Guido Quazza, lo storico che rappresentava in quegli anni la continuità tra la Resistenza e i movimenti nati dal Sessantotto. Memorabili i suoi seminari, affollati di studenti e docenti – ma ricordi, Ursula, come ironizzava quando ci vedeva, noi giovani assistenti, tra i banchi! E memorabili i risultati – a cominciare dal famoso “caso Tortone” – lo studente agricoltore evoluto da sprovvista matricola a sapiente germanista nel giro del quadriennio.

Professore sì – ma professore del mondo. Un tratto che Cesare ha conservato anche dopo aver lasciato l’università. Negli ultimi anni la sua penna vigile e pungente, ma poteva essere anche scherzosa o affettuosamente memoriale, ha rivelato un’alacrità straordinaria. Credo che in questo l'”Indice” – Cases fu con Giangiacomo Migone tra i fondatori – abbia avuto una sua precisa funzione: “L’Indice è rimasta l’unica sede qui a Torino in cui si discuta ancora di cultura” – mi disse una sera, alla fine di una di quelle dense riunioni mensili che pilotava negli anni della sua direzione spaziando da una disciplina all’altra. E proprio da quelle pagine Cases perseguiva un vaglio letterario sistematico, un richiamo alla resistenza dell’acume critico contro l’erosione, non solo linguistica, dei media.

Vorrei qui invitarvi a entrare nell’officina dell'”Indice”: a leggere Il “Decalogo del buon recensore” stilato da Cases per la fondazione della rivista. Si noti : il buon recensore esclude la stroncatura, ma non segnala, questo, una scelta di silenzio. Al contrario – rivela la volontà dei suoi fondatori di non prestarsi all’amplificazione dei rumori di fondo, di non dar spazio all’ effimera babele del mercato. Non è un caso infatti che Cases abbia pubblicato sull'”Indice” il testo di August Wilhelm Schlegel in cui il critico romantico auspicava un tipo di recensione che fosse “fondante”, che non si limitasse a riprodurre la cultura vigente.

Concludo con la sua voce. Di quando Cesare, con quel suo tono scettico di chi conosce il dolore storico, ma al tempo stesso con un tono acceso – fondante appunto – osservava:

Nel breve spazio di tempo che ti è concesso ti sarai già reso benemerito se avrai incoraggiato o fatto circolare qualcosa di buono, se avrai fatto meditare qualcuno, se avrai messo una pietruzza nella ruota d’Issione cui siamo legati e che ci fa sentire, come il matto studiato da Lombroso, “sempre in moto e sempre qui”.

Anna Chiarloni

Immagine tratta dalla copertina di Per Cesare Cases, a cura di Anna Chiarloni, Luigi Forte e Ursula Isselstein, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010

 

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