Friederike Mayröcker, “della vita le zampe”

Anna Chiarloni

Figura centrale nella poesia in lingua tedesca del dopoguerra, Friederike Mayröcker è nata a Vienna nel 1924. Compagna di vita e di parola dell’altro grande protagonista recente- mente scomparso dalla scena letteraria austriaca – Ernst Jandl – Mayröcker è autrice di una poesia sperimentale che tende a valicare quello che il testo “dice” per risalire all’inconscio, al preverbale, secernendo e duplicando nel vortice della sintassi affetti, barlumi, ornitologie e ricordi d’infanzia. Come Zanzotto, potremmo dire, tanto più che tutti e due rileggono l’ultimo Hölderlin, il poeta del lallen, di quel balbettio che noi conosciamo come petèl. Più increspata tuttavia appare in Mayröcker la superficie poetica, quasi un tappeto verbale fiorito di segni grafici, vibrazioni aggiuntive di un linguaggio che s’inalbera libero e nomade per poi ancorarsi al mondo tramite la dedica apposta in calce al testo.

(fotografia di Barbara Klemm)

Un gesto frequente nell’ antologia che raccoglie poesie dal 1948 ad oggi, questo del porgere i versi radicandoli alla pagina con un affondo privato che accentua l’inclinazione comunicativa di Mayröcker. Esplicita è la volontà di trasmettere i lati umili, vegetali e terragni dell’esistenza, fino a identificarsi lei stessa con una sorta di istintivo zoomorfismo. “Ich bin ein Hundenarr, ich selbst bin ein Hund…” (Vado pazza per i cani, visto che io stessa sono un po’ cane… ) dichiarava nel 1999 la poetessa nel corso di in convegno fiorentino. E nell’ampia Nota ai testi Sara Barni, ripercorrendo i criteri della sua scelta che, occorre ricordarlo, si configura come la prima antologia della Mayröcker tradotta in Europa, definisce la sua lirica come entità nomade, come “musa bracconiera nella grande riserva del mondo umano e naturale”. Perché si pone, questa poesia, come mendica, “spazzina e rigattiera”. E – diciamolo subito – impervia alla traduzione, in quanto captata ai margini della retina e condotta per via analogica alla scrittura. Oppure filtrata attraverso quel plötzliches Zurück che è il repentino ricordo di un segreto mondo bambino. Poesia di variopinta, anarchica invenzione, rilanciata al lettore in guisa di braccio di bambola, di alato sortilegio a salvaguardia da un linguaggio opaco e divorante.

Al centro di questa sorta d’ intenso teatro cromatico si muove un Io “zingaro” che s’inoltra nel “verde della terra”, si ramifica in sogni “azzurri e tonanti” pigolando fragranze “nell’erba fonda”. Ci sono colline singhiozzanti di usignoli, fuscelli e cardellini: della vita le zampe, appunto. Diversamente da Montale, qui il frullo che si sente è ancora un volo. Mayröcker infatti deliberatamente preserva i suoi versi dallo scempio della natura – e oggi, in quest’aria da day after, gliene siamo grati. Ma non c’è solo un soggetto che affonda stupito nella felicità della natura, anche s’intravede un “cuore impaziente” che divaga obliquo, inciampa, balbettando si corregge o anche si scorda. Perché le poesie ultime, quelle degli anni Novanta non esitano a mettere in scena la cenere della vecchiaia. Ora ha le “piume” flosce quel suo “uomo uccello”, un tempo “ladro di primavere”. S’infeltrisce il cuore ma non cessa tuttavia il corpo di essere fibra natia, spavalda matrice di percezione del mondo.

Lungo questo riesame dell’Io si allinea una diversa gamma d’immagini. Alle “peonie sanguinanti”, alle “rosse barchette di mandorla” delle prime accese poesie intorno alla “buccia di mela” degli amati lombi, seguono i lenti lampi di gemme in declino, lo sfocarsi delle pupille, le “labbra scolorate” di amarilli appassiti. Ma come in “una vecchia carta assorbente” resistono i segni di una genealogia femminile che spia impaziente il ritorno delle rondini nella cupola del cielo e che ostinatamente investe nel sentimento gridando “da capo!”. Accanto ai toccanti ritratti della vecchia madre, “ultima testimone / di una preistoria” oscura, molte sono le poesie per Ernst Jandl. Spenta la lingua dell’eros, lampeggia una poetica della vicinanza che registra i minimi palpiti quotidiani – la mano segaligna di lui, lo sfiorarsi di sguardi e respiri, la pena di un congedo che ancora taglia gola e cuore “come un dolce coltello”. Certo, si tratta di una domesticità in bordo d’eclissi, consapevole di una fine imminente. In Cripta il deliquio della coppia nel sonno pomeridiano – “immoti fianco a fianco” – evoca la morte. Ma si noti dopo l’iniziale senso di estraneità la tutela testamentaria della chiusa: “come nelle tombe dei / re le mummie dalle squame / luccicanti, ignare / l’una dell’altra e tuttavia l’una dell’altra / custodi”.

Riemerge più evidente nelle ultime poesie pubblicate qui in anteprima il ruolo primario del linguaggio in quanto dionisiaca sorgente associativa. Lo stesso titolo della raccolta in corso di stampa da Suhrkamp, Mein Arbeitstirol (Il mio Tirolo da lavoro) con la sua duplice allusione geografica e oggettuale si spalanca verso sud, guizzando di “un desiderio struggente di opere non (ancora) scritte”. E concludo osservando che negli ultimi testi dedicati a Sara Barni s’intravede un doppio tavolo da lavoro che approda a un felice movimento binario di poesia e traduzione. Splendide per intensità creativa e intima aderenza all’ originale sono infatti le soluzioni proposte dalla curatrice per traghettare una lirica che è invito, “nel marzo che infuria”, ad una poetica libertà d’esecuzione.

Anna Chiarloni

Friederike Mayröcker, della vita le zampe, a cura di Sara Barni, Roma, Donzelli Poesia, 2002, 214 p.

da: L’Indice, febbraio 2003

This entry was posted in Anna Chiarloni, Recensioni and tagged , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *