Christoph Hein, “Willenbrock”

Foto di coppia con revolver

Anna Chiarloni

In un recente convegno sulla tendenze artistiche contemporanee la critica lamentava il prevalente disimpegno della prosa tedesca, soprattutto di quella giovane, placidamente sonnecchiante nel minimalismo descrittivo di un mondo ormai privo di conflitti sociali. La vecchia guardia però – si pensi a Günter Grass – continua impavida la tradizione del romanzo epico, teso sull’interazione tra destino individuale e grande storia. Un esempio fresco di stampa ce lo offre Christoph Hein con Willenbrock, un libro calato nella Berlino degli anni Novanta che affronta un nodo drammatico e attualissimo, quello dell’immigrazione dall’Est europeo.

Al centro del romanzo campeggia un auto-mercato, luogo squallidamente emblematico dell’economia tedesco-orientale dopo la caduta del muro, ai cui cancelli la mattina preme “mezza Varsavia”, ossia quella spettrale folla in mal arnese che – giunta da Est coi treni della notte – si affaccia e annusa, tasta e valuta le frattaglie automobilistiche della opulenta Europa occidentale. Proprietario è Bernd Willenbrock, ex-ingegnere nella dismessa Ddr, ora cittadino emergente della nuova Germania. Gli affari vanno a gonfie vele – in fatto di auto usate il mercato orientale, si sa, è sconfinato – e il nostro eroe è corredato da tutti gli accessori del caso: la casa in campagna e la moglie occidentale, le riviste porno e il club sportivo. Ma non rappresenta, Willenbrock, lo stereotipo del camaleonte che passa indenne da un regime all’altro, e questo lo si vede bene nell’acceso confronto con un grigio delatore della Stasi, riciclato dopo la svolta nella politica della nazione riunificata. Né ha l’odiosa arroganza del parvenu, al contrario rivela una sua efficace liberalità coi sottoposti che quindi – a cominciare da Jurek, il fidato meccanico polacco – gli sono fedelissimi. Direi anzi che il nostro, mentre nell’amore si rivela un ragioniere d’assalto, sul lavoro è invece impeccabile, non a caso – nota Gustav Seibt (“Die Zeit” 21.6.2000) – ha un cognome che richiama una veneranda solidità borghese, e l’allusione è ai Buddenbrook.

Tutto bene, dunque, se intorno non ci fosse una gioventù allo sbando, pronta a ogni violenza. Col primo furto, cui seguono scasso e colluttazione fisica di marca slava, scatta il meccanismo che condurrà Willenbrock all’epilogo finale. Hein articola la sua analisi su un doppio binario, psicologico e sociale. C’è l’individuo tendenzialmente pacioso e legalitario che chiede protezione ma, di fronte all’inerzia dello stato, alla sua incapacità di perseguire i criminali – la polizia tedesca si limita infatti a espellerli – cede all’angoscia trasformandosi egli stesso in allucinato giustiziere. E c’è intorno a lui una feccia pronta a tutto che tracima dai confini di un impero sovietico in sfacelo. L’indagine investe le pieghe della vita quotidiana sullo sfondo di una Berlino che ormai sente “la Siberia alle porte”.

Indicativa della visione che il romanzo propone circa l’Est europeo è la figura del Dr. Krylow. Un sanguigno russo a tutto tondo che forse solo un autore della Ddr, con la sua quarantennale dimestichezza con Mosca, poteva tracciare con mano così sicura. Ex-funzionario del passato regime, Krylow naviga ora tra gli scogli della burocrazia tedesca per conto di un fantomatico “Russian Venture Group”, trafficando in armi e non solo. Sarà lui a mettere nelle mani di Willenbrock “una vergine”, quella Smith and Wesson che finirà per abbattere l’imberbe ladruncolo penetrato in garage. Ed è attraverso il suo sguardo di uomo avvezzo al potere, perennemente scortato da una silenziosa squadra di picchiatori, che Hein ci restituisce l’immagine di una Russia sfiancata e mafiosa, in rapida deriva verso destra. Il declino della potenza sovietica genera infatti, nelle parole di Krylow, l’imminenza fascista: “A me va da dio. Basta che non pensi a come quelle canaglie hanno ridotto la Russia. Era un paese fiero, adesso è una rovina politica. Vede, io sono un russo. Non un europeo, solo un russo con quei gusti ridicoli e quella barbarie emotiva che già Puschkin lamentava. L’orgoglio fiaccato della mia patria mi colpisce dentro. Per noi russi è come il trattato di Versailles per voi tedeschi. E adesso aspettiamo il nostro Hitler, perché ce la cancelli la nostra Versailles”.

Degenerazione politica, criminalità e corruzione, ecco la diagnosi di Hein. Che non si serve solo di Krylow. Sulla Russia il romanzo procede infatti a voci incrociate, utilizzando i racconti di Genser, l’amico tedesco che a Est vende computer, così da offrire al lettore ulteriori squarci da thriller internazionale, si veda il mafioso moscovita con giannizzeri da macello che mozza l’orecchio al croupier di una bisca austriaca renitente al pizzo.

Proviamo a tirare le somme. Un verdetto così negativo sull’Est europeo, e per di più emesso da un autore di sicura fede progressista come Hein, è nuovo nella letteratura tedesca. Di più. Il tono di fondo si contrappone a quel bisogno di risarcimento morale, e quindi di riconciliazione con l’Urss, caratteristico di tanta prosa successiva alla catastrofe nazista. E allora? Guardiamo la carta geografica. Berlino dista dal confine polacco meno di Torino da Milano. E dall’ormai lontano 1989 attraverso quel confine migrano verso occidente, lungo il piano inclinato della storia, migliaia di esseri umani, di clandestini in cerca di un futuro. L’impatto più violento l’hanno subito i tedeschi orientali, un tempo ingessati – ma anche tutelati – da un sistema poliziesco. Oggi mi dicono che nei villaggi lungo l’Oder – il confine orientale – i contadini tedeschi, appena vedono un volto sconosciuto, si passano parola. Hein registra questa nuova situazione con dovizia di dettagli. Anche il fabbro di campagna aspetta un nuovo Hitler e il medico di turno vaneggia d’intere nazioni murate. Certo, talora si sente un eccesso descrittivo, trenta pagine per raccontarci l’irruzione notturna dei ladri nella casa di campagna di Willenbrock sono davvero troppe. Così come il fatto che da quella notte per lunghi mesi i due coniugi si sveglino a quella stessa fatidica ora può far sorridere il lettore italiano, ormai uso alle sparatorie nostrane.

Bisogna però riconoscere che Hein ha il coraggio di affrontare un tema scomodo, quello della sicurezza, rivendicando la nazione anche come comunità di diritti. Il segnale d’allarme lanciato con questo romanzo è radicale, e destinato a far discutere. Il paesaggio finale è quella di una Berlino primaverile dai giardini ben curati, la cui popolazione vive blindata. E’ l’ora di cena. Willenbrock si trastulla col revolver: “Tolse la sicura all’arma scarica e schiacciò il grilletto, si sentì un secco scatto metallico. Con le dita accarezzò il metallo scintillante, adesso era sollevato all’idea di possederla. Lo divertiva possedere una vera pistola”. Un’immagine domestica che segnala quale pericolo covi dietro le lustre facciate della nuova capitale tedesca.

Christoph Hein, Willenbrock, Frankfurt/M, Suhrkamp, 2000, 319 p.

da: L’Indice, ottobre 2000

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