La "Medea” di Christa Wolf


Anna Chiarloni

1. L’architettura del testo [i].

Il titolo del romanzo – Medea [ii]ci immette immediatamente in un orizzonte mitologico. Qualsiasi lettore che abbia familiarità con la letteratura classica identifica nel nome di Medea la donna che, travolta dalla gelosia, uccide i figli avuti da Giasone. Da Euripide a Pasolini è infatti quella di un’infanticida l’immagine, tragica e monolitica, che ci è stata tramandata.

Il sottotitolo tuttavia – Stimmen – disegna nella sua forma plurale una sorta di fondale frastagliato accanto alla figura centrale. Voci: un sottotitolo prismatico. Da una parte evoca un’eco postuma, la traccia fonica di altre Medee che parlano alla nostra memoria letteraria. Dall’altra il termine invita all’ascolto del «romanzo» – nell’edizione originale la definizione del genere compare nel frontespizio – introducendo al tempo stesso uno dei cardini narrativi del testo, quello, su cui torneremo, dello sguardo incrociato, ovvero della molteplicità dei punti di vista rispetto alla protagonista.

Giriamo pagina e osserviamo i passaggi che la Wolf premette alla narrazione vera e propria. Troviamo una prima «voce» femminile, in forma di epigrafe. Con la citazione da Elisabeth Lenk l’autrice annuncia un principio caratteristico del romanzo moderno, quello dell’acronia.

Apro una parentesi. Per nostra fortuna lo scrittore non è necessariamente un critico letterario, ma se volessimo disquisire sul termine, dovremmo notare che Lenk usa acronia in senso lato, non come «simultaneità indifferente» – alla Joyce, tanto per intenderci – ma come «incastro di epoche congiunte insieme» secondo il meccanismo dello stativo, una fuga di strutture che tendono a venirsi incontro nel tempo («sich verjüngender Strukturen», p. 5). Ora, mi pare che questo scorrere avanti e indietro lungo l’asse del tempo comporti piuttosto un’anacronia, fondamentale – fin da Der geteilte Himmel – nella tecnica narrativa della Wolf, che pur perseguendo la linea soggettiva del ricordo non ha un andamento meramente associativo e frammentario, tipico dello stream of consciousness e appunto dell’acronia, ma semmai opera sulla successione degli eventi narrati: la fuga dalla Colchide, la violenza di Corinto e l’emarginazione finale.

Certo, altri sono gli elementi che fanno intuire le ragioni di un’empatia tra Wolf e Lenk. Si noti il movimento interno e la chiusa conviviale della citazione, articolata nella prima persona plurale: sono le figure del passato che, in ansioso ascolto, muovono verso di noi tendendo le mani «verso il succulento banchetto» («zum lecker bereiteten Mahle», p. 5). Ritroviamo cioè nelle immagini di Lenk quella stessa dimensione familiare, vorrei dire domestica, ricorrente nell’opera della scrittrice tedesca, anche nella prosa d’ispirazione mitologica, da Kassandra fino, appunto, a Medea. Dove, mentre incombe la tragedia, si passa in minuziosa rassegna l’interno della cucina di casa, al centro la fedele Lissa intenta a impastare olio e farina.

Andiamo avanti. Del tutto inconsueta nel romanzo contemporaneo è la presentazione dei personaggi – più esattamente delle «voci» protagoniste – redatta nella forma propria del testo teatrale, con tanto di puntuale indicazione, anche per gli «altri personaggi», della provenienza e del ruolo loro assegnato sulla scena del romanzo. Scena che, da un punto di vista spaziale, risulta subito ripartita in modo bipolare, secondo i due toponimi Colchide e Corinto [iii].

Segue un corsivo senza titolo, di nuovo riconosciamo una traccia teatrale, quella del prologo. È l’autrice che interviene sul proscenio del testo, anch’essa come Elisabeth Lenk nella forma plurale? Attraverso il «wir» la sua voce – più correttamente la voce narrante – si allinea a quella di Lenk, ma il moto nel tempo è inverso: l’evocazione iniziale, introdotta da un andamento che richiama la pentapodia giambica – «Wir sprechen einen Namen aus und treten, da die Wände durchlässig sind» (p. 9) determina un procedere verso il passato. Di qui l’incontro, e lo sguardo d’intesa con la protagonista, ancora anonima, se pur immediatamente definita dalla domanda che enuncia il nodo ideologico del testo: «Kindsmörderin? Zum ersten Mal dieser Zweifel» (p. 9).

Sostenuto dal gesto amicale della mano tesa e dal reiterato lessico dell’incontro – «erwünschte Begegnung, entgegenkommen, begegnen, sich nähern, miteinander gehen, sich treffen» (p. 9)il «noi» tende progressivamente a includere anche il lettore chiamandolo a una compresenza, sottolineata nello stacco finale da un implicito invito all’ascolto: «Jetzt hören wir Stimmen» (p. 9).

Epigrafe, presentazione, prologo.Tre passi, come in una fiaba, per entrare nell’edificio centrale del testo, costituito da undici capitoli numerati e intestati ai sei personaggi con diritto di parola. Sono le «voci» del romanzo: Medea, Giasone, Agameda, Acamante, Glauce e Leuco.

