Deutsche Seele. Sui percorsi della recente poesia tedesca

In memoria di Maria Teresa Mandalari

Anna Chiarloni

….Zementkoloß Mauer zerflossen in Luft
jeder schlich ratlos beiseite.
Jan Koneffke, 1995

Ricordo le telefonate serali di Maria Teresa, ogni volta una rassegna appassionata e sagace di un libro appena letto o di una querelle letteraria, con quella sua voce limpida e tesa come di chi giudica il mondo e la storia da un podio super partes, dovuto sì all’esperienza ma soprattutto a quella sua sensibilità che le consentiva di captare, decifrandole, le vibrazioni intellettuali più remote. In una delle nostre ultime conversazioni parlammo delle nuove generazioni che si stavano affacciando sulla scena letteraria tedesca, del loro difficile rapporto col passato. Vorrei qui riprendere quel discorso. Come se lei fosse ancora tra noi.

(immagine da Der posterjack Fotoblog)

Testi recenti – soprattutto poetici – testimoniano della complessa relazione con la storia nazionale. Chi credeva che con la scomparsa dei colpevoli il passare del tempo avrebbe operato una sorta di “smaltimento biologico” (biologische Entsorgung) del senso di colpa nella cosiddetta “generazione innocente” ha dovuto ricredersi. Per quel che riguarda l’area tedesco-occidentale Ralph Giordano ritiene che il riemergere del disagio nei più giovani sia una conseguenza del silenzio dei padri, oggi nonni, nel primo dopoguerra. In un saggio provocatoriamente intitolato Die zweite Schuld l’autore definisce come “seconda colpa” quella rimozione della verità storica che ha minato il terreno identitario dei tedeschi fino a provocare delle vere e proprie nuove “vittime”, i giovani appunto. Il termine può forse apparire eccessivo, sta di fatto però che il confronto con il passato – oggi tutto calato nell’intimità soggettiva – assume forme particolarmente drammatiche. Per chiarire questo aspetto è utile rievocare rapidamente i moduli della rappresentazione letteraria che via via si sono succeduti dal 1945 a oggi.

La prima fase – rappresentata soprattutto dalla narrativa – vede una contrapposizione univoca di vittime e carnefici nell’arco degli anni hitleriani. Da Apitz a Seghers e Zuckmayer l’individuazione del male è netta, circoscritta nel tempo e bilanciata dall’azione eroica ed efficace degli antifascisti. Ma già nei primi anni Sessanta, almeno a Ovest, le cesure temporali si dissolvono: la letteratura denuncia – in netto dissenso con le istituzioni pubbliche – la sopravvivenza nell’economia e nella cultura della Germania di elementi costitutivi del nazismo. Heinrich Böll e Martin Walser prima, ma poi la decisiva Istruttoria di Peter Weiss segnalano la continuità, addirittura l’immanenza del fenomeno Auschwitz nei gangli costitutivi della ricostruzione tedesco-federale. Attraverso questa letteratura il movimento studentesco incomincia a confrontarsi in prima persona col nazismo, scandagliando il passato dei padri. Se inizialmente la contrapposizione è politica, negli anni Settanta – complice una più ampia diffusione della psicanalisi – si nota il passaggio a una terza fase, correlata con la cosiddetta Neue Subiektivität. È con questa nuova centralità del soggetto, tuttora imperante, che emergono elementi utili alla messa a fuoco del nostro tema. Perché si avverte in questi anni il transito da un’analisi socio-storica a un’indagine calata nei meandri di un Io svincolato, parzialmente alla deriva, che determina un percorso anamnestico, connesso col mondo dell’infanzia. Che è poi quello della Heimat, consapevolmente diversa dal concetto di Vaterland, irrimediabilmente inquinato dal linguaggio nazista.

Ora, è proprio il peso della storia che rende difficile – anche dopo il crollo del muro – una riacquisizione terminologica della “patria” tedesca:

MutterVaterKinderland, wie
darf ich mein Zuhause nennen
– noch stottert es mich.

