W. G. Sebald, Austerlitz

Massimo Bonifazio

La seria concentrazione con cui un orsetto lavatore sfrega ripetutamente un torsolo di mela nell’acqua di un ruscello, nel suo ambiente ricostruito in uno zoo di Antwerpen, un lavacro che va «molto oltre ogni ragionevole scrupolosità», come se lavando in quel modo potesse sfuggire alla falsità del mondo in cui è capitato «in certa misura senza il suo intervento». Un’immagine vivida, malinconica, dai molti richiami – come non pensare ad Heidegger? –, metafora della memoria e della scrittura, della coazione a ripetere e delle ossessioni di cui soffrono i personaggi di W. G. Sebald – e insieme a loro tutti gli uomini contemporanei. L’orsetto compare all’inizio di Austerlitz (Hanser 2001, pp. 424, in traduzione in Italia), un libro per cui è difficile trovare definizioni efficaci. Come nei libri precedenti, Schwindel. Gefühle (1990, Vertigini, non tradotto), Die Ausgewanderten (1994, Gli emigrati, Bompiani 1996, trad. it. di G. Rovagnati) e Die Ringe des Saturn (1996, Gli anelli di Saturno, Bompiani 1998, trad. it. di G. Rovagnati) davanti al lettore si delinea lo sforzo di fondere la finzione narrativa con la tensione documentaria, la notazione saggistica di vario genere con la riflessione etica sull’uomo, sulla tragicità della storia, sull’importanza della memoria. Sforzo riuscito peraltro benissimo, tanto da far evocare a molti il nome di Robert Musil; e riuscito soprattutto grazie ad una scrittura del tutto inusuale nel panorama contemporaneo. Nelle pagine spesso prive di paragrafi si succedono lunghissime frasi, che si incastonano l’una nell’altra, ricordando a tratti da vicino lo stile di Thomas Bernhard, ma recuperando anche la lezione di Adalbert Stifter. Ne nasce una prosa ipnotica, da cui è facilissimo lasciarsi trascinare, sedurre e persino impressionare.

Tutti i testi di Sebald sono scritti sotto il segno di Saturno, e dunque di una malinconia che fa da filtro ad ogni percezione della realtà, fino alla paralisi fisica e psicologica – persino del lettore. Sebald mette in scena se stesso proiettando i suoi tratti in quelli del narratore, uguale in tutti i libri: tedesco emigrato negli anni ’60 in Inghilterra, dopo gli studi, per sfuggire alla rigidità e alla colpevole incapacità di confrontarsi con il passato della Germania, ora professore di letteratura tedesca a Norwich, bibliofilo, coltissimo. C’è dunque una sorta di vezzo intellettuale nel sottolineare continuamente la condizione di malinconico – dopo Dürer, chiunque abbia a che fare con i libri è soggetto all’atra bile; ma c’è anche una concezione della storia e della condizione umana che è permeata di profondo pessimismo. Il narratore di Sebald prende il posto dell’angelo di Walter Benjamin: voltandosi indietro, il suo sguardo cade sulla storia come cumulo di rovine.

La storia è infatti in questi libri travolgente processo distruttivo. Le tragedie del ‘900, soprattutto quelle tedesche, vengono riviste con gli occhi di chi le ha vissute o di chi ne è scampato, come in alcuni racconti degli Emigrati, forse il più bel libro di Sebald; oppure, come nel caso di Jacques Austerlitz, di chi cerca di ricomporre la propria identità ricostruendo la storia della propria origine. Nei suoi lunghi monologhi alla presenza del narratore, Austerlitz ripercorre la sua storia, a cominciare dall’infanzia passata in Galles nella casa del predicatore Elias. Nel collegio dove va a studiare gli viene rivelato il suo vero nome – fino ad allora aveva creduto di chiamarsi Dafydd Elias; ma non trova nessuna indicazione sulla sua vera famiglia. Solo quarant’anni più tardi, nel 1998, riesce a ritrovare la sua balia a Praga, che gli racconta la storia della sua famiglia, come prima dell’arrivo delle truppe tedesche egli sia stato caricato su di un treno verso l’Inghilterra, come il padre sia riuscito a fuggire a Parigi e la madre sia stata invece deportata a Theresienstadt, perché ebrea.

C’è una sorta di ossessione archiviaria in questi testi, anch’essa di ascendenza benjaminiana, dal Passagen-Werk: colui che raccoglie per collezionare attribuisce ai suoi oggetti un senso che al profano è indecifrabile. A quel processo di declino che è la storia, al mondo «falso», Sebald sottrae appunto oggetti, testi e immagini, come quelle che sono disseminate nei suoi libri, per collocarle in un ordine nuovo, immettendole in una rete di allegorie dal senso inafferrabile, anche per lo stesso narratore. L’ombra delle coincidenze, che alludono ad un ordine sfuggevole e misterioso, è sempre presente, fornendo unità e compattezza al narrato. Quasi ogni dettaglio descritto ne ricorda un altro, in ogni persona vi sono tratti che fanno pensare ad un’altra, in un continuo déjà vu che richiama lo slancio ideale di Novalis verso l’unità organica del cosmo, rovesciandone però il senso: se là le connessioni rappresentavano l’apertura alla possibilità, qui diventano sinistro presagio di sventura.

Spesso si tratta di coincidenze letterarie: l’esperto di letteratura mette al centro dei suoi libri altri libri. Il reticolo intertestuale è fittissimo, tanto da diventare l’anima stessa di questi testi. Abbiamo già citato Bernhard, autore di cui Sebald si è occupato anche come critico. Si potrebbe dire che Sebald usa il tono elegiaco come Bernhard usa quello grottesco: in maniera volutamente esagerata, per ottenere un effetto di straniamento, una comprensione differente del mondo attraverso un linguaggio che parla da sé. Sono decine gli autori citati da Sebald, in maniera esplicita o implicita; interi testi, quali Vertigini e Gli emigrati sono strutturati su motivi e immagini tratte da opere di altri autori, come Franz Kafka e Vladimir Nabokov.

Sebald è molto amato nei paesi anglosassoni, e non solo dal pubblico. Critici come Cynthia Ozyck e James Wood hanno gridato al miracolo nelle loro recensioni; Susan Sontag elenca Sebald fra i suoi «talismanic writers», insieme ad autori come Borges e Barthes, e lo osanna sulle pagine del Times Literary Supplement, ponendo la sua scrittura nell’ambito di quel «sublime» che sembrava scomparso dalla letteratura contemporanea. Insieme alla Sontag, Antonia S. Byatt e Tariq Ali hanno proposto Vertigo (traduzione inglese di Schwindel. Gefühle) come International Book of the Year nel 1999. Non così nei paesi di lingua tedesca, dove Sebald non ha riscosso un grande successo, nonostante recensioni molto positive – seppur prive delle grandiose lodi americane; non è un caso, del resto, che il retro di copertina dell’edizione italiana degli Emigrati contenga solo citazioni di autori anglosassoni. Questa disparità di ricezione dipende forse da un certo scetticismo del pubblico di lingua tedesca per la «grande arte», che puzza sempre di rievocazione nostalgica del passato – seppure nella denuncia delle atrocità – richiamando i miti del totalitarismo. Lo sguardo all’indietro di Sebald è capace di cogliere, fra i frammenti delle rovine, immagini straordinarie come quella dell’orsetto, rilevandone una misteriosa valenza universale di cui non sa dare pienamente ragione – e questo dona alla sua scrittura un’eccezionale modernità, impedendo al suo tono ottocentesco di finire nel Biedermeier. Ma d’altra parte, questo stesso sguardo è a tratti troppo incrostato di letteratura, troppo concentrato sul particolare e sul singolo, per dare una visione davvero lucida della storia.

Massimo Bonifazio

Tratto da: Alias (Supplemento culturale de “il manifesto”), sabato 27 ottobre 2001

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