Ben visibile nella sua simmetria è la struttura tettonica adottata dalla Wolf. Quattro volte interviene Medea, che apre e chiude la narrazione. A Giasone, come a Leuco, è assegnata una replica. Solo un intervento sentiamo invece da Agameda, Acamante e Glauce. Quest’ultima ha tuttavia una posizione centrale – il sesto capitolo – all’interno del romanzo.

Capitoli, dicevo. Definizione etimologicamente corretta, nel senso che corrisponde a un caput, a un personaggio che parla. Ma non sono, queste, sezioni che ubbidiscono alla tradizionale funzione di scandire la vicenda secondo un principio di progressiva sintesi o di evoluzione dei personaggi; si tratta piuttosto di monologhi che corrispondono alle diverse facce di un prisma, non alle voci di una partitura polifonica. Una struttura che segnala un’inquietudine strumentale, sottolineando la solitudine dei singoli personaggi, la cui voce resta sigillata tra le pagine bianche che dividono i capitoli. È il segno del conflitto radicale che separa gli individui isolandoli uno dall’altro.

Interessante è il dispositivo che compensa l’assenza dell’intervento autoriale: le voci risultano filtrate dalle undici citazioni che, alla stregua di un’antifona, precedono, orientandolo, l’ascolto del personaggio. Paradossalmente muta – prologo a parte – la voce narrante, la scrittrice si serve proprio di questa rete di voci secondarie, che innervano tutto il testo, per introdurre il suo punto di vista. Un esempio: l’intervento di Giasone è preceduto da una citazione dal Simposio di Platone che richiama l’impulso del maschio a «restare nella memoria conquistandosi un nome immortale per l’eternità» (p. 41). Un’annotazione che – utilizzata in anni di pacifismo (femminista), notoriamente sarcastico nei confronti del collegamento, tipico della cultura classica dagli antichi Greci, via Hegel fino a Nietzsche, tra arte e guerra – annuncia Giasone quale protagonista non già dell’eroica impresa del Vello d’oro quanto piuttosto di una distruttiva goliardata giovanile [iv].


2. Testo e sottotesto. Il mito sepolto

La lettura del romanzo, a partire dal dubbio espresso nel corsivo – «Kindsmörderin?» (p. 9) non può che procedere nella dialettica continua del confronto con l’altra Medea. La protagonista della Wolf costituisce infatti una negazione radicale del mito, o meglio dell’interpretazione canonica che, da Euripide a Heiner Müller, la vuole infanticida. In un’epoca come la nostra, incerta e confusa ma forse proprio per questo ancorata ad alcune stelle fisse – mettere in discussione, come ha fatto la Wolf, un mito consolidato da oltre due millenni può destare qualche perplessità in quanto tende a incrinare dei riferimenti consueti, a cancellare una convenzione. Ora, sulla funzione rassicurante del mito nella nostra cultura, risultano utili le ricerche della moderna antropologia.

A partire dall’epica omerica il mito è legato alla memoria e al racconto, cioè alle forme con cui le comunità arcaiche hanno conservato e trasmesso il proprio patrimonio di conoscenze. Per questo i personaggi che agiscono nel racconto mitico hanno delle costanti che li rende riconoscibili, dunque rassicuranti. Nella loro funzione ripetitiva essi risultano adatti a riproporre un nucleo vitale ricorrente, nel nostro caso la gelosia d’amore. Di qui l’irritazione di alcuni recensori che hanno ravvisato nel romanzo della Wolf una censura femminista a un ganglio ritenuto centrale nell’immaginario sentimentale: la rappresentazione di un rigoglio passionale femminile incondizionato, tale da annullare non solo i vincoli di appartenenza familiare, ma anche di cancellare la stessa identità materna fino alla conseguenza estrema, l’infanticidio appunto. Parte della critica si è perciò sentita defraudata dalla virtuale cancellazione operata dalla Wolf – anche perché la sua integra e saggia Medea, se pur definita «wilde Frau» (p. 10), è oggettivamente priva della hybris che sostiene la figura euripidea – sicché buona parte delle stroncature sembra muovere da un’offesa rivendicazione, secondo il motto: «Vogliamo di nuovo la nostra vera Medea!»[v].

Ecco dunque sorgere la domanda: è lecito parlare di una Medea autentica? Il sottotitolo del romanzo – Stimmen – e la rete citazionale di cui abbiamo parlato alludono a una lettura polisemica, consapevole delle varie interpretazioni. Il mito, infatti, è un complesso dinamico, suscettibile di varianti, articolazioni, aggiunte che si stratificano nel tempo. D’altra parte, è proprio attraverso lo studio dei vari filoni narrativi relativi alla figura di Medea che la Wolf si è vista confermare una sua intuizione, questa sì di impianto femminista [vi].

Il processo è puntualmente descritto dall’autrice nell’ intervista cui rimando [vii]. Quello che voglio qui sottolineare è il percorso della sua ricerca: dalla rivisitazione del concetto di matriarcato all’analisi di un’incoerenza linguistico-comportamentale; dalla ricerca filologica alla messa in discussione del testo euripideo. Vediamo questa successione.

Christa Wolf parte dal presupposto che dal matriarcato non possano discendere pulsioni distruttive: «Nel corso dei millenni la figura di Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di denigrare lo specifico femminile. Ma qualcosa non mi tornava: Medea non poteva essere un’infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli». È nata di qui la spinta a interrogarsi su un’altra anomalia. Nomen omen, dice un antico detto. Inspiegabile, annota la Wolf [viii], era invece il contrasto tra l’etimo positivo del nome – Medea, ossia «colei che porta consiglio», come si conviene a una guaritrice – e la raffigurazione classica, quella appunto di un’infanticida [ix].

