J. M. R. Lenz, L’eremita

Massimo Bonifazio

Una delle sfortune più grandi che possano capitare ad un autore è quella che di lui si occupino non tanto cattivi recensori – siamo schiere! – ma piuttosto dei geni, e che questi non lo capiscano, o lo capiscano troppo. Se i primi sono comunque in pochi a filarseli, l’effetto dei geni dura nei secoli. Di Jakob Michael Reinhold Lenz (1751-1792) si sono occupate due stelle di prima grandezza come Goethe e Büchner; e per la visibilità della “meteora” Lenz è stato un disastro. Il contemporaneo, olimpico Goethe, infatti, ne ha condannato senza appello il wertherismo non sopito, l’incapacità di entrare come membro attivo nella società, le dissonanze (anche biografiche, come la malattia psichica), le discontinuità formali. Sessant’anni dopo Büchner, invece, coglie in questi elementi la via che conduce ad una sensibilità nuova, lacerata, irrisolta, (viene da dire: novecentesca), sovrascrivendo la sua figura con indicazioni che lo stesso Lenz non aveva saputo cogliere in sé – non con quella nettezza, perlomeno. E mi pare che stia qui il tragico della figura lenziana, tesa fra la sua educazione pietistica e le passioni contestatarie dello Sturm und Drang, fra il rigorismo etico e gli sconfinamenti dell’istinto – che la sua scrittura sembra voler rimuovere e che pure continua ad affiorare: in questo non essersi capito a fondo, in questa mancata grandezza.

Lenz è conosciuto soprattutto come autore di opere teatrali, come I soldati e Il precettore; la BUR propone ora alcuni dei suoi scritti in prosa meno famosi, dal titolo L’eremita. Un pendant a I dolori del giovane Werther e altri scritti. Il libro contiene tre opere: Il diario, la Conversione morale di un poeta scritta da lui stesso e il romanzo epistolare eponimo. Nell’introduzione, Virginia Verrienti si discosta dalle incrostazioni tradizionali per restituire a Lenz un’immagine il più possibile aderente al vero, ricostruendo percorsi intellettuali e letterari che hanno portato lo scrittore alla composizione di queste e delle altre opere, nel quadro di contraddizioni epocali come la crisi dell’ottimismo illuministico, la fine del soggettivismo eroico di stampo stürmeriano (ancora celebrato nel Werther) il logoramento del “lessico del cuore” della Empfindsamkeit.

In queste prose emerge il tentativo di sottrarsi alle tentazioni monologiche del Werther per sottolineare il dialogo che nasce dal confronto fra i protagonisti e la società che sta loro intorno. Se questa è permeata dall'”idioma dell’inautentico”, che spinge i suoi rappresentanti all’intrigo e allo scherno, i primi non sono mai eroi positivi, portatori di verità altre. Alle loro alienazioni donchischiottesche, come l’amore per donne angelicate e la sensibilità estrema quanto pedante, viene comunque offerta una via di scampo nella possibilità di rapporti sociali positivi, riscontrabili anche in quella società così rigidamente strutturata – ma soprattutto nel campo “aperto” e, appunto, dialogico della letteratura.

Massimo Bonifazio

J. M. R. Lenz, L’eremita. Un pendant a I dolori del giovane Werther e altri scritti, a cura di Virginia Verrienti, traduzione di Laura Bocci, testo tedesco a fronte, Milano, BUR 2001, 301 p.

da: Alias, 8 dicembre 2001, col titolo Un controcanto al Werther: “L’eremita di Lenz”.

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