In morte di W. G. Sebald

Qui sta l’altrove di uno scrittore della malinconia

Massimo Bonifazio

“Distruggete anche l’ultima cosa / ma non il ricordo”: così sta scritto negli Emigrati di Winfried Georg Sebald, lo scrittore tedesco emigrato in Inghilterra, che venerdì scorso è morto in un incidente d’auto, all’età di cinquantasette anni. Era nato a Wertach, nell’Allgäu bavarese, una regione appena sfiorata dalla guerra. Poi, a venticinque anni aveva lasciato la Germania per sfuggire al suo carattere autoritario, al silenzio con il quale la “generazione dei padri” continuava a circondare i crimini e le sofferenze della guerra e del nazismo. Approdò a un’Inghilterra, quella dei tardi anni ’60, che viveva la fase finale del suo sogno imperiale in un’atmosfera di libertà possibile, un paese che il thatcherismo avrebbe, pochi anni dopo, impoverito e reso “per molti versi inabitabile”, secondo le parole dello stesso Sebald. Che cominciò a insegnare tedesco a Manchester, poi, dopo un breve periodo a St. Gallen, in Svizzera, diventò docente di scienza della letteratura alla University of East Anglia di Norwich; pochi anni dopo, nel 1976, gli venne assegnata la cattedra di Letteratura tedesca, che mantenne fino alla morte, scrivendo saggi, in particolare sulla letteratura austriaca.

La notorietà gli arrivò con le opere in prosa, specialmente nel mondo anglosassone, dove è andato raccogliendo grandi lodi da critici e scrittori come James Wood, Susan Sontag, Antonia Byatt. Approdato alla narrativa verso i quarant’anni, ci ha lasciato Nach der Natur (Secondo natura, 1989, non ancora tradotto in italiano) che consiste di tre lunghi, intensi poemi, ognuno dei quali ha al centro un personaggio: Georg W. Steller – botanico al seguito di Vitus Bering nella spedizione verso l’Alaska – il pittore Matthaeus Grünewald, e un Io che ha tratti evidentemente autobiografici. Una caratteristica, questa, che permane nelle opere in prosa successive, dove c’è sempre una voce narrante con tratti così simili a quelli di Sebald da far dimenticare quella prudenza critica che respinge le identificazioni narratore-autore. Certo, tutto questo è voluto per disorientare il lettore ed evitare – sebbene con un procedimento paradossale – letture troppo ingenue. La stessa voce ritorna in due dei quattro racconti di Schwindel. Gefühle (1990, Vertigini, in corso di traduzione), in cui si descrivono due viaggi: il primo in Italia, dove il narratore è preda di deliri allucinatori e manie di persecuzione, il secondo a W. – evidente richiamo a Wertach, paese natale di Sebald – dove in una sorta di pellegrinaggio egli ricerca le origini della malinconia esistenziale che lo affligge. Gli altri due racconti sono dedicati a episodi della vita di Henry Beyle – alias Stendhal – e Franz Kafka, i cui spettrali personaggi ritornano continuamente nelle opere di Sebald.

I quattro racconti, infatti, a un’attenta analisi si rivelano strutturati intorno a una rete di rimandi che si riferiscono tutti al frammento di Kafka Il cacciatore Gracchus. Si delinea così una caratteristica basilare dell’opera di Sebald: la dovizia dei rimandi intra ed extratestuali, che amplifica la dimensione in cui il testo può risuonare di significazioni. Non si tratta solo di citazioni esplicite e cifrate, ma anche di richiami formali, ad esempio stilistici. Sebald scrive in una prosa che più di un critico ha definito musicale; nelle pagine spesso prive di paragrafi si succedono lunghissime frasi, incastonate l’una nell’altra, recuperando lezioni anche molto lontane fra loro, accomunate dall’essere per certi versi maniacali, ognuna a suo modo: nell’elegante complessità ci sono echi di Adalbert Stifter, ad esempio, ma anche contorcimenti e tirate di odio che richiamano Thomas Bernhard, sinistre atmosfere kafkiane, racconti di viaggio alla Bruce Chatwin.

La prosa che ne nasce è proteiforme, seducente, ipnotica: una superficie su cui lo sguardo del lettore scivola ammaliato, lontana com’è da quelle frammentazioni formali a cui ci ha abituato il Novecento. Ma se Stifter è presente nello stile, certo non lo è nelle intenzioni di fondo del testo, che non offre volontà pacificatorie. La scrittura non copre il male del mondo, ma lo mette in evidenza, con tutta l’intensità di una lingua che si sforza di rimanere intatta. Che si rifletta nei sereni paesaggi del Suffolk o in quelli devastati dall’indistrializzazione di Manchester o di Lódz, l’apocalisse è sempre imminente, e risulta tanto più spaventosa quanta più eleganza viene messa in campo per segnalarne i presagi. O i ricordi. Come per ogni malinconico, la memoria svolge un ruolo centrale nella cosmologia intellettuale di Sebald e del suo narratore. Non a caso, disseminate in tutti i suoi testi in prosa compaiono molte fotografie, che richiamano ad un tempo il passato e il dubbio su di esso: cosa rappresentano davvero? Sono un sostegno per la memoria, oppure la fuorviano? Sono documenti, prove storiche, o rimandano solo a se stesse e alla malinconia che evocano?

Negli Emigrati (Die Ausgewanderten, 1993, trad. a cura di G. Rovagnati, Bompiani, 1996) Sebald ripercorre il processo attraverso il quale sono state ricostruite quattro vite di uomini, tutti emigrati dalle loro patrie per fame o per sfuggire alla persecuzione. Il passsato resta come centro della vita mentale, luogo da cui è impossibile sfuggire. Il tempo non sana le ferite, le approfondisce, le carica di significati. Così due personaggi, Henry Selwin e Paul Bereyter, moriranno suicidi, uno, il suo prozio, in manicomio, mentre la fine del quarto, il pittore Max Aurach, sarà velata dal peso di una colpa inaccettabile: essere sfuggito all’orrore, diversamente dai propri genitori, vittime della Shoah. Il male non passa, nemmeno dopo quarant’anni. Il non ebreo Sebald si appassiona ai destini ebraici, rimprovera esplicitamente ai suoi compatrioti il silenzio, la non volontà di affrontare il passato. Dalla periferia in cui si è esiliato affronta le sfumature di esperienze anch’esse periferiche: persone sfuggite alla morte, che sono arrivate tardi alla coscienza di ciò che è stata davvero l’esperienza dei lager, oppure individui toccati solo marginalmente dal dramma, come il maestro Bereyter, “per tre quarti ariano”, che pure sarà condotto al suicidio dal disagio psichico causato dal passato che ritorna. La “memoria involontaria” si è trasformata in malattia autodistruttiva.

Il sottotitolo di Gli anelli di Saturno (Die Ringe des Saturn, 1995, trad. it. a cura di G. Rovagnati, Bompiani, 1996), “un pellegrinaggio inglese”, ribadisce la tensione che spinge il malinconico al cammino, al movimento perpetuo. Tensione che viene paradossalmente affermata nella scena con la quale il libro si apre: il narratore è costretto in ospedale da una quasi totale immobilità dovuta all'”orrore paralizzante” provato di fronte alle tracce della distruzione, visibili anche in un paesaggio così scabro come quello del Suffolk. Nel libro tutto rimanda a una concezione della storia dell’umanità come travolgente processo distruttivo e autodistruttivo; ogni dettaglio colto dallo sguardo vivisettore di Sebald rimanda a questa realtà di rovine, verso la quale il narratore si volta come l’angelo benjaminiano.

In Austerlitz (2001, in corso di traduzione) viene riproposta l’idea della storia che distrugge l’individuo, concentrandosi però su un personaggio solo, Jacques Austerlitz, che racconta la sua vita in lunghi monologhi raccolti dal narratore, aiutando in qualche modo il protagonista a ricomporre la propria identità. Quasi sessantenne, Austerlitz riesce finalmente a scoprire il luogo in cui è nato, Praga, e ad avere notizie della sua famiglia, ricostruendo la sua prima infanzia, fino a quel punto a lui del tutto sconosciuta. Dopo alcuni anni sereni, nell’ansia per l’arrivo dei tedeschi sua madre lo aveva caricato su un treno diretto in Inghilterra. Lei morirà poi a Theresienstadt, a causa delle sue origini ebraiche, il padre fuggirà a Parigi: e alla fine del libro Austerlitz lascia al narratore i suoi appunti, dicendo che parte per cercarlo. Il libro è percorso da un fortissimo senso del lutto; e la condizione psichica del protagonista è vissuta come continua dislocazione in un altrove indefinito e doloroso, che trova una sua precisa metafora nell’architettura evocata continuamente nel testo: dalle stazioni ai fortini-lager come Breendonk o Theresienstadt. Qui la “Festung”, la fortezza, rimanda però all’esatto contrario di “fest”, cioè solido: in questo come negli altri testi tutto è labile, dolorosamente sfuggente e sempre sul margine fra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Massimo Bonifazio

da: “il manifesto”, 18 dicembre 2001

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One Response to In morte di W. G. Sebald

  1. SILVIAGOI says:

    Si tratta di un testo atipico, difficilmente attribuibile ai generi convenzionali, rinforzato da fotografie molto evocative, che rappresentano la vita ‘di tutti’, la memoria orale e familiarindividuale come memoria ‘vera’. Innescata indirettamente dall’indimenticabile figura del maestro Paul Bereyter, proprio già di per sè testimonianza insieme dell’epoca e suo potenziale critico, germina nell’affollarsi dei ricordi e delle figure solo ingiustamente considerate laterali, colpite dalla vita in modo simile ai personaggi bernhardiani, riecheggiati più o meno esplicitamente.
    E con questo aggancio letterario risorge un mondo minore di difficile attribuzione
    univoca, ove si intrecciano temi dell’ ‘Austria al di fuori di sè’, il dramma della Shoah vista anche come perdita e contestazione delle radici autentiche, e insieme di quello che era solo uno dei possibili equilibri linguistici di vita, ricostruito tramite mezzi
    inglesi, internazionali, filmici, americani, d’altrove insomma. E allora il prebellico
    a fatica emerge, i ricordi letterari atipici ma scatenanti, i Wandervogel, il personale
    da strappare allo scavo collettivo di stato, l’assurdo dell’oggi, del dopo, in cui ancora
    nella non comprensione un uomo può sparire, non nella non-comunicazione, ma nell’intreccio ossessivo di questa. Un passo di fianco, laterale, in cui i vecchi testi
    e le canzoni post-romantiche rivendicano il loro luogo, una domanda di radicalità infinita, che può suonare: ‘E noi, dove eravamo?’

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