Iniziato con Kassandra, questo impulso alla verifica, anche linguistica, dei dati tramandati dalla tradizione, mi sembra uno degli esiti più interessanti della ricerca della Wolf. Perché tende a mettere in discussione la rappresentazione usuale del mondo, decostruendo la cosiddetta «cultura dell’uomo europeo».

Questo esercizio di padronanza del mondo – uso qui un’espressione di Luisa Boccia – non segue un percorso solitario. Grazie a una rete di relazioni fra intellettuali di portata internazionale – un novum che, per quanto riguarda la letteratura si registra solo in ambito femminista – la Wolf si avvale del contributo di alcune studiose, sia europee che americane [x]. E determina poi, una volta pubblicato il romanzo, una mole imponente di studi – antropologici e archeologici, oltre che letterari – non ancora esaurita [xi].

Ripercorrendo a ritroso i frastagliati sentieri del mito fino alle fonti precedenti alla versione di Euripide – essenzialmente le testimonianze di Apollonio Rodio, oltre ad alcune note di commento redatte da scoliasti euripidei – la scrittrice ha rintracciato un’altra Medea: una donna travagliata sì dall’amore, ma ancor più dall’intolleranza degli abitanti di Corinto, che la emarginano annientandola negli affetti, fino a lapidarle i figli.

Ora, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto – colpevoli di aver massacrato i figli di Medea – emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso: quindici talenti d’argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al drammaturgo per questa sorta di cosmesi di stato, utile per presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dioniso[xii]. Gli elementi di questa mistificazione ai danni di Medea erano quindi noti agli specialisti. Il merito della Wolf sta nell’averli dissepolti, interrogandosi su di un costume ricorrente nella storia a partire almeno dall’antica Atene (del IV sec. a.C.), quello cioè della rappresentazione distorta, contraffatta o consolatoria della realtà, tipico dei periodi d’incertezza e di crisi.

Certo, l’utilizzo del mito è qui arricchito dall’innesto psicanalitico, ben visibile nella figura di Glauce. Nel racconto di un’identità contraffatta la traccia mitica è animata dai fantasmi del rimosso che segnano il corpo e la psiche della figlia di Creonte fino a condurla al suicidio.

Ma torniamo ancora al ribaltamento – o meglio allo scavo – operato dalla Wolf.

È interessante richiamare qui una convergenza delle riflessioni che strutturano il romanzo con le recenti acquisizioni degli studiosi del mito. Oggi infatti si tende a distinguere tra miti primitivi – ancora vicini alle radici profonde del reale, come ad esempio i miti filosofici di Platone – e i miti più recenti, o «nuovi miti», che si configurano come un allontanamento intenzionale dalla realtà [xiii]. L’operazione della Wolf può quindi essere definita come il ritrovamento di un mito originario successivamente occultato da Euripide – attraverso una forma di grande efficacia comunicativa come la tragedia – in ubbidienza agli interessi degli abitanti di Corinto. Non a caso in Im Stein – un testo autobiografico del 1995 – la Wolf scriveva della necessità di rintracciare la «verità sotto le stratificazioni di malintesi, errori, inganni», sobbarcandosi la fatica di sottoporre il testo ai «quesiti decisivi»[xiv]. Mentre da un punto di vista più specificamente antropologico sarebbe interessante andare a vedere perché manchino in area greca raffigurazioni di Medea infanticida, presenti invece nell’Italia meridionale, in particolare nell’arte funeraria pompeiana. E già che siamo in sede di discussione interdisciplinare aggiungo che potrebbe rivelarsi utile, in una prospettiva storico-religiosa, la comparazione fra la mitica guaritrice della Colchide e alcune figure femminili dell’iconografia cristiana nell’area geografica dell’attuale Georgia [xv].

Uno degli aspetti indagati dagli studiosi è poi la permanenza del mito all’interno di una data società e l’eventuale generarsi di una falsa coscienza. «Sie sorgen dafür, daß auch die späteren mich Kindesmörderin nennen sollen» lamenta la protagonista della Wolf nello straziato monologo finale [xvi]. Ora, le ragioni del radicamento di una raffigurazione distorta, quale la Medea del tragediografo greco, nella nostra cultura sarebbero iscritte nella storia ideologica della società patriarcale che – soprattutto nei periodi di crisi, ricorda la scrittrice, tende a cercare un capro espiatorio, caricando di segni negativi una determinata figura, spesso femminile, si chiami essa Cassandra o «strega» destinata al rogo, per destituirla di ogni autorevolezza.

In chiave attualizzante non si può non rilevare che il richiamo a una «crisi», e quindi alle tipiche manifestazioni ad essa connesse, quali la narcosi delle idee fondanti, l’occultamento della realtà negativa e l’enfatica celebrazione di un potere ormai in declino, evoca gli ultimi anni della Ddr, mentre il riferimento al capro espiatorio sposta l’attenzione del lettore al periodo successivo alla caduta del muro, in particolare alla campagna di diffamazione promossa nel 1990 dalla stampa occidentale nei confronti degli intellettuali della Ddr, e soprattutto della stessa Wolf, accusata di connivenza con il regime di Honecker.