Così Lutz Rathenow, nato nel 1952, tenta di sillabare la sua nuova identità nazionale in un testo intitolato appunto Der nächste Versuch. È nella stessa definizione territoriale, Deutschland, che per il cittadino per quarant’anni avvezzo a precisi meccanismi di sostituzione – BRD e DDR – si addensano gli spettri del passato.

L’esito è un evidente disagio lessicale. All’inizio del secolo Lord Chandos esprimeva una crisi esistenziale col bisogno di scrivere e pensare in una lingua del tutto ignota. Dopo Auschwitz lo scarto interiore può virare verso il rifiuto del tedesco e l’approdo a un alfabeto straniero, per così dire senza memoria individuale. L’inglese per Anne Michaels, o l’italiano per Helga Schneider e Elise Springer, ad esempio. E ancora: Rondeau Allemagne s’intitola il sonetto di Barbara Köhler che presentiamo in chiusura. Da altri autori la difficoltà a pronunciare il lessico dei padri viene invece aggirata ricorrendo a figure mitologiche o a un linguaggio arcaico, remoto nel tempo, non intaccato dalla recente violenza.

In Germania – und in eigener Sache. Eine mutterländische Trilogie è il titolo del poemetto che Rüdiger Görner dedica nel 1997 alla terra tra “il Reno e l’Elba”. Già il titolo segnala nella dizione latina e nel segno matrilineare una ricerca di altri linguaggi, di un diverso riferimento all’interno del paese riunificato. Novello Ulisse, il poeta – nato nel 1957, vive a Londra – fa ritorno nel paese natio. Ma fin dai primi versi i nuovi confini aprono al dubbio di un tragico vincolo: sono i due fiumi, il Reno e l’Elba, “consanguinei della morte?” (blutsverwandt mit dem Tod?). Rimpatriare significa allora riaprire vecchie ferite. L’occhio del poeta in cammino registra come il progresso tecnologico s’incunei nel passato, perché la Germania è anche il Land der Endlager, la terra dove la follia della soluzione finale si salda con il progressivo inquinamento radioattivo. Per questo l’approdo a un’identità tedesca, segnalato nel riemergere dell’Io da un paesaggio di “cenere e fango” non può che avvenire nel segno del lutto:

Im Flacken der Grabeslichter
erkenn’ich mein Land,
den Umriß Ithakas am Fuße des Fohrenbühls,
den verwitterten Grenzstein,
die leere Kirche, den kahlvollen Markt.

La riacquisizione della propria terra passa attraverso il ricordo dei morti. Ma si avverte anche uno spaesamento: chiesa e piazza dicono la perdita del sacro, con quel mercato rigurgitante e spoglio al tempo stesso che sembra ostile a qualsiasi traccia di memoria infantile.

La nostalgia di un’identità pacificata che in Görner ora si frantuma – du bruchstückst die Sehnsucht dennoch -, ora si acquieta nell’immagine, se pur cifrata, di un orizzonte europeo, diventa per Thomas Rosenlöcher (n. 1947) occasione di risposta beffarda a un ipotetico Sondaggio d’opinione:

Umfrage
Wo die deutsche Seele ist?
Woher soll ich das wissen.
Am ehesten noch in Kleinschachwitz.
Am ehesten noch in mir.
Doch ich bin auch unterwegs.
Endlos kreisend sucht sie sich
selbst auf den Autobahnen.

Brandelli di una vacillante “anima tedesca” sarebbe ro dunque reperibili nell’incerto percorso individuale tra un localismo paesano e l’anonima serialità dell’asfalto autostradale. Ma se in Rosenlöcher, che viene dall’Est e che con la caduta del muro è entrato a far parte della pattuglia di giovani poeti pubblicati da Suhrkamp, si sente il nomadismo positivo di chi è ” in cammino”, in altri autori – come l’occidentale Hans-Ulrich Treichel – affiora un lacerato senso d’isolamento. Al giubilo della folla accanto alla Porta di Brandenburgo, simbolo fino al 1989 della divisione tedesca, fa eco una sommessa vocazione al silenzio:

Am Brandenburger Tor
Alles eins nur ich gespalten
Dies mein Herz und das mein Hirn
Deutschland Deutschland unter anderem
Bröckelt deine Denkerstirn
[…]
Alles schrie die Raben krächzten
Deutschland einig Vaterland
Hab dann meinen Vers geflüstert
So daß niemand ihn verstand

“Murata nel cemento” della storia patria, “stridente di filo spinato” la poesia di Treichel cerca scampo nel silenzio. Se pur consegnato a “percorsi di frastuono e asfalto”, il poeta – il Nachkomme – è l’erede del lutto:

In mir ruhen die Toten nicht.

Un’iniziale perplessità nei confronti della riunificazione caratterizza anche la poesia della generazione precedente.

Il titolo della raccolta di poesie che Günter Kunert pubblica nel 1990 è significativo: Fremd daheim: straniero in casa si sente il poeta nell’anno della riunificazione tedesca. Non è il solo. Anche il coetaneo Hans Magnus Enzensberger – malgrado il titolo accattivante delle ultime poesie pubblicate anche in Italia: Musica del futuro – guarda dubbioso a quel cemento socialista che “si sbriciola, fradicio di champagne” nella notte di novembre. Il “risveglio” tedesco si congela per Enzensberger nel fotogramma di un pellegrinaggio orientale – alimentato dalla “cartamoneta del color del valium”, ossia dai 100 DM di “benvenuto” predisposti nel 1989 da Bonn per chiunque attraversasse il confine – verso le vetrine di Berlino Ovest. L’euforia successiva alla caduta del muro cede di fronte ai problemi imposti dalle procedure scelte dal cancelliere Kohl per attuare l’unificazione economica delle due Germanie.

Sferzante nei confronti di quella che Martin Walser definì la sanfte Revolution – la rivoluzione mite – che portò nel 1989 alla caduta del muro è Reiner Kunze (n. 1935). Non è questa la sede per addentrarci nei complessi rapporti tra intellettuali tedeschi, certo però che lo scetticismo di Kunze nei confronti della riunificazione è affine a quello di Sarah Kirsch o di Günter Kunert, per non nominare che alcuni degli autori più noti che avevano abbandonato la Ddr dopo il cosiddetto “caso Biermann”. In Demonstranten – un testo scritto nel 1990 e rielaborato nel 1997 – Kunze ironizza sui cortei di protesta dei compatrioti che a Est sfilavano mimando con le candele accese i polacchi, cauti però, quasi timorosi d’inciampare e – soprattutto – “attenti che sull’asfalto / non cadesse goccia”. Altrove – Mit dieser Fahne schon – si legge sì della speranza di una sola, pacifica bandiera nazionale, ma è una speranza che resta dislocata in un passato ormai remoto:

Wir hatten gehofft
auf das eine land
mit der einen fahne
Auf das land,
das nicht leugnet,
mit der fahne,
die in frieden läßt

“La poesia è come il bastone del cieco”, dice Kunze: serve al poeta per sfiorare le cose e “riconoscerle”. Ora, quel misto di pena e delusione che si avverte nei suoi ultimi versi, deriva dalla capacità di cogliere anche al di là dei confini nazionali sintomi di un’Europa omologata nel segno dell’intolleranza.

Emblematica è in questo senso una poesia del 1997: Amsterdam, Volksfest zur Ehren der Königin. Sotto il corsivo che corre sotterraneo riemergendo nell’ultimo verso il poeta allinea una rapida sequenza d’ immagini. Una bicicletta sfondata a calci, la collera e l’ulteriore affronto: gli occhiali imbrattati di birra dalla gentaglia ubriaca. Poi gli idranti e il ritorno forzato alla normalità, siglata dalla considerazione finale. All’interno di un gioco pronominale restano indefiniti i protagonisti ma lampante il senso della sinapsi che chiude il testo:

AMSTERDAM, VOLKSFEST ZU EHREN DER KOENIGIN
Deutschland, Deutschland, über alles
Dem fahrrad, angekettet am laternenpfahl,
traten in die speichen sie, bis es
hinsank
Dein zorn entging nicht ihrem blick,
ein bierschwall
schäumte dir über die brille
Wie sie es schon wieder beherrschten,
mit kaltem guß
zurückzuholen ins bewußtsein
Und wie die anderen wegsahn
Wie damals bei uns

Kunze istituisce un corto circuito tra un episodio di ebbra brutalità vissuto all’estero, ai margini di una festa popolare danese, con la violenza della storia tedesca. Il testo risulta così stretto nella morsa geografica e temporale istituita dal corsivo dell’inno nazionale in voga fino al 1945 e da quel damals bei uns icasticamente indicativo di una collettività tedesca. E il cardine analogico tra oggi e ieri, tra Amsterdam e una Germania pregressa, risiede in quel distogliere lo sguardo, in quel vigliacco defilarsi degli astanti di fronte al singolo colpito dall’ottusa bestialità della massa.

Occorre sottolineare come anche in altri poeti che si sono formati nella Ddr l’assillo del passato nazista si ripresenti con l’empito nazionalista del 1989, quando a Lipsia come a Berlino dallo slogan antigovernativo – Wir sind das Volk (Il popolo siamo noi) – si passa rapidamente a ribadire l’appartenenza a un’unica nazione tedesca: Wir sind ein Volk (Siamo un unico popolo).

“Gli occhi chiusi / sento le grida della massa / come una risacca. In questa piazza / che fu tra le più belle d’Europa / penso ai morti riarsi sull’asfalto….Perfino la morte / viene coinvolta in questa festa della riconciliazione: / la Dresdner Bank, / sia lodato il cancelliere di ferro / fa ora i suoi conti nella città / sull’Elba tre volte distrutta”, scrive Heinz Czechowski nel dicembre del 1989, saldando polemicamente la figura di Bismarck con quella del cancelliere Kohl .

Ancora più sarcastico è Heiner Müller, a fronte delle nuove insegne dell’economia di mercato nella Berlino successiva alla caduta del muro: “L’emblema della Mercedes ruota malinconico sull’oro dei denti di Auschwitz e sulle altre filiali della Deutsche Bank”. In questo testo del 1994, la continuità dell’economia occidentale col passato nazista – peraltro testimoniata dalle recenti rivelazioni – diventa barriera a un’intima accettazione dell’ unità tedesca.

Stretta tra gli spettri del passato e le macerie del socialismo reale la deutsche Seele sembra cercare spazio in una sospensione della storia – …am liebsten / wäre mir ein geschichtsloser Raum, scrive Czechowski – in un luogo remoto e indefinibile, in una terra di nessuno. Frequente è infatti la metafora del Niemandsland, un luogo per voci senza patria ma anche per chi alza esili e salde antenne contro vento lanciando messaggi “oltre i confini”. Come ci dice Barbara Köhler col suo tempestoso “rondeau”:

Rondeau Allemagne
Ich harre aus im Land und geh, ihm fremd,
Mit einer Liebe, die mich über Grenzen treibt,
Zwischen den Himmeln. Sehe jeder, wo er bleibt;
Ich harre aus im Land und geh ihm fremd.
Mit einer Liebe, die mich über Grenzen treibt,
Will ich die Uebereinkünfte verletzen
Und lachen, reiß ich mir das Herz in Fetzen
Mit jener Liebe, die mich über Grenzen treibt.
Zwischen den Himmeln sehe jeder, wo er bleibt:
Ein blutig Lappen wird gehißt, das Luftschiff fällt.
Kein Land in Sicht; vielleicht ein Seil, das hält
Zwischen den Himmeln. Sehe jeder, wo er bleibt.

Anna Chiarloni

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