3. Dalla Colchide alla Germania riunificata

Per chiarire le valenze attualizzanti del romanzo è necessario fare un passo indietro e osservare il percorso della scrittrice utilizzando la prosa a cavallo della riunificazione. Ricordo che quando lessi le bozze tedesche di Sommerstück – nei primi mesi del 1989 – ebbi la netta sensazione della fine di ogni speranza di rinnovamento.

Nella Ddr rappresentata dalla Wolf non c’era ormai nulla da salvare. Quel bisogno di silenzio di un Io frastornato dalla pressione ideologica, il vano cercare requie nella natura, quel rovello di fondo che riemerge negli incubi notturni di Ellen – utilizzati dalla Wolf con l’usuale trasparenza – e ancora: la fuga affannosa da vuote cerimonie ufficiali, la minaccia di congegni dai quali non c’è scampo se non nell’autoannientamento – tutto questo, dicevo, appariva come il bilancio negativo di una generazione d’intellettuali. «Diventare quasi invisibili: questo era il prezzo per poter sopravvivere. Ellen non aveva scelta»[xvii].

Il romanzo – letto alla luce degli avvenimenti successivi – si è rivelato profetico. «Cosa resta, Steffi, cosa resta. Vedo la nostra generazione dissolversi come sotto una forte irradiazione […] Vedo i nostri contorni venir meno, come se non fossimo destinati ad avere un profilo preciso», si legge nelle ultime pagine di Sommerstück [xviii]. Cosa resta – è la domanda che la Wolf si pone anche nella prima prosa pubblicata dopo la caduta del muro.

Diario pubblico di un’orfana, potremmo definire Was bleibt, il racconto uscito nel maggio del 1990 [xix]. Un testo tutto sommato minore, ma che ha diviso la critica tedesca scatenando una violenta diatriba. Da una parte coloro che l’hanno liquidato come un infelice tentativo della Wolf di rifarsi una verginità politica presentandosi come dissidente, dall’altra quelli che vi leggono una significativa testimonianza sulla vita degli intellettuali nella RDT di Honecker. Il dibattito ha attraversato i media dividendo talora – come nel caso della «Zeit» – la stessa redazione. È ovvio che quando nasce una discussione di questa portata la posta in gioco non è semplicemente di carattere estetico letterario, e difatti c’era di mezzo la valutazione degli ultimi quarant’anni di storia tedesca [xx].

Gli argomenti addotti dai detrattori e dai difensori della Wolf illuminano bene le tensioni interne alla Germania riunificata. Esaurita l’euforia iniziale si comincia nei primi anni Novanta a fare i conti dal proprio punto di vista ideologico e generazionale.

Tra i denigratori della Wolf, e in generale della letteratura della Ddr, non ci sono solo dei conservatori come il direttore del feuilleton della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che in un corposo intervento ha liquidato tutta l’opera della Wolf, a cominciare da Der geteilte Himmel, utilizzando per dritto e per rovescio la nota equazione di Nolte stalinismo = nazismo, nella versione piú aggiornata: socialismo = stalinismo = nazismo. Ci sono anche intellettuali, per esempio Marcel Reich-Ranicki o Hans Noll, che si erano a suo tempo trasferiti a ovest – una scelta di campo regolarmente punita dal governo con la cancellazione dei ‘traditori’ dai cataloghi dell’editoria Ddr – e che dopo il 1989, dal crinale vincente della storia, guardano con una certa arroganza, se non con «la rabbia dei convertiti», come ha scritto Günter Grass, a chi, come la Wolf, si è ostinata fino alla fine a sostenere la causa socialista. Sono, questi, elementi del dibattito tedesco che illuminano la funzione di alcune figure all’interno di Medea, come Agameda o Presbo [xxi].

D’accordo, le posizioni all’interno del folto gruppo d’intellettuali che – per lo più dopo l’espulsione di Biermann – si erano trasferiti a Ovest sono variegate, è tuttavia di qui che una certa stampa ha attinto gli interventi più violenti contro la Wolf – assunta come protagonista della cultura socialista – utilizzandoli dopo il crollo del muro con una cronologia sulla quale vale la pena riflettere.

Riprendiamo brevemente i fatti. La Ddr è caduta, un pezzo dopo l’altro, a cominciare dall’esodo massiccio del settembre 1989. Invano gli intellettuali – tra cui la Wolf, firmataria di un appello per la rifondazione della repubblica socialista nell’ambito di una confederazione tedesca – si illudono che una volta deposto Honecker si possa ancora riformare dall’interno il paese. Abbattuto il muro, l’unificazione è ormai inarrestabile. Le prime elezioni libere non fanno che accelerare la conclusione: in pochi mesi la Ddr – screditata dalle rivelazioni sui servizi segreti e travolta dall’economia di mercato – è di fatto cancellata con le sue strutture dalla scena politica [xxii].

È in questo contesto che ha inizio su alcuni quotidiani della Germania Federale la campagna di denigrazione contro quegli intellettuali che, come la scrittrice, intervengono per difendere l’utopia socialista. Nell’aprile del 1990 – ancor prima dunque della pubblicazione di Was bleibt – dal quotidiano conservatore «Die Welt» parte la prima bordata, firmata da Jurgen Serke [xxiii].

Ma che cosa c’entra tutto questo con la letteratura? – ci si chiederà a questo punto. Il fatto è che quarant’anni di contrapposizione ideologica non si cancellano con un colpo di spugna. D’altra parte bisogna riconoscere che in questo clima di gioco al massacro la pubblicazione di un testo del 1979, rielaborato dopo la caduta del muro, costituisce un facile bersaglio[xxiv]. Anche se in Was bleibt la Wolf ha l’onestà di rappresentarsi in posizione – grazie alla sua notorietà – privilegiata rispetto ai giovani contestatori che sul finire degli anni settanta finivano in carcere per pochi versi contro il regime, ciò non di meno è il fatto stesso di aver sopportato in loco le angherie descritte, invece di cercare riparo presso il munifico fratello occidentale, che la rende sospetta.

A dare il via alle stroncature è Marcel Reich Ranicki nel corso di una trasmissione televisiva dedicata alla letteratura. Gli fa seguito Ulrich Greiner («Die Zeit»,1.6.1990), accusando la «poetessa di stato» di spacciarsi – in virtù di una Wartburg con tre sbirri posteggiata davanti a casa – per vittima dei servizi segreti. Invano Volker Hage, con una recensione simultanea sullo stesso numero di «Die Zeit», cerca di riportare la discussione in ambito letterario, soffermandosi sul sottile intreccio di quotidianità e minaccia che alimenta le riflessioni di un io «mobile», situato al centro del racconto. Nelle recensioni successive – ci limitiamo qui a riassumerne due di opposta tendenza – la lettura resta esclusivamente ideologica. Secondo Franz Schirrmacher la stessa «inquietante» biografia della Wolf – ossia la sua fedeltà al socialismo – va rivista alla luce della metodologia applicata dalla scuola di Francoforte nell’analisi del nazismo, essendo «i quarant’anni di Ddr una continuazione di quel disgraziato rapporto tra intellettuali e potere» che distingueva la Germania del Terzo Reich («Frankfurter Allgemeine Zeitung», 2.6.1990).

Anche Günter Grass, in una tesa intervista con lo «Spiegel» (16.7.1990), ripercorre la biografia della Wolf, ma per arrivare a conclusioni opposte: rivendicando la dignità di una letteratura che si identifica con l’antifascismo, nata in uno stato – la Ddr – «ai cui vertici c’erano i protagonisti della resistenza», lo scrittore respinge con foga la pretesa analogia tra il 1945 e il 1989, ossia tra la caduta del nazismo e quella del socialismo reale. Un tema, questo, sul quale la discussione non si è ancora esaurita [xxv].


4. Le metafore di Medea

La risposta della Wolf giunge nel sesto anno della riunificazione tedesca. Perché il romanzo è anche questo: attraverso la riscrittura della Medea la Wolf segnala una rivolta contro ogni forma di mistificazione storiografica, in primis quella relativa al recente dopoguerra. Contemporaneamente la scrittrice articola la sua riflessione sul rapporto tra potere costituito e intellettuali, nella Ddr di ieri e nella Germania di oggi.

Piú marcata rispetto a Kassandra, emerge qui la cifra di una naturalezza esotica. Un tratto, questo, che allarga il ventaglio dei riferimenti al confronto – sempre più drammatico nell’Europa di oggi – tra etnie e culture diverse.

Fiera e ardente, trasgressiva nel riso e nelle brune chiome sciolte, la barbara della Colchide – benché ormai espulsa dal palazzo reale di Corinto – conserva una sua orgogliosa vitalità primaria che si alimenta di un sapere istintivo, mutuato dall’ordine materno. Colpisce infatti fin dalle prime pagine l’attenzione della Wolf, correlata con l’evocazione della madre di Medea, per una memoria creaturale capace di generare conoscenza di sé e del mondo: i gesti della mano femminile ad esempio – che lenisce le ferite, affonda nei capelli dei figli o sfiora nel ricordo il corpo di Giasone – scandiscono lungo il testo il linguaggio fidato dei sensi. S’intuisce l’impronta di un’altra cultura, primitiva e periferica, depositaria di un sapere mite e agreste, non ancora inquinata dalla prassi greca, intesa qui come corsa verso un falso progresso [xxvi].

Medea non rappresenta tuttavia l’oscuro inabissamento nella dimensione istintuale, al contrario essa rivendica l’archetipo della chiarezza, lo scandalo della ragione. Né c’è una difesa del ‘femminile’ inteso come intrinseco principio salvifico: la violenza, infatti, non risulta dislocata nel solo mondo maschile, si pensi alla fine di Apsirto, ucciso da alcune vecchie fanatiche, o alla scena in cui un manipolo di ebbre femmine colche evirano Turone, sorpreso ad abbattere il bosco sacro a Demetra.

Donna di semenza vigile e ostinata, la barbara della Colchide si oppone al precetto di Acamante, l’astronomo di corte che la vorrebbe ligia e devota a una liturgia del potere destinata a celare i crimini del palazzo. Medea nega la separazione tra Amt e Person – tra pubblico e privato – e non riconosce altra autorità se non quella del proprio intuito. È questo suo «secondo sguardo» (p. 19) che la spinge a seguire Merope, regina muta e sepolcrale, fin nelle viscere della sontuosa casa reale carpendone il segreto murato nel sottosuolo: nel timore di perdere il trono il re Creonte le ha ucciso la figlia primogenita, Ifinoe.

Quel regno che si pretende vessillo di gesta gloriose è dunque fondato su di un crimine. È proprio questa scoperta a travolgere Medea: Corinto reagisce prima con la diffamazione, poi, devastata dalla peste, identifica in lei, nella donna diversa, irriducibile alla norma dei potenti, il capro espiatorio. Aizzata dalla corte, sarà la folla a lapidarle i figli. E sarà Corinto, o meglio la ragione di stato – complice Euripide – a consegnare ai posteri l’immagine di una Medea sfregiata dall’accusa d’infanticidio, istituendo con ipocrita cura un rito di riparazione per un delitto da lei non commesso.

Dalle diverse voci affiorano gli altri nodi tematici del mito, anch’essi vicari di una riflessione attualizzante. L’uccisione di Apsirto, fratello di Medea, per mano del padre Eete, re della Colchide, è un misfatto che nell’economia politica del romanzo istituisce una simmetria della violenza patriarcale tra la Colchide e Corinto. Come Merope, anche Idia, la madre, deve infatti subire la violenza regale contro la propria carne. Ed è questa ferocia maschile che spinge Medea alla fuga. Un elemento significativo che, nei suoi riflessi ‘tedeschi’, getta una luce sinistra anche sulla storia della Ddr.

Dislocate nelle frequenti analessi le schegge di una valutazione negativa del passato di Medea sono infatti inequivocabili: «unsere Kindheit, nein, das ganze Kolchis war voller dunkler Geheimnisse» (p. 16) – un’infanzia segnata da oscuri segreti, ma anche da un’ubbidienza incondizionata alla norma vigente, complice lo stesso precetto materno. Qui le metafore si fanno trasparenti – «Mutter […] auch mit der Mauer zu verschmelzen hast du mich gelehrt» (p. 23) – evocando, alla maniera di Christa T., una giovinezza murata nella coercizione collettiva.

Alla stessa Agameda, figura di discepola al tempo stesso perfida e meschina, è assegnata la funzione di enunciare nelle pieghe del testo la presunta colpa di Medea, quella dell’oblio di una partecipazione, nella Colchide, al potere del palazzo: «Diese Gedächtnislücken, die sie sich erlaubt» (p. 73) – i vuoti nella memoria di Medea. Un segnale che va probabilmente correlato col riemergere dei fascicoli relativi alla collaborazione della Wolf – negli anni sessanta – con i servizi di sicurezza della Ddr. Di questa tormentata vicenda si può d’altra parte intravedere l’impronta nella sequenza onirica dello Schlangenbiß, il morso del serpente che affiora alla memoria nel già citato Im Stein, il testo autobiografico del 1994 [xxvii], e ancora nella lezione tenuta a Torino nel 1997 [xxviii].

Ma se da una parte la Wolf fa i conti col proprio passato, altrettanto palesi sono nel testo le allusioni a quella parte della Germania che, spinta dall’ansia verso un sempre maggiore benessere, individua nel censo la misura della dignità umana. «Korinth ist besessen von der Gier nach Gold» (p. 36 sgg.). I riferimenti al sistema di valori del liberismo economico occidentale sono espliciti. L’arroganza ideologica dei «Corinzi» e l’incapacità di interagire con la diversità, anche culturale, la Wolf l’ha sperimentata di persona. Non a caso Medea e la sua gente nel romanzo vengono definiti Flüchtlinge o Einwanderer: i Colchi rappresentano infatti agli occhi dei Greci i reietti di un mondo alla deriva, destinati a vivere alla periferia di una società opulenta e sofisticata, privi ormai anche un’identità storica. Ora, nel decimo anno dalla caduta del muro si potrebbe pensare che queste allusioni alle tensioni interne del paese riunificato siano ormai obsolete. Non è così [xxix]. Ancora recentemente, in un convegno sui problemi dell’immigrazione in Germania, uno studioso tedesco ha definito i cittadini della ex-Ddr come Einwanderer: «immigrati in una società dei consumi che essi non hanno contribuito a edificare» [xxx].

Non sarebbe tuttavia corretto vincolare il testo a una lettura ‘a chiave’, strettamente legata alle interne vicende tedesche. Depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra, Medea ci parla col tumulto nel cuore di chi denuncia la violenza nel mondo, questa sí sempre attuale, sempre ostinatamente reiterata. Chi è oggi l’infanticida, chiedevo alla Wolf nel 1997. Chi sono i carnefici? E pensavo alla mafia, alle mine antiuomo, al mercato d’armi che paga e massacra. Sono passati due anni. Leggo in Medea un passo oggi amplificato dagli eventi intorno a noi. È Circe che parla, lo sguardo ai navigatori del Mediterraneo che approdano all’ isola della maga:

Weißt du, was sie suchen, Medea? Fragte sie mich. Sie suchen eine Frau, die ihnen sagt, daß sia an nichts schuld sind; daß die Götter, die sie zufällig anbeten, sie in ihre Unternehmungen hineintreiben. Daß die Spur von Blut, die sie hinter sich herziehen, zu ihrem von den Göttern bestimmten Mannsein gehört. Große schreckliche Kinder, Medea. Das nimmt zu, glaub mir (p. 109)[xxxi].

In questa stretta connessione con i problemi del nostro tempo vedo il nucleo forte del testo. Che non esclude un’ostinata evocazione di un prius originario, in un’attesa di salvezza che dissolve i confini geografici recuperando la semenza della reciproca tolleranza .

Ricomponendo il volto di Medea la Wolf si ripropone come figura d’intellettuale capace di riscrivere la storia alla ricerca di una verità che vuol essere coinvolgimento esistenziale, formazione della coscienza. Ricondotta alla sua trasparenza onomastica, la Medea tedesca «porta consiglio» ripercorrendo le ragioni archetipiche di una limpidezza morale che si coniuga con un ritorno alla naturalezza, ma anche a un principio di reciproca tolleranza. La rivendicazione di fondo – che muove anche da intellettuali occidentali come Günter Grass – resta ancora oggi quella di una sintesi concettuale che tuteli la comprensione della diversità tra le due Germanie dal dopoguerra alla caduta del muro. Sono, queste, le stesse categorie di Habermas. Non a caso la Wolf ha pubblicato un carteggio con il filosofo tedesco: perchè è necessaria una buona dose di pazienza illuministica per riproporre oggi le parole forti del bisogno e del progetto, della diversità e della storia.

Anna Chiarloni

Torino, 1999


[i] Ho in parte utilizzato il percorso proposto da M. Foschi Albert, Generi letterari. 1. Narrativa, Bari 2000.

[ii] C. Wolf, Medea. Stimmen, Gütersloh 1996. Nel testo rinvio a questa edizione. Le citazioni sono seguite dall’indicazione fra parentesi del numero di pagina. Per i passi in italiano rimando alla traduzione di Anita Raja, Roma 1996.

[iii] Nelle interviste la Wolf rammenta anche Creta come luogo d’origine di Oistro, uno dei personaggi positivi del testo. Il dato però non risulta nella redazione finale: ne desumo che la scrittrice l’abbia espunto proprio per accentuare la contrapposizione tra Corinto e la Colchide.

[iv] Analogamente la voce di Agameda è preceduta da una citazione di Euripide che ne annuncia la perfidia: «Creonte: e se le donne non sono neanche capaci di bene, sono tuttavia maestre del Male» (p. 71).

[v] Diversa è la posizione di C. Magris che legge nella Medea infanticida il segno di uno strazio più grande, quello di un’estraneità non solo rispetto alla Colchide e a Giasone, ma anche – con l’uccisione dei figli – a se stessa. Cfr. Lagune, in Microcosmi, Milano 1997, p. 72.

[vi] Mi riferisco ai numerosi studi mossi negli anni Settanta da una rilettura dell’opera di Bachofen.

[vii] Warum Medea? In «Buchjournal», Gennaio 1996.

[viii] Ivi.

[ix] La radice med (cfr. il latino medicus) è presente in tutta l’area indoeuropea. Dal punto di vista linguistico Medea è affine ad altre eroine: Agameda, Idia, Polimeda, Perimeda ecc. Sono nomi che evocano la capacità di guarire. Non è un caso che nel romanzo la stessa Agameda, benché figura negativa, sia una guaritrice.

[x] Va ricordato in particolare il contributo di M. Schmidt, autrice di un ampio saggio su di un reperto romano del II. secolo d.C., il cosiddetto Basler Medeasarkofag, che conferma l’ipotesi iniziale della Wolf di una Medea diversa dalla feroce infanticida euripidea. Cfr. M. Hochgeschurz (a cura di), Christa Wolfs Medea. Voraussetzungen zu einem Text. Mythos und Bild, Berlin 1998, pp. 20-26. I saggi sono in parte raccolti in Christa Wolf, L’altra Medea. Premesse a un romanzo, trad. di Chiara Guidi, Roma, 1999.

[xi] Sul versante italiano mi limito a segnalare la tempestiva raccolta curata da G. Schiavoni, Prospettive su Christa Wolf. Dalle sponde del mito, Milano 1998.

[xii] Cfr. R. Graves, I miti greci, Milano 1955, p. 571.

[xiii] M.Godelier, Rapporti di produzione, miti, società, Milano 1976.

[xiv] C.Wolf, Im Stein, Rudolstadt 1998, p. 23.

[xv] Ricordo che anche nella letteratura di viaggio occidentale compaiono figure di guaritrici di origine georgiana. Si vedano in questo senso le annotazioni di Goethe alla lettura dei Viaggi di Pietro Della Valle e il rilievo dato alla «bella Maani, una sorta di amabile medico di famiglia, in grado di dare sufficiente informazione di come crescono radici, erbe e fiori, di resine, balsami, olii e semi». In: J. W. Goethe, Il divano occidentale-orientale, a cura di L. Koch e I. Porena, Milano 1990, p. 673.

[xvi] Hanno cura che io sia chiamata infanticida anche presso i posteri (p. 236).

[xvii] Christa Wolf, Sommerstück, Berlin und Weimar 1989, p. 25.

[xviii] Ibidem, pp. 176 sg.

[xix] Christa Wolf, Was bleibt, Berlin -Weimar 1990.

[xx] Una scrittrice si accorge di essere sorvegliata dalla polizia. La posta viene manomessa, il telefono controllato. Davanti a casa sosta in permanenza un’auto. Successivamente la polizia carica la folla di giovani accorsa alla presentazione del suo ultimo libro. Come continuare a scrivere in queste condizioni? La denuncia nei confronti dell’apparato di Honecker è esplicita ma – notano alcuni – tardiva: il testo, scritto nel ’79, è stato rielaborato dopo la caduta del muro, ed è questo che desta scandalo, anche perché l’editore Luchterhand, nella quarta di copertina, punta alla sensazione presentando la Wolf come vittima dei servizi segreti, il che significa metterla implicitamente sullo stesso piano di altri dissidenti che con la Stasi ebbero guai ben maggiori. Senza contare che successivamente verranno alla luce i fascicoli relativi ai rapporti scritti dalla stessa Wolf per i servizi di sicurezza degli anni Sessanta.

[xxi] In questo contesto pare significativo che l’opera di diffamazione nei confronti di Medea a Corinto venga attuata da Agameda e Presbo, ambedue provenienti dalla Colchide.

[xxii] Mentre vengono istituiti corsi intensivi di economia e commercio a cura della European Business School, si insediano commissioni tedesco-federali di controllo sulle attività delle accademie, degli istituti di ricerca, delle università e delle case editrici. La Wolf è tra coloro che tentano di arginare la liquidazione della Ddr come «postilla della storia», promuovendo discussioni pubbliche sul ruolo della sinistra nel processo di unificazione del paese.

[xxiii] Il carattere autobiografico dell’opera della Wolf sfiora spesso la trasparenza. Non dev’esser stato quindi difficile individuare Drispeth, il villaggio che fa da sfondo anche a Störfall, e mettersi a frugare alla ricerca di qualche particolare piccante. Tanto più che un tal S. Faust aveva appena pubblicato un libro in cui si sostiene che Antonis, il partigiano greco di Sommerstück, al secolo Thomas Nicolaou, altri non sarebbe che una spia della Stasi. Le conclusioni di Serke sono nette: la Wolf bazzicava l’ambiente dei servizi segreti e, se ora tace, è perché si sente in colpa. D’altra parte, argomenta il cronista, non lo dice anche Hans Noll che nella Ddr spie e intellettuali, magari a causa di una certa frequentazione obbligata, finivano per vivere in amichevole simbiosi? A questo punto per Serke tutte le equazioni sono possibili e i fatti che si potrebbero addurre a difesa della Wolf, per esempio i tagli cui fu sottoposta Kassandra dalla censura Ddr, vengono ribaltati in prove lampanti di ‘ossequio’ all’apparato da parte della «fedele iscritta al partito».

[xxiv] Inoltre, l’ebbrezza della facile vittoria scatena in alcuni occidentali lo spirito del giustiziere. «È l’ora della resa dei conti ed eccolo il colpevole, è colui che è rimasto a est e che ha tenuto duro, ed è contro di lui che si spara a zero, è lui che porta l’uniforme sbagliata, è lui il nemico», nota con amarezza M. Ahrens, a mio parere uno degli osservatori più equilibrati di questa vicenda («Die Zeit», 22.5.90).

[xxv] Lo sconcerto della Wolf a seguito della campagna di stampa del 1990 è evidente in uno dei rari testi poetici della scrittrice, Prinzip Hoffnung: «Angenagelt / ans Kreuz Vergangenheit // Jede Bewegung / treibt / die Nägel / ins Fleisch / 26.5.90». In: Christa Wolf, Was nicht in den Tagebüchern steht, Berlin 1994, p. 6.

[xxvi] A ben guardare la Wolf utilizza qui il mito in funzione – potremmo dire – ‘romantica’, in analogia all’opposizione anti-illuminista del primo Ottocento già enunciata in Kein Ort.Nirgends: nel senso della ricerca di una forma diversa di verità, separata da quella che si pretendeva ‘scientifica’ e, proprio in virtù di questa etichetta, imposta dagli apparati culturali di ieri e di oggi, magari attraverso qualche accorta revisione lessicale afferente al libero mercato.

[xxvii] C.Wolf, Im Stein, cit. p.7: «Die Schlangengöttin Der Schlangenbiß. Örtlich betäubt Wenn ich hier wieder rauskomme, dachte ich, darf ich nicht vergessen und vergaß was ich nicht vergessen durfte».

[xxviii] Von Kassandra zu Medea, ora in Voraussetzungen, cit., pp. 11 e 15.

[xxix] Cfr. la lettera di C.Wolf a H. Göttner-Abendroth, in Voraussetzungen, cit., p. 23.

[xxx] Cfr. l’intervento di E. Seidel-Pielen «Demokratie unter Druck. Wird der demokratische Konsens aufgrund von Wiedervereinigung und Zuwanderung in Frage gestellt?», tenuto al convegno «Multiethnizität und Probleme der Wiedervereinigung», Torino, Goethe-Institut, 12.2.1999.

[xxxi] «Sai cosa cercano, Medea? Cercano una donna che dica loro che non hanno colpe; che sono gli dèi, oggetto casuale di adorazione, a trascinarli nelle loro imprese. Che la scia di sangue che si lasciano dietro fa parte della mascolinità così come gli dèi l’hanno determinata. Grandi bambini terribili, Medea. È cosa che s’intensificherà, credimi. Si propagherà… ». Trad. it. di A. Raja, p. 108.

Immagini tratte da ddrbildarchiv.